philosophy and social criticism

Nietzsche, profezia o innocenza

"Nietzsche"

DI MARIO CASSA

Tra i Frammenti postumi (nov. ’87 – marzo ’88) di Nietzsche si trova un testo, spesso citato, che porta il titolo di Prefazione (Vorrede).

Testo noto e citato, dicevo, quello di questo Vorrede, ma poche volte misurato nel suo significato di discorso estremo, decisivo; poche volte letto con quello stato d’animo che qui più che mai Nietzsche esige; così come lo dice in apertura del testo stesso: «Le cose grandi esigono che di loro si taccia o si parli con grandezza: con grandezza, cioè cinicamente e con innocenza». Ed ecco dunque, di seguito, il testo dei capoversi 2, 3 e 4:); una delle ultime prefazioni per quella Volontà di potenza che non prenderà mai forma definitiva. I frammenti prenderanno forma infine nell’ultima invenzione artistica, letteraria furente e fulminea: il Crepuscolo degli idoli e l’Anticristo.

Testo insuperabile quello dei frammenti postumi; perché gelidi, nudi d’ogni veste letteraria, d’ogni “menzogna” artistica, d’ogni “opera d’arte”.

– «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nihilismo. Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia dappertutto: tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare».

– «Chi prende qui la parola, al contrario, non ha fatto altro che rammentarsi: come un filosofo e solitario per istinto, che trova il suo vantaggio nello stare in disparte, nello stare al di fuori, nella pazienza, nell’indugio, nel rimanere indietro; come uno spirito temerario e sperimentatore, che si è già una volta perduto in ogni labirinto del futuro; come uno spirito di uccello profetico, che guarda all’indietro quando racconta ciò che verrà, come il primo perfetto nihilista d’Europa, che però ha già vissuto fino in fondo il nihilismo stesso – che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé».

– «Giacché non ci si inganni nel senso del titolo con cui sarà chiamato questo vangelo dell’avvenire. “La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori” – con questa formula si esprime un contromovimento quanto a principio e a compito: un movimento che in qualche futuro prenderà il posto di quel perfetto nihilismo; ma che lo presuppone logicamente e psicologicamente, che in ogni modo può rivolgersi solo a esso e venire solo da esso. Perché infatti è ormai necessario l’avvento del nihilismo? Perché sono i nostri stessi valori precedenti che traggono in esso la loro ultima conclusione; perché il nichilismo è una logica pensata sino in fondo dei nostri grandi valori e ideali – perché dobbiamo prima vincere il nihilismo, per accorgerci di quel che fosse propriamente il valore di questi “valori” … Noi abbiamo bisogno, quando che sia, di nuovi valori…».

Chi mai nell’ultimo secolo della cultura, della filosofia europea ha espresso questi concetti con tale innocenza?

Per intenderli nella loro forma concettuale più esatta e ri gorosa bisogna correre lassù, agli anni del primissimo Ottocento, fra Fichte e Hegel. Il discorso logico che qui Nietzsche ci disegna è esattamente quello del quale già ci ha detto, preavvisandoci che con esso – formulando concetti, specie, forme, leggi – l’uomo «non è in grado di fissare il mondo vero», ma solo «un mondo che è calcolabile, semplificato, comprensibile … per noi» [VIII**, 9 (144)].

Il dualismo tra mondo vero e mondo vero per noi uomini nelle parole di Nietzsche della fine 1887, resiste ancora: il dualismo presupposto generatogli da tanto studio del fenomenismo illuministico, o, per dir meglio, del dogmatìsmo realistico propinatogli con secolare insistenza dalla scienza erudita. Ma benappunto, la forza del rigore dialettico al quale infine lo costringe proprio il nihilismo, l’esperienza del nulla, fatta libera da ogni possibile ambiguità fenomenistica, proprio quel nihilismo del quale ha fatto una esperienza piena, nella tortura delle sofferenze personali e nell’angoscia del vivere pubblico, del naufragio della décadence post-wagneriana, proprio questo nihilismo lo porta infine alla coscienza dialettica del nulla hegeliano. Al nulla hegeliano che condiziona e provoca l’essere della realtà storica, Nietzsche oppone la volontà di potenza; una disperata velleità, a dire il vero, che introduce tuttavia ad un volontaristico tentativo di «giustificazione economica della virtù» [VIII**, 10 (11)].

