philosophy and social criticism

Ora, oro

Andrea Zanzotto

Ora forse l’oro può ritornare alla sua nativa innocenza e bellezza, in questo tempo che ha reso gli scambi monetari sempre più simbolici, per non dire irreali, proiettati in un iperspazio, divenuti impalpabile software, cifre manovrabili con ordini istantanei da distanze immense, entità così astratte da dar l’impressione di poter sfuggire da un momento all’altro al controllo umano.

Ora finalmente l’oro, che già da tempo non era più base monetaria totale, con tutti gli aspetti negativi che questo fatto comporta, si riconcilia sempre più con se stesso, con il suo misterioso trasparire dalle tenebre come luce nascente, quale s’incontrò con gli occhi dell’uomo antichissimo, torna a essere simbolo e strumento di una fiducia che non e soltanto quella di carattere economico. Darà in tal modo sempre meno materia a quell’auri sacra fames che è stata alla radice, e in parte lo è ancora, di conflitti connessi all’egoismo più rozzo. L’oro, con la sua lieta lucentezza, divenuta pepite purissime, avrà la possibilità di originare per l’uomo nuove proliferazioni mitiche proiettate nel futuro, un futuro di usi tecnologico-scientifici e di sapiente, carezzevole rallegramento della quotidianità, saprà maggiormente collegarsi alle più belle manifestazioni dell’affettività e dell’amore.

Ecco le catenelle in prima fila: ancora più che braccialetti o anelli eccetera, possono essere arte, e della più raffinata, pur se destinate a masse sempre più larghe, ma senza la pretesa di avere funzione di status symbol. Così già a Venezia, fin da tempi lontani, ogni famiglia, anche umile, aveva i suoi “ori” che venivano passati da generazione a generazione, che erano in ogni caso catenelle, capaci di legare i viventi ai trapassati, di vincere il tempo. Oggi il discorso dell’oro si fa comunque più sfumato e più largo, in pieno accordo con l’osservanza di un codice che dà un tono di volgarità all’eccessiva esibizione.

Mentre resta fermo il valore dell’oreficeria come arte dalle più ardue vie proprie, non comparabili con quelle delle arti analoghe, già il semplice “regno della catenella” offre le più svariate ed estrose possibilità di espressione, di intreccio, di ricamo, di personalizzazione. E la catenella, che, priva per natura di trionfalismi, è soprattutto gentilezza e pegno di solidarietà, viene felicemente a imparentarsi con quella nuova oreficeria “povera”, ma estremamente significativa, in cui l’oro non sovrabbonda, ma interseca sottilmente con i suoi reticoli, le sue geometrie, i suoi raggi, pietre dure e addirittura pietre comuni, dando vita a impensati monili capaci di valorizzare forse meglio di quelli del passato la bellezza dei volti e dei corpi.

E quest’oro che adorna e vive della sua stessa incomparabile semplicità si raccorda, ancora attraverso catenelle simboliche, appunto a quello che insieme con altri metalli rari sarà destinato a un uso sempre più accorto entro una tecnologia (come si accennò sopra) rivolta al servizio dell’uomo, alla sua crescita morale e civile, e non alla distruzione dell’equilibrio dell’ambiente come tanto spesso accade ora.

Certo il luogo dove l’oro vivrà sempre, conservando intatto íl suo fascino e il suