Note su Mishima (1)
Marco Dotti
«Il Nietzsche dell’erotismo e dell’impossibile». Yukio Mishima si rivolgeva in questi termini a Georges Bataille, uno dei pochissimi uomini, aggiungeva, «ad averla guardata in faccia, la morte di Dio». Solo dopo questa esperienza, che Mishima considerava, evidentemente, una sorta di condizione necessaria per aprirsi a certi canali sottili dell’esistenza, «Bataille poté dedicarsi con passione allo studio dell’eros». In ogni caso, fu proprio attraverso la riflessione e lo scavo sui temi della morte e di Dio che l’attenzione di Mishima si scoprì attratta dalle ricerche che Bataille dedicò all’erotismo e alla naturale, ma per nulla scontata, ridefinizione del suo rapporto col sacro.
Se «una particolare, grande, idea di Dio» – scriveva Mishima, raccontando un episodio che lo segnò fin dai giorni, tutt’altro che felici, dell’infanzia e in qualche modo rafforzò la sua irrequieta ricerca di una morte spettacolarizzata ed esemplare – trovò la propria fine nel tentativo fallito di colpo di Stato con cui, nel febbraio del 1936, un gruppo di giovani ufficiali si propose di restaurare il potere assoluto dell’Imperatore, fu però con la resa e la dichiarazione con cui Hiroito negò la propria natura divina, conseguenti alla disfatta della Seconda guerra mondiale, che «questa morte» svelò i suoi tratti più cruenti, mettendosi definitivamente, e incessantemente, «all’opera».
Un movimento incessante di dispendio, legato ai due poli di una stessa sconfitta, che Mishima intravedeva, sperando di poterlo un giorno condividere negli stessi termini, nei corpi «giovani e vigorosi» in cui si incarnavano gli spiriti eroici dei militari evocati, durante un’esperienza di trance, «al suono di un flauto d’osso», in uno dei suoi racconti più intensi. La voce degli spiriti eroici, infatti, è proprio il tentativo, per forza di cose frustrato, di condividere anche esteticamente quel «sogno di un amore impossibile» che coincide in ultima istanza con la pratica gioiosa della perdita di sé – «non proviamo sofferenza. È una morte supremamente felice» – praticata dai militari insorti e condannati al suicidio collettivo dalle norme stesse del rituale che imponeva loro di «agire». A conti fatti, però, questo agire si basava sulla «certezza di una impossibilità» continuamente affermata e, al tempo stesso, contraddetta. È proprio in questa oscillazione tra polarità inverse che, sulla scorta di Bataille, Mishima individuerà i punti di contatto tra i due vertici – l’alto, rappresentato dall’Imperatore, e il basso, rappresentato dai fuori casta e dagli attori, entrambi a contatto con la morte- dell’erotismo e del sacro. Un sacro che, chiosando Bataille, inviterà a «occidentalizzare», aprendo così una vera e propria breccia nella tradizione, breccia in cui si inserirà, in tempi ancora recenti, l’Oshima dell’Impero dei sensi.
«Se fosse esistito anche un solo amore non contraccambiato da Sua Maestà», scrive Mishima, «lo spirito guerriero si sarebbe estinto. Ma ciò è impossibile: su tale impossibilità si basa l’indissolubile legame fra signore e suddito. Basterà amare, amare, amare, amare sino alla follia, sino al sacrificio di noi stessi. Anche l’amore più unilaterale, meno corrisposto, se saprà essere assolutamente puro, se l’ardore della sua passione sarà sincero». Nel vortice del proprio furore – «divenire kamikaze significa diventare noi stessi divinità. Pur essendo uomini, pregavamo noi stessi, in noi confidavamo. In noi e nella nostra morte» – i giovani insorti riattivavano l’esperienza di ciò che Bataille aveva chiamato, con termini non propriamente hegeliani, riferendoli a sé e alla propria dimensione di vita, «negatività senza impiego».