«Il compito è quello di rendere l’uomo utile il più possibile, e avvicinarlo, fin dove si può, a una macchina infallibile; a tal fine dev’essere fornito delle virtù di una macchina. (…) Qui la prima pietra dello scandalo è la noia, l’uniformità che ogni attività macchinale comporta».

D’altronde, appena sopra [id. 10 (10)] il nihilista Nietzsche aveva avvertito: «Che si facciano volentieri le cose spiacevoli – tale è lo scopo degli ideali». E tornando al paragrafo 10 (11): «Imparare a sopportarla – e non solo a sopportarla – imparare a vedere la noia circondata da una superiore attrattiva: è stato questo finora il compito di ogni organizzazione scolastica superiore. (…) Il filologo è stato perciò finora l’educatore in sé poiché la sua attività stessa fornisce il modello di una monotonia dell’attività che va fino al grandioso. Sotto la sua bandiera il giovane impara a “sgobbare”: prima condizione di quella che sarà un giorno la valentia dell’adempimento meccanico del dovere».

Il tentativo di una “giustificazione economica della virtù” prosegue con il riconoscimento della necessità di «dimostrare che per un consumo sempre più economico dell’uomo e dell’umanità, per un “meccanismo” sempre più saldamente intrecciato degli interessi e delle prestazioni, ci vuole un contromovimento [id., 10 (17)]. Io lo definisco come una secrezione di un sovrappiù di lusso dell’umanità: in esso deve venire in luce una specie più forte un tipo superiore. (“Ich bezeichne dieselbe als Ausscheidung eines Luxus – Überschusses der Menschheit: in ihr soll eine stärkere Art, ein höherer Typus aus Licht treten”) [De Gruyter, Band 12, 10 (17)]. Appena avremo raggiunto l’ormai inevitabile amministrazione economica generale della terra – (il “nihilista” conosceva dunque già un secolo fa, come si vede, l’attuale entusiasmante globalità ) – l’umanità come macchina potrà trovare in quel servizio il suo miglior senso: come un enorme ingranaggio di ruote sempre più piccole, sempre più finemente “adattate”. ( … )

In contrasto con questo rimpicciolimento e adattamento degli uomini a una più specializzata utilità, c’è bisogno del movimento inverso – di generare l’uomo sintetico assommante, giustificante per il quale quella trasformazione in macchina dell’umanità, è una condizione preliminare di esistenza, come un telaio su cui egli può inventare la sua superiore forma d’essere (…). Per parlare in termini morali, quella macchina totale, la solidarietà di tutte le ruote, rappresenta un massimo nello sfruttamento dell’uomo, ma presuppone coloro in vista dei quali questo sfruttamento ha senso. Altrimenti non sarebbe in, realtà altro che il rimpicciolimento di valore del tipo uomo, un fenomeno di retrocessione nel più grande stile».

Il nihilismo, proprio qui, in presenza dell’ultrauomo – «als ein Untergestell auf dem er seine höhere Form zu sein sich erfinden kann…»[De Gruyter, Band 12, 10 (17)] – assume la sua manifestazione estrema. Nessuno più di Nietzsche ha sperimentato, conosciuto questa umiliazione, questa svalutazione – («Wert-Verringerung des Typus Mensch») – questa retrocessione – («ein Rückgangs-Phänomen in grösste Stile»).

Proprio qui dunque Nietzsche constringe il lettore a pensare che nel 1887, solo da quattro anni, è morto Carl Marx, l’autore della Critica dell’economia politica, del Capitale; davvero un “contromovimento”, questo, in grande stile. Occorre chiedersi dunque, ancora una volta, perché Nietzsche non nomini Marx. Forse perché sa di essergli terribilmente vicino?

