Musica da camera per Max Loreau
M. D.
Max Loreau, Opera da camera, a cura di Adriano Marchetti, Panozzo editore, Rimini 2005.
Francine Loreau e Éric Clémens (a cura di), Les Ateliers de Max Loreau. Ecrire, tracer, penser, Aml- Editions Labor, Bruxelles 2005.
«Talvolta respiro più forte e all’improvviso, aiutato dalla continua distrazione, insieme al mio petto si solleva il mondo». Su questa doppia tensione, tra uscita di sé e riconquista di uno spazio esterno, descritta da Henri Michaux in uno dei frammenti più intensi che compongono la Notte si muove si soffermò per lungo tempo l’attenzione di Max Loreau. Studioso di rigorosa e rigida formazione, per oltre un decennio professore di estetica presso l’università libera di Bruxelles, nel 1969, appena quarantenne, Loreau decise di abbandonare l’insegnamento e l’abito accademico per dedicarsi a singolarissimi, e per certi versi ancora incompresi, studi sulla filosofia dell’arte.
Furono l’incontro con Jean Dubuffet – l’«inventore di continue invenzioni» di cui curò la sistemazione dei primi ventotto volumi del catalogo ragionato – con il movimento Cobra, costituito venti anni prima dagli amici Alechinsky e Dotremont, e, appunto, con Henri Michaux a marcare le tappe di una svolta che lo segnò radicalmente nelle sue pratiche di vita e nella sua ansia di conferire alla ricerca «una profondità simile al respiro».
Una ricerca, converrà specificarlo, di taglio strettamente fenomenologico, condotta attraverso una scrittura controllata e, al tempo stesso, pronta a esperire, più che improponibili forme nuove, nuove modalità di rapporto e, soprattutto, di compenetrazione tra «gesto artistico» e «prova di pensiero». Come indizio di questo rinnovato corpo a corpo con la lingua, in cui la chiarezza saggistica e l’urgenza di abbandonarsi, motu proprio, a un’apertura poetica ben di rado si distinguono, si è soliti indicare lo studio sulle «strategie della creazione», pubblicato da Gallimard nel 1973, che Loreau dedicò a Dubuffet. Ma, a ragion veduta, sarebbe più corretto intravedere nell’informe, ostico e per certi versi incomprensibile lavoro titolato Cri. Eclats et phases, pubblicato lo stesso anno, dal medesimo editore, il segno incontrovertibile del suo sviamento dalle idee ossessive di «chiusura» o di «risultato» da consegnare agli annali, quasi sempre sterili, della critica militante. Come, tutt’altro che amaramente, Loreau confessava a Jacques Derrida in una lettera ora confluita in uno degli ultimi libri del filosofo franco algerino, Ogni volta unica, la fine del mondo (pubblicato in Italia da Jaca book), Cri si presentava come «una specie di litania o di incanto filosofico, o come una matematica malconcia – in breve, filosofia. È qualcosa di rigoroso e, al contempo, rigorosamente impossibile». Se l’arte, scriveva Loreau, ha finito per essere «l’unica attività in cui siano rimasti all’opera lo spirito della techne, i legami con le forze più semplici, dimenticate, da cui sono scaturiti i nostri occhi, le radici della nostra esistenza», allora essa ha davvero poco «a che vedere con qualsiasi preoccupazione estetica».
Nell’arte, infatti, ciò che si mette e continuamente si «rimette in gioco è, prima di tutto, l’origine stessa del mondo». È in questa dimensione obliqua della ricerca – una dimensione più indicativa, dunque, che dimostrativa – che Loreau dedicò proprio a Henri Michaux, e alla sua iperbolica fame di spazi bianchi su cui cercava di inscrivere «altre origini, altri cominciamenti del mondo», uno dei suoi lavori più raffinati dal titolo La poesia alla prova della mescalina. Accanto a scritti inediti o di difficile reperibilità dedicati ai logogrammi di Christian Dotremont, a Asger Jorn o Corneille , il saggio in questione confluisce ora in un volume, prezioso e stimolante, dal titolo Les Ateliers de Max Loreau. Ecrire, tracer, penser. A questo, si aggiunge un altro testo, Opera da camera che, per la cura di Adriano Marchetti, raccoglie i frammenti, organizzati in quindici sequenze poetiche, de Nell’erompere del momento e, soprattutto, Il mattino di Orfeo, un libretto d’opera che Loreau scrisse su sollecitazione del compositore Gérard Garcin.
Ripetizione e origine sono «prove di pensiero» e termini chiave ricorrenti anche in queste due «opere da camera» del filosofo belga. Nel legame tra «ripetizione e origine», legame messo alla prova dal continuo lavorio condotto sulla dimensione spaziale dell’arte e della scrittura, Loreau intravede infatti la possibilità di accedere a «ciò che non è esagerato definire una nuova coscienza poetica». Una coscienza che si nutre di visioni, ma si fonda pur sempre «sulla parola». Ma il nostro, purtroppo, nonostante sforzi continui, rimane «un linguaggio da poliziotti, un linguaggio della constatazione». Passiamo il tempo, scriveva Loreau, «a stilare processi verbali, a regolare la circolazione», mentre dovremmo semplicemente «fare spazio», rinunciando alla divisa. «Io non voglio essere un poliziotto», poiché «è la visione che si fonda sulla parola, non viceversa, e la parola è una emissione di spazio, un distanziamento», non un’articolazione, per quanto sottile, del controllo. In questo senso, proprio nel Mattino di Orfeo, la figura di Euridice mostra come sia possibile «dar corpo» all’apertura di nuovi spazi di vita.
La «seconda morte» di Euridice, la sua «presenza assente», il suo svelarsi proprio mentre scompare, equivarrebbe infine a una presa di coscienza sul respiro e sulle «implicazioni ontologiche della visione»: «la luce è qui l’immensità del riscoprire, è il luogo in cui il desiderio si moltiplica, sovrabbonda. Il luogo in cui si respira». Dietro la maschera bianca di Euridice, si consuma una prova ininterrotta e incalzante sull’«inizio che non ha mai fine» e che per Loreau – scomparso nel 1990, dopo due anni di afasia, dolore e «vuoti di memoria» causatigli dai postumi di un intervento chirurgico – coincideva da sempre con una «sublime balbuzie». «Che importa la linea chiara delle cose», scriveva, se da esse «scaturisce il ritmo»? Solo cogliendo questo ritmo, solo accordandosi al suo respiro incerto, «il mondo apparirà vasto, inebriato. Allora, sarà come se lo stringessi fra le braccia, e balbetterò, felice».
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