philosophy and social criticism

La malattia di Pasolini

Pier Paolo Pasolini e Laura Betti

Francesco Paolella

Nota su Pasquale Voza, Pasolini e la dittatura del presente, Manni, 2016

Un po’ come il Baratto di cui racconta Gianni Celati in una delle Quattro novelle sulle apparenze, il Pasolini descritto in questo volume di Pasquale Voza, è un poeta senza più parole; è un uomo che rimane muto, vinto dalla consapevolezza della propria impotenza a parlare, a dire una parola in più, una parola nuova sulla catastrofe a cui sta assistendo: la fine della storia e l’instaurarsi, istantaneo e irresistibile, di un orrendo ed eterno presente. È il Pasolini “maturo” (illuso e disilluso), che nel cinema, nel teatro, nella poesia e in ogni altra sua presenza pubblica, non fa che testimoniare la caduta nel presente assoluto del nuovo fascismo dei consumi e di una vita borghese trasformata in una malattia, in una pestilenza che non ha risparmiato nulla e nessuno.

Il Pasolini corsaro e apocalittico non ha potuto dire una parola ulteriore, lasciando incompiuto il suo testamento e incompiuta la sua stessa esistenza. Un profeta che si ritrovato ridotto alla fragilità e alla paralisi espressiva. Di fronte e dietro di lui, la leva totalitaria dei consumi e della “falsa tolleranza”, voluta dal nuovo potere neocapitalista. Così il rifugio, nostalgico e disperato a un tempo, nel passato e nelle culture spazzate via nel giro di pochi anni, e il vagheggiamento di una “destra sublime”, non sono forse altro che tentativi di distrarre dal proprio “NO!” radicale, dal proprio rifiuto totale.

L’interrompersi della storia, la scomparsa del “prima” va di pari passo con l’incapacità di inventare soluzioni possibili e prospettive praticabili. Gli stessi esclusi, le vittime dello sviluppo, non garantivano più alcuna garanzia di resistenza, almeno ipotetica. Le nuove generazioni, i “giovani” così bistrattati, temuti e rimpianti dall’ultimo Pasolini, sono allora i “mostri”, le cui ribellioni non accennano più a una possibile rivoluzione. Il potere borghese è stato interiorizzato a tal punto da corremepre le proprie vittime (Salò).

Tutto ciò non poteva che portare a una sorta di “pietrificazione”, a una immobilità in cui la testimonianza di un’altra cultura e di un’altra vita non diventa altro che una macabra nostalgia. In questo senso, il libro di Voza recupera, anche attraverso una serie di accostamenti e triangolazioni (Pound, Zanzotto, De Martino, Lacan, Foucault), tutta una serie di riferimenti alla scelta nevrotica di Pasolini, utilizzando appunto spesso il vocabolario della psicologia e soprattutto della psicopatologia (isteria, delirio, trauma…). Il potere, capito e odiato da Pasolini, è un biopotere, capace di penetrare fin negli interstizi della vita dei corpi e delle anime. Questa “intimità” fra soggetto e potere ha saputo appunto permettere una “industrializzazione die desideri” (Lacan), e comportare una separazione irrecuperabile fra vita e capitale.

L’assenza di una via d’uscita, tanto nel futuro quanto nel passato, e la caduta (accelerata) in una nuova Preistoria, hanno impedito a Pasolini di avvicinarsi a ogni tentativo di ribellione, anche puntuale, all’esistente. Sono importanti a questo proposito le pagine che Voza dedica all’intervista del 1972 che Pasolini ebbe con Dacia Maraini sul femminismo: l’incomprensione fra i due, quasi che parlassero due lingue diverse e appartenessero ormai a due diverse realtà, non poteva essere più lampante.

La sua condizione sospesa di superstite, di poeta che vede disfarsi la propria poetica e che vede imporsi una crisi che è anzitutto la propria, non avrebbe potuto lasciar sopravvivere alcun ottimismo. Proprio per questo non sembra ancor possibile dire una parola definitiva su Pasolini, prendere le misure al suo testamento, così disilluso. Le sue parole non possono essere digerite, così come la sua morte non finisce di aspettare una impossibile rivendicazione.

Il suo dramma è quello di un maestro (bisogna sempre ricordarsi, con Gianni Scalia, della sua vera e propria “mania” per la pedagogia e del suo stesso “eros pedagogico”) che ha visto corrompersi i suoi discepoli, e disperdersi l’oggetto del suo amore.

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