L’orrore che impediva a Marx di intrattenersi, senza la sua sovrana ironia, su tesi, su prospettive analoghe a queste, non trattengono affatto Nietzsche. Certo è che Marx, che pur scrive e discorre sempre, ad ogni occasione, di critica dell’econornia, di crude giustificazioni, a modo suo, dell’economia Marx, dico, s’appassiona all’economia politica come meglio non può darsi. Marx è, a modo suo, ancora, anche uno scienziato. E Nietzsche invece non lo può essere, se non in una condizione di parossismo intellettuale che alla scienza – in generale, ma qui quella economica in particolare – non attribuisce il benché minimo valore. La cultura, anche l’economia politica socialdemocratica, nell’atmosfera della décadence, post-wagneriana, s’è disfatta, ha perso per Nietzsche ogni valore, ogni credito. La dialettica dei suoi nichilismi – (sotto, sopra, fuori) – non può servire a costruire un processo storico; che sia del passato o sia dell’avvenire. La scienza dei positivisti ha distrutto, ha dissolto nella neutralità tutti i valori. Questo è il tormento che consuma l’anima di Nietzsche: alla fine del secolo, in vista della vita che finisce, il pensiero suo vede la prigionia dell’assurdo, dell’impossibile.

Dice puntualmente il commento di Colli e Montanari al Vol. VIII: «Contro questa vertigine, neppure la scienza, a questo limite può offrire un aiuto. Già da qualche anno Nietzsche ha tolto alla scienza il ruolo del protagonista»(Vol. VIII, pag. 425).

La fenomenologia che filtra le esperienze, le scienze tramite le quali, grazie alle quali il soggetto pensante, l’io, o diciamo semplicemente il pensare tenta di pensare, appunto l’origine, il fondamento del suo essere e comparire e svolgersi, non ha sviluppato mai in passato un giudizio più severo, radicale, di quello che Nietzsche ha svolto nelle sue spietate pagine, incalzato dalle sofferenze che, con brevi pause, metteranno a più dura prova ogni risultato, sempre insoddisfatto, contraddetto, del suo strenuo procedere. L’io, il pensare, vede ora solo il buio, la tenebra della negazione: quel «nihilismus selbst schon in sich zu Ende gelebt hat – der hinter sich, unter sich, ausser sich hat» [cit. 11 (411) del Band 13 ed. De Gruyter].

Questa bocciatura della scienza da parte di Nietzsche è la parte oggi più preziosa dell’intera opera sua. Occorre seguirne il corso attraverso le pagine e gli inediti di Umano troppo umano (primo e secondo volume), Aurora, Gaia Scienza, Genealogia della morale – (più di ogni altro).

La logica di Hegel pare non abbia più materia sulla quale operare per costruire la storia, la dialettica della storia. Questa è la situazione dalla quale è partito questo discorso: da quell’avvento del nihilismo che Nietzsche ci racconta con grandezza, cioè cinicamente e con innocenza.

E tuttavia il discorso non si ferma qui: perché la luce del pensare non si spegne tuttavia neppure in Nietzsche pur così stretto nella morsa dei molti nihilismi. In commento ai Frammenti postumi 1887-88 il testo di Colli e Montanari avverte (Vol. VIII*, pag. 426): qui «il tono di Nietzsche è insolitamente sobrio, quasi contemplativo. Non si ha che da confrontare (…) i passi paralleli del Crepuscolo degli idoli e dell’Anticristo, dove tale materiale verrà rielaborato artisticamente (…). Parecchi frammenti ci presentano addirittura un’inversione profetica del suo immoralismo. Profetica, perché sembra anticipare un problema dei nostri giorni» (idem, p. 427).

