philosophy and social criticism

Nella poesia di Juan Gelman la “chiara oscurità” del ricordo

di Marco Dotti

Nato a Buenos Aires nel 1930, costretto all’esilio per i contenuti espressi nel suo lavoro giornalistico e per la sua ferma opposizione alla giunta militare che prese il potere nel 1976, Juan Gelman è sempre stato, e tuttora rimane, un testimone ostico da aggirare per chi ha cercato di fare dimenticare o di nascondere dietro il computo di mille altri drammi, i connotati specifici della dittatura argentina. «Nel nostro continente, devastato dalle dittature militari», scrive Gelman, «la poesia non è uscita indenne dai drammi che ha attraversato, drammi per dire i quali non sempre riusciva a trovare parole. E tuttavia ne è venuta fuori più nutrita, perché è nella sua natura alimentarsi di ogni movimento verso l’altro, e cerca l’odore della gente come una speranza».
Con i suoi articoli e la coraggiosa raccolta Afganistan, Irak. El Imperio empantanado (Editorial Planeta, 2003), politicamente tanto orientata quanto scorretta, lei ha dimostrato la passione che ancora la lega a un lavoro – quello del giornalista – che non sembra affatto marginale nella sua vicenda letteraria. Lei ha iniziato molto giovane come redattore di cronaca, a Buenos Aires. Tante cose sono cambiate da allora. Ritiene che sia ancora praticata, almeno negli esempi migliori, quella etica del giornalismo che lei ha conosciuto e che si può estendere, più in generale, all’etica della parola?


Fin dalla sua fondazione, avvenuta circa venti anni fa, lavoro per il quotidiano argentino «Pagina/12». Ho ricoperto diverse mansioni e, attualmente, tengo una rubrica settimanale. All’inizio i miei articoli trattavano quasi esclusivamente fatti artistici e letterari, questo almento fino all’11 settembre 2001. Poi le cose sono cambiate, non solo per me. La risposta a quell’attentato terroristico mi sembrò l’inizio di una tappa estremamente pericolosa e i fatti che ne sono seguiti non dimostrano certo il contrario: l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, i preparativi di una guerra contro l’Iran, le azioni degli Usa dirette a destabilizzare il Medioriente e l’Asia centrale, lo scontro fra Usa e Russia sempre più aspro, sono fatti che potrebbero disegnare funghi atomici nel cielo del mondo. È chiaro che i «falchi-gallina» di Washington vogliono assicurarsi il rifornimento di petrolio per almeno mezzo secolo, e non importa quanto sarà macchiato di sangue. Fortunatamente ci sono ancora giornali e giornalisti indipendenti che si adoperano a raccontare tutto questo. L’etica della parola giornalistica ha radici in ciò che un giornalista denuncia. Nella poesia, invece, l’etica deriva dall’estetica.

La caccia al «terrorista» comincia sulle televisioni e sui giornali e finisce nella vita quotidiana, creando strani cortocircuiti fra paure, fantasmi e brame di potere. Il richiamo a un nemico sovrannazionale legittima forme di guerra non convenzionale, e stati di eccezione permanente. Forse sta qui una delle caratteristiche che lega il potere post-11 settembre alle dinamiche della «globalizzazione». È per questa ragione che lei recupera il termine «impero»?


I nostri sicuramente conoscono il Progetto per il nuovo secolo statunitense, elaborato nel 2000 da una tank-force ideologicamente vicina alle tesi di Leo Strauss: siamo a molto prima dell’11 settembre. In quel testo si proclama che gli Stati Uniti devono diventare i poliziotti del mondo: non è, questa, l’espressione di una volontà imperiale? È ovvio che la Casa Bianca ha imposto uno stato di eccezione permanente, anche sul proprio territorio dove gran parte dei diritti civili e democratici sono stati rapidamente cancellati dall’11 settembre. Non credo, tuttavia, che stiamo assistendo a «uno scontro di civiltà». È che i tre quarti delle riserve di petrolio e gas naturale del pianeta si trovano in paesi arabi, islamici, africani e asiatici. E anche in Russia, che infatti non è stata esclusa dagli obiettivi di un intervento militare nel «Conplan 8022» elaborato dal Pentagono, dove è anche previsto l’uso di bombe nucleari tattiche, quelle cosiddette «pulite». Pe quanto riguarda la situazione nel Cono sud dell’America latina, si sta evolvendo favorevolmente ma in forma asimmetrica nei diversi paesi. Farò riferimento solo all’Argentina, perché è la situazione che conosco meglio. Come è noto, il governo Kirchner ha migliorato sostanzialmente la situazione relativa ai diritti umani. Ha messo fine all’impunità dei crimini commessi dalla più recente dittatura miliare, che pesava come il piombo su una società civile ferita: ha annullato quella che, secondo una pessima definizione, si chiamava la «legge del perdono»: non conosco nessuna vittima, infatti, che abbia delegato ad altri la facoltà di perdonare. Le misure economiche di questo governo – che hanno compreso anche la fine delle relazioni con il Fmi – hanno ottenuto la diminuzione degli indici di disoccupazione, del lavoro nero, della povertà e della miseria; ma l’eredità menemista in questo campo è così pesante che ci vorranno ancora lunghi anni per far cicatrizzare le ferite. E gli interessi internazionali, quelli dell’oligarchia finanziaria per esempio, continuano a esercitare pressioni.

Anche per Valer la pena il suo libro che raccoglie poesie scritte tra il 1996 e il 2000, da poco pubblicato in Italia per Guanda, vale la definizione, da lei più volte proposta, di un esercizio della poesia come «un artigianato ardente»?


Ardente, sì, grazie a tutto ciò che viene messo al lavoro per indebolire una ossessione. Cesare Pavese ha spiegato molto bene il processo poetico in cui, quando l’ossessione è a «cento», l’espressione è ferma a zero. Mentre si scrive, questi due livelli crescono o decrescono a vicenda, si alternarnano, talvolta si incrociano, e quando l’ossessione incontra l’espressione nascono i poemi più felici.

In una sua poesia titolata «Monstrar», si legge: «Nella memoria ho parole che non si possono dire». Si riferiscono evidentemente alla sua condizione di esiliato, e al dramma che è piombato sulla sua famiglia quando suo figlio e sua nuora sono entrati nelle fila dei desaparecidos. Lei si confronta spesso, nei suoi versi, con il lato oscuro della memoria, con quella che chiama la «chiara oscurità» del ricordo.


Senza memoria non c’è scrittura possibile. Il grande poeta messicano José Emilio Pacheco definì la poesia come «l’ombra della memoria». A volte credo che la poesia sia l’ombra di questa ombra. La vita ha mille facce, e l’immaginazione ne esplora i lineamenti per indovinare quel che vorrebbero dire.

Valer la pena è anche un libro di voci plurali. Sono molti i nomi dei poeti direttamente chiamati in causa: Celan, Hölderlin, Pound, Heaney, Cernuda. È possibile che la poesia si sottragga alla dimensione individuale del ricordo e si apra alla pluralità del lutto condiviso, di drammi che pur affiorando e poi scomparendo nei modi tipici della poesia, restano drammi comuni a tanti?


Non solo è possibile, ma accade: la prima persona di cui parlarono grandi poeti come Pablo Neruda, César Vallejo, Paul Celan è una prima persona plurale che, appunto, narra e canta il dramma e la tragedia di molti. Nella mia raccolta, che lei citava, c’è un poema titolato «Allì», che tematizza la questione del ricordo (individuale e di tutti), evocando compagni assassinati dalla dittatura militare, che continuano a vivere nella mia memoria. C’è un verso preciso, sull’orrore del dimenticare, che funziona da richiamo a chi vorrebbe lasciare queste persone indietro nella memoria. La poesia è una prova della memoria. Vive il ricordo come una presenza ossessiva.

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