In tal senso, come osserva Franco Rella, proprio il «residuo fermentare», che ricorda la decomposizione dei tessuti organici, lo scarto non compreso dal sistema diventa qui «la chiave per una comunicazione che è paradossalmente resa possibile proprio perché il negativo, anziché risolversi, ha inceppato il funzionamento del sistema stesso e lo ha portato al suo fallimento». [1]. Un fallimento produttivo, dunque, che attirerà l’attenzione di Mishima fin da quando, nel 1960, a quattro anni dalla sua prima pubblicazione in Francia, una «maldestra» traduzione di Muro Junzuke de L’erotismo gli offrirà l’occasione per scriverne una recensione, a cui seguirono, dieci anni dopo, come segno di un confronto serrato e mai spento con i lavori di Bataille, le note dedicate a Madame Edwarda e Mia madre. Testi scritti con un’apparente freddezza che, dopo un’esposizione elementare dei contenuti, ricollocano e definiscono il loro apporto nel contesto della filosofia occidentale e delle sue derive orientali. Una pratica leggera, una forma estetizzante, verrebbe da dire, una scrittura in cui Mishima applica la «negatività senza impiego» allo schema della recensione, della premessa, della nota tecnica, forme chiuse e brevi preferite, proprio per il loro apporto di «non-sapere», alla più complessa e sistematica struttura del saggio.
D’altronde, proprio in una lettera scritta nel dicembre del 1937 e indirizzata a Kojève, Bataille affermò infatti la necessità di abbandonarsi, contro i sistemi chiusi, a una specie di dialettica dell’incompletezza, un non-sapere capace di mettere in circolo la «potenza della negatività incarnata» dall’uomo. «Io stesso sono questa negatività senza impiego», scriverà, pertanto «immagino che la mia vita – o meglio la ferità aperta che è la mia vita – costituisca di per sé la confutazione del sistema chiuso hegeliano». In questo senso, per Bataille «l’uomo non potrebbe vivere senza infrangere le barriere da lui stesso elevate contro il suo bisogno di dispendio», e sempre per questa ragione, tutta la sua esistenza non fa che «prodursi in una specie di vortice tumultuoso», che si genera «quando gli uomini ridono davanti a rappresentazioni dissimulate della morte o quando sono spinti eroticamente, gli uni verso gli altri, da immagini che sono come tante ferite aperte sulla vita». Non a caso, la tematizzazione della «ferita» occupa grande rilevanza nelle opere di Mishima – in particolare nel racconto Patriottismo e nel film che ne trasse e di cui curò la regia: Rituali d’amore e di morte.
Opere che dichiaratamente si ispirano alla riflessione di Bataille in tema di erotismo e di perdita. Lo stesso medium descritto da Mishima mentre evoca gli «spiriti eroici» si muove da uomo ferito, e tra gli «spiriti» chiamati in causa ne appaiono alcuni «col petto lacerato dal furore, non da una pallottola». Una forza li attraversa, li anima, li scuote rendendoli simili al San Sebastiano sottoposto al martirio alla cui iconografia Mishima attinse sensa remore. Iconografia – e non solo iconoclastia, come è stato scritto – erotica di una corporeità per definizione innaturale e perversa. Proprio le ferite di San Sabastiano, con i polsi stretti da una corda, e il volto contratto in una smorfia di dolore, troppo simile al piacere, ricordano quelle dell’amplesso che, secondo le parole di Bataille, «ci riporta non alla natura, bensì alla totalità in cui l’uomo ha parte solo perdendosi», in quanto anticipazione della morte e della corruzione che la segue. È proprio in quest’ottica che «l’erotismo si rivela l’analogo di una tragedia, in cui l’ecatombe dell’epilogo eguaglia tutti i personaggi».
In verità, la totalità viene raggiunta solo al prezzo di un estremo sacrificio» e «l’erotismo la raggiunge appunto nella misura in cui l’amore diventa una sorta d’immolazione».
È in questo continuo, ma talvolta sfasato, andirivieni tra dedizione suprema e sacrificio di sé, tra abiezione e santità, dunque che si innesta «il vuoto della riflessione» di Mishima su Bataille, ed è anche grazie al suo prisma orientale, dichiaratamente deformante, che l’esercizio crudele dell’erotismo ritorna a interrogarci senza scrupoli, quasi fosse, pur nei suoi giochi di assenze, la prova più radicale dell’esistenza dell’altro.
Note
[1] Franco Rella, Premessa a Georges Bataille, Storia dell’erotismo, a cura di Franco Rella, traduzione di Susanna Mati, Fazi, Roma 2006.
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