Consacrazioni mondane: Bousquet, Masson
Marco Dotti
Pierre Cabanne, La chambre de Joe Bousquet. Enquêtes et écrits sur une collection, André Dimanche éditeur, Marseille 2005.
Dalla sua stanza in penombra, al primo piano del numero 51 di rue Verdun, a Carcassone, Joë Bousquet guardava il mondo. E il mondo ricambiava quello sguardo intenso, consacrato a una passione senza fine per la vita e la poesia, lasciando entrare dalle persiane, per tre quarti costantemente socchiuse, un sottile raggio di luce. Per raggiungere il letto in cui si trovava confinato da oltre trenta anni – ricordava, al momento della morte dell’amico scrittore, il collezionista e critico Pierre Guerre – «bisognava attraversare corridoi oscuri, atri oscuri, passare attraverso porte parimenti oscure». Bousquet viveva là, al termine improbabile di questa notte senza fine, protetto da un paravento quasi impenetrabile che, come una «patina d’oro», rivelava, più che nascondere, il risvolto angelico del suo terribile segreto.
Bisognava liberarsi di quel velo, concludeva Guerre, «cercando a lungo il varco che permetteva di penetrare» al cospetto di Bousquet, per capire infine che, sul suo viso, così come su tutto ciò che lo circondava, «si stendeva una sola cosa: l’inesorabile». Nella stanza di Joë Bousquet, «né il bagliore di un fulmine, né il chiarore dell’alba generavano turbamento» o scompiglio, piuttosto «penetravano negli occhi, come nel cuore penetrerebbe una lama dolcissima». Misteriosi «lampi elettrici», raggi che uscivano dai libri sparsi sul letto o dalla «lunga pipa» con cui il poeta assumeva le sue quotidiane, fortissime, dosi d’oppio: tutto, anche le cosa più banale, per qualche strana magia impediva «il disorientamento, imponendo al respiro di arrestarsi per un attimo, permettendo così all’estraneità di sedimentarsi». Il disordine apparente della stanza si rivelava in tal modo simile a quello che pervade i più austeri «luoghi di culto e del pensiero, delle fiamme e dei reliquiari».
Il 27 maggio del 1918, appena ventunenne, luogotenente nei pressi di Vailly, Bousquet era stato raggiunto da un proiettile tedesco che lo avrebbe privato per sempre dell’uso delle gambe. «Una pallottola mi colpì in pieno petto, a due dita dalla spalla destra, attraversando trasversalmente i polmoni per uscire infine dalla scapola sinistra. Sono caduto sentendo un grido, ma come se non fossi stato io a gridare». Nel Breviario azzurro, Bousquet ripercorrerà questa «esperienza della ferita», ipotizzando – ma la realtà, in questo caso, non era così distante dall’immaginazione – che a colpirlo fosse stato un soldato tedesco del battaglione comandato, proprio sul fronte avverso, dal suo futuro amico Max Ernst. «Quando l’ho conosciuto, Max mi ha raccontato cosa aveva visto della battaglia di Vailly: le brume della sera hanno facilitato la nostra avanzata, mi diceva, la discesa della notte ci ha nascosto la ritirata dei francesi. Quando sono uscito da Vailly, si vedevano le stelle». Fu dopo questo racconto che Bousquet chiese a Ernst di realizzare un quadro con uno dei suoi sogni di guerra. «Mi inviò allora uno splendido sottobosco, che contemplavo prima di addormentarmi». Ma, soprattutto, il quadro di Ernst – «fratello visionario» – anticipò, più che descrivere, alcuni dei suoi sogni, al punto che Bousquet se ne fece compenetrare, dimenticando il tempo esterno, e abbandonandosi a una sincronicità radicale. Il sogno, per lui, «non si oppone più al reale, ma il reale contiene il sogno».
Un sogno maturo, senza speranza, se è vero che la sola «speranza del poeta è l’ascesa schiacciante di un uomo che ha vinto la speranza». Che cos’era diventato, per lui, il tempo quotidiano, visto, vissuto, patito da quel luogo di «certezze senza alcuna speranza» e di immobilità, pressoché totale, che era ormai simboleggiata dalla sua camera? Dietro a «quattro muri», con un viso «che ricordava Coppelius o l’alchimista immortalato da Dührer», Bousquet, con i numerosi amici che lo circondavano, parlava di Parigi, della vita culturale che vi si svolgeva, «come se fosse sempre stato là, e toccasse con mano quella vita e quei fatti». Vestito di lino, ben curato, Bousquet apriva, leggeva e mostrava lettere di Paulhan, Masson o Bellmer, o indicava i disegni che Dubuffet gli aveva donato, ritraendolo sul letto, e adornavano le pareti uniti a quelli di Yves Tanguy, Jean Arp, Fautrier, Magritte o Dalí. A questo «disordine consacrato» e allo strana forma di luce che la sola presenza di Bousquet riusciva a evocare, Pierre Cabanne – storico dell’arte, ottimo disegnatore, giovane amico del poeta di Carcassone – ha infine dedicato una recente, affascinante «inchiesta» che ha per titolo La chambre de Joe Bousquet. Enquêtes et écrits sur une collection.
Difficile, suggerisce Cabanne, ricostruire la presenza di Bousquet nella letteratura e nell’arte francesi senza indagare la presenza, nella sua vita e nella sua opera, del lavoro di due, o forse più, generazioni di pittori e artisti. I pittori, confessava a Maurice Nadeau, lo avevano riempito di vita: «ero talmente povero che della mia camera hanno fatto una dimora incantata». Le opere che lo circondavano, coprendo le pareti della stanza, come osserva Cabanne, «ostruivano le finestre e in qualche misura lo vegliavano». Opere «entrate nella camera, talvolta per effrazione, come messaggeri che arrecavano nuovi misteri da indagare, o sogni da decifrare». Bousquet confesserà, infine, di aver provato una sorta di vertigine, un bagno di «luce poetica», davanti alle opere di André Masson uno degli artisti da lui più amati ma che, per ironia della sorte, non riuscì mai a incontrare. Anche per questa ragione, colpisce, tra i testi raccolti da Cabanne, uno splendido ritratto che Bousquet dedica proprio a Masson, come lui surrealista ante litteram, come lui ferito al torace fra le trincee della Grande guerra, come lui «folgorato dalla luce della morte» e, dopo l’inferno, «ritornato al sole del Sud», per meglio curarsi nel fisico e ritemprare l’umore. Di Masson, Bousquet apprezza «il circolo vertiginoso degli elementi» messo in gioco soprattutto, ma non solo, nei tableaux surréalistes.
Questo pittore, scriveva nel 1929, in una nota apparsa nei marsigliesi “Cahiers du Sud”, è una sola cosa con «il naufragio del suo sguardo, nulla lo trattiene, come una zattera alla deriva sull’acqua della follia». Le sue tele, continua Bousquet, «mi hanno aiutato a comprendere l’estasi che procura lo yagé, favolosa pianta della Colombia, e ancora di più mi trovo indotto a credere che, in sogno, abbia per molto tempo masticato la fibra del peyote». Visione «aurea dell’interno di un corpo» senza organi, l’olio della Foresta di Masson – opera del 1923 – gli si rivelava come un «vento salubre» capace di transitare in quella ferita che Bousquet considerava sempre aperta nel costato o nel cuore. Un vento, una forza capace, soprattutto, di sottrarlo al «cerchio magico della prigionia». Proprio a Masson, e alla sua straordinaria produzione grafica, la città di Cannes ha dedicato nell’aprile 2006 una importante esposizione. Per la prima volta, infatti, sono state raccolte e presentate al pubblico nello spazio espositivo della Malmaison, sulla celebre Croisette, i principali lavori editoriali e i migliori «grandi libri» di Masson. Si tratta di circa duecento tavole originali a colori, realizzate, a partire dal 1926, con varie tecniche – dall’acquaforte alla litografia – e a suo tempo destinate ad illustrare libri tirati in pochissimi esemplari, nominativi e quindi sottratti ai normali canali di circolazione della bibliofilia e del libro d’arte. Da Toro di Michel Leiris a L’Espoir di André Malraux, dai poemetti malgasci raccolti da Jean Paulhan a Le Mort di Georges Bataille fino al Voyage à Venise scritto dallo stesso Masson, nei giorni in cui si trovava di passaggio tra Bergamo, Brescia, Mantova e quel luogo «in cui l’aria e l’acqua appaiono elementi indistinti», e il sogno della vita si mischia ai miasmi della peste. Forse mai come in questi lavori – per lo più sconosciuti al mercato dell’arte e mai prima d’ora oggetto di esposizione – la capacità tecnica di Masson si unisce alla sua sconcertante, ma non meno precisa, «passione per gli abissi». Quella passione che, appunto, era cara a Bousquet e gli faceva credere che non vi fosse via più sicura, e serena, al dispendio di sé che quella rappresentata dal perdersi, giorno per giorno, sguardo dopo sguardo «in una foresta di immagini». Proprio l’immagine, ogni immagine, avrebbe infine ribadito Masson, «nasce nell’oceano emozionale» che ci sovrasta e «alla fine vi si riversa o, se preferite, a quel oceano non può che fare ritorno».
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.