Son parole solo in parte accettabili, ma servono a introdurre comunque all’opportunità di riconoscere un significato del nihilismo non tenebroso come quello fin qui citato. L’apertura che in esso è possibile cogliere non aderisce propriamente a quella della dialettica hegeliana, ma neppure, in altro senso, a quella della rivendicazione rivoluzionaria marxiana. Nietzsche resta sempre estraneo, anzi più estraneo che mai, alla scienza e alla critica della economia. Dalla scienza economica, s’è visto, vien solo orrore, meccanicismo che stritola l’uomo e che rende comunque l’umanità nemica di se stessa: nemica anzi dentro se stessa, lacerata tra uomini stritolati ed eletti stritolatori. Una vaga agghiacciante sembianza degli ultrauomini.

L’apertura di Nietzsche interviene invece attraverso alcune pagine, in prevalenza nell’Anticristo, dove il discorso si rivolge – è passo noto – alla figura di Gesù: «Questo lieto messaggero morì come visse, come aveva insegnato – non per redimere gli uomini ma per indicare come si deve vivere. La pratica della vita è cìò che egli ha lasciato in eredità agli uomini (…). Le parole rivolte al ladrone sulla croce racchiudono in sé l’intero Vangelo. (…) Soltanto noi, spiriti divenuti liberi abbiamo i presupposti per comprendere qualcosa che diciannove secoli hanno frainteso quella onestà divenuta istinto e passione, che fa guerra alla “santa menzogna” ancor più che ad ogni menzogna… Si è stati infinitamente lontani dalla nostra neutralità amorevole e cauta, da quella disciplina dello spirito con cui soltanto è possibile decifrare cose tanto nuove, tanto delicate: in ogni tempo si è voluto, con uno spudorato egoismo, trovare in esse esclusivamente il proprio vantaggio, si è costruita la Chiesa in contrasto col Vangelo (…) Che l’umanità sia prostrata in ginocchio dinanzi all’opposto di ciò che era l’origine, il senso, il diritto del Vangelo (…) sarebbe inutile cercare una forma più grande di ironia della storia mondiale»[Vol. VI**, pagg. 210-211].

E poco sopra: «La vita del Redentore non è stata nient’altro che questa pratica – anche la sua morte non fu null’altro (…) Egli ha chiuso i conti con l’intera dottrina ebraica della penitenza e della conciliazione; egli sa che soltanto con la pratica della vita ci si può sentire “divini”, “beati”, “evangelici”, “figli di Dio” in qualsiasi momento« [Vol. VI***, pag. 208].

E d’altronde, diremo noi, dal momento che grazie a quel suo paradossale e disperato tentativo di formulare una giustificazione economica della virtù, Nietzsche è, di fatto, approdato alla prefigurazione esatta della globalità, ch’è nostra, e delle conseguenze – ch’egli definisce contromovimento- che si riassumono nell’ipotesi genetica di una «secrezione di un sovrappiù di lusso dell’umanità», e via dicendo, come può luì Nìetzsche sorprendersi a questo punto che tra i seguaci di quel “lieto messaggero” e della sua pratica dì vita sia accaduto un qualcosa che può ben dirsi «la più grande ironia della storia mondiale»?

Le pagine di Nietzsche su questo tema non sono poche, nelle opere sue ultime. Son dette, (nelle note di Colli e Montanari che ho citato), pagine profetiche; sono infatti pensieri che s’accendono, balenano, nella notte nihilista di Nietzsche. Profetiche perché illuminano di luce loro, un “luogo”elettivo della storia. Esse appartengono infatti ad uno scorcio di storia non certo estraneo alle pagine di storia “sacra” del giovane Hegel, e non estraneo affatto d’altronde al senso dialettico della storia reale hegeliana.

Pagine “profetiche” che le “ironie” della storia non spengono; le esaltano invece nella luce che loro conferisce la lotta eroica, intellettuale, morale e fisica di tutta intera la strenua vita di Nietzsche.

Note

 Le citazioni rimandano ai volumi dell’edizione Adelphi, quelle ítaliane, e dell’edizione De Gruyter quelle tedesche.

[cite]

 

TYSM REVIEW

VOL. 24, ISSUE NO. 24

MAY 2015

ISSN: 2037-0857

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