Non c’è un “mondo comune”
Pierre Dardot e Christian Laval
“Comune” è una parola inattuale. E per ottime ragioni! Forse non abbiamo mai sperimentato fino al punto odierno la mancanza di “mondo comune”. Guerre atroci, affermazione morbosa delle identità religiose e nazionali, egoismi delle oligarchie che non vogliono cedere nulla del loro potere: parlare di “mondo comune” tradisce acida ironia, antifrasi o illusione. Il comune non può esistere là dove la concorrenza più brutale per l’accumulazione delle ricchezze è stata eretta a legge del mondo e aggrava, di giorno in giorno, le fratture sociali e i disastri ecologici. Il neoliberalismo è la negazione violenta di ogni mondo comune. La reazione religiosa e nazionalista, che pretende di lottare contro la dissoluzione dei legami comunitari, arriva in realtà ad attizzare la guerra generalizzata con il fanatismo e l’odio per gli altri. La comunità della fede in Dio, come quella dell’appartenenza alla Nazione, non fanno “mondo comune”, ma frammentano e lacerano all’estremo le società e l’umanità.
L’espressione “mondo comune” è ingannevole. Lo è per il fatto di darci a intendere che il mondo è immediatamente “oggettivo” e che noi lo condividiamo con altri. Ma quanto vale questa idea? Quanto vale oggi per noi che dobbiamo agire in condizioni politiche e sociali determinate?
Viviamo all’epoca della globalizzazione neoliberale che impone l’immagine di un “mondo omogeneo” al quale noi, gli uni e gli altri, dovremmo adattarci. L’evidenza di uno stesso mondo dato per tutti è attivamente fabbricata e alimentata da un sistema di potere che agisce su scala mondiale. Serve a giustificare l’ampio consenso in favore del neoliberalismo che oggi unisce destra e sinistra. Non è proprio da questa evidenza che dobbiamo allontanarci definitivamente per agire secondo l’ esigenza del comune? L’essenziale è comprendere che il comune non è dato, né nella forma di una comunità d’appartenenza né in quella di un mondo comune. Il comune è da costruire contro l’evidenza di uno stesso mondo condiviso, precisamente inventando nuove forme dell’agire capaci di produrre nuove forme del sentire e dell’interpretazione; in breve, inventando nuove forme di vita.
Solo la lotta per il comune permetterà di “fare mondo”. Quanto al mondo così com’è, appare attraversato dallo scontro tra due logiche, tra due razionalità. La logica dominante è quella dell’oligarchia neoliberale alla quale partecipano attivamente i presunti “anti-sistema”. La logica alternativa, quella del comune, non ha ancora trovato la sua espressione di massa, i suoi quadri istituzionali, la sua grammatica politica. Tuttavia essa è in gestazione, oggi si cerca e si sperimenta nei movimenti sociali, nelle lotte, nelle pratiche.
Effettivamente, a partire dal 2011, con quello che in Francia è stato chiamato Le mouvement des places, si è aperto un grande ciclo mondiale: da Puerta del Sol a Madrid fino a Nuit Debout a Parigi nel 2016, passando per Istanbul, Il Cairo, Tel Aviv, New York, Hong Kong. Questi movimenti non sono eruzioni accidentali e passeggere, jacquerie disperse e senza scopo. Oggi essi si sviluppano tramite sperimentazioni multiformi che fanno prevalere nella prassi la logica dell’uso comune contro quella della proprietà: la sperimentazione di Notre Dame des Landes o quella dell’Asilo Filangieri di Napoli, occupato da molti anni e dedito ad attività culturali (cinema, danza, teatro); ma anche quella del Bâtiment 7 alla Pointe St Charles de Montréal che, al termine di una rivolta popolare contro l’insediamento di un Casino durata oltre dieci anni, porta con sé il progetto collettivo di un centro multifunzionale autogestito; e anche quella di « Barcelona en comú » che tenta di riorganizzare il governo municipale e la gestione delle cooperative a partire dallo stesso principio.
Quello che emerge grazie a questi movimenti è ciò che noi chiamiamo il principio del comune (al singolare): non c’è obbligazione politica legittima se non quella che procede dalla partecipazione a una medesima attività. Insomma, nessuna co-obbligazione senza co-partecipazione al processo di deliberazione e di decisione.
È questo il vero significato posto in essere dalla rivendicazione di una « democrazia reale » : non possiamo rimettere nelle mani di una piccola minoranza di professionisti della politica la facoltà di decidere e di agire, a nome nostro e al nostro posto, in merito a ciò che riguarda tutti. La rappresentanza politica consiste in un vero esproprio della capacità collettiva dei cittadini. Non si tratta semplicemente della « democrazia di prossimità », richiesta dalla gestione collettiva degli spazi urbani, o di quelli che spesso per convenzione vengono definiti « beni comuni » (la conoscenza, l’acqua, il clima, i servizi pubblici, ecc.). Si tratta piuttosto della democrazia intesa, nel suo significato più radicale, come co-partecipazione effettiva di tutti i cittadini agli affari pubblici.
Non è un’esigenza astratta, è una condizione di possibilità del governo degli stessi « beni comuni » : tocca ogni volta alla stessa società il compito di determinare ciò che è un « bene comune » e ciò che non lo è, in funzione della sua valutazione collettiva sui bisogni della persona umana. Una simile determinazione non è affare esclusivo dei giuristi o degli esperti : tutt’altro. Essa non può procedere che dall’ « auto-organizzazione » della società, o, per dirla con Cornelius Castoriadis, dall’ « auto-istituzione » della società. Senza questa attività di auto-istituzione, nessun « vivere insieme » è possibile : per citare Aristotele, « vivere insieme » (suzên) implica un agire comune » (sunergein), un co-operare.
* L’articolo è stato pubblicato originariamente in “Le Monde”, 26-01-2017. Per gentile concessione degli autori è stato tradotto da Alessandro Simoncini.
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