Nostalgia del presente
di Francesco Paolella
Negli ultimi tempi, e forse non soltanto per una delle solite mode passeggere, si sente parlare spesso di ritorno nei piccoli paesi, di riscoperta degli Appennini e dell’Italia interna, di quella Italia povera e marginale, abbandonata dai poveri e dai marginali per cercare fortuna. Ciò sarebbe, in un certo senso, anche l’effetto di una inedita (e paradossale, a pensarci) nostalgia per un passato più semplice, più naturale e meno “moderno”. Questa atipica nostalgia, provata da chi povero e marginale, semmai, non lo è mai stato, dev’essere un fenomeno abbastanza tipico delle società stanche e un po’ depresse, come la nostra. La pandemia attualmente imperante, poi, può aver contribuito a spingere alcuni a cercare una vita diversa, mossi – è questo il punto – anche dal rimpianto per un passato, però mai conosciuto prima.
La nostalgia – l’oggetto di questa raccolta di saggi di Vito Teti – ha a che vedere con uno spaesamento, con un sentirsi altrove, nel posto sbagliato, ma che non ha a che vedere in primo luogo con lo spazio. Essa, invece, è, per così dire, una malattia del tempo, della coscienza del proprio passato, dello scolorire inevitabile della propria esistenza. Non solamente i vecchi sentono nostalgia, anzi. La nostalgia tocca anche e soprattutto i giovani: chi, da bambino, ha frequentato le colonie estive, ad esempio, ricorderà lo struggente senso di lontananza e di perdita, provato per la propria casa, per la propria famiglia (famiglia – semmai – normalmente mal sopportata). La nostalgia porta spesso ad una vera e propria idealizzazione del passato: oggi essa non è più considerata una patologia mentale (addirittura mortale, come nel XVII secolo, quando colpiva i mercenari svizzeri lontani dal loro Paese), ma una condizione più o meno autentica, un modo più o meno sano di rapportarsi con il proprio passato e, soprattutto, con il proprio futuro.
Ecco, la parte più interessante del volume di Teti è, appunto, la relazione fra nostalgia – questo sentimento così radicalmente moderno – e speranza, ossia il fatto che proprio uno sguardo nostalgico (e, quindi, anche critico) verso il presente, verso l’orizzonte attuale, possa essere una grande occasione di apertura e di rinnovamento. E ciò ha (o meglio: potrebbe avere) anche un chiaro significato politico: persino le utopie, oggi scomparse, sono sempre anche nostalgiche; esse nascono e crescono sognando un mondo più antico e più umano, ma mai esistito.
Esiste, dunque, anche una nostalgia positiva e costruttiva. Esiste una nostalgia che è tutt’altro che lamentazione e rassegnazione; occorre riconoscere che una relazione malinconica con la propria, inevitabile, delusione, possa essere anche creatrice. La nostalgia fa parte di tutti noi, in misura più o meno marcata: la questione è coltivarla nel modo più autentico possibile.
Come mai oggi, vediamo realizzarsi la famosa immagine del presente con un infinito accumularsi di rovine; anche nelle rovine, però, anche negli scarti e nelle scorie, sarebbe possibile coltivare la possibilità di una strada nuova. Oggi che ci rendiamo conto di essere l’apocalisse, potremmo inventare una nuova America verso cui tendere, verso cui scappare, come gli emigranti di tanto tempo fa. Il problema è che è molto più facile rifugiarsi in ciò che di inautentico la nostalgia porta in sé: un passato mitizzato e persino ridicolo, una pura conservazione dell’esistente o, peggio, l’invenzione di tradizioni persino violente (la retorica delle piccole patrie, l’etnia, la presunta “innocenza” delle proprie origini ecc.). Fenomeni come la ostalgia nella ex DDR, o la Padania nel Nord Italia o, ancora, la riscoperta del fantomatico paradiso in terra che sarebbe stato il Regno borbonico, sono, appunto, alcuni degli esempi più grossolani di questa penosa (se non pericolosa) tendenza ad inventare passati consolatori e fantasiosi.
Ma non tutto si può risolvere in una politicizzazione della nostalgia. La vita di milioni di uomini, oggi come in passato, è dominata e, a volte, vinta dalla nostalgia. L’emigrazione, che coinvolgerà sempre più persone irresistibilmente, comporta un distacco traumatico e mai sanabile: è un vero lutto, oggi forse addolcito da Skype, ma pur sempre un lutto. Chi lascia la propria casa e la propria vita, deve necessariamente reinventarsi, deve riscoprire e ricreare le proprie stesse origini, col rischio di rimanere – per citare il titolo di un bellissimo libro di Michele Risso e Delia Frigessi di tanti anni fa – A mezza parete; col rischio, cioè, di non essere più né il vecchio né il nuovo, ma bloccato a metà del viaggio.
Così come restare può essere molto complicato, vedendo partire gli altri e dovendosi adattare ad essere i custodi di un luogo abbandonato, può essere molto difficile, la vita di chi parte, di chi decidere di rinascere altrove, sentendosi sempre altrove e sempre superflui, obbliga sempre a compromessi e a qualche forzatura; si cercano legami che non esistono, si creano nuove comunità di connazionali, ci si attacca al cibo o alla fede della propria terra, ma rimane pur sempre viva la coscienza di una perdita comunque irrimediabile e con cui dover fare i conti per sempre: la perdita del proprio passato, della propria infanzia, la sensazione dell’inesorabile prosciugarsi della vita.
In questa prospettiva, l’emigrante non vive che una condizione umana intensificata: vive un cammino senza ritorno e segnato dal bisogno doloroso di tornare a casa, una casa che non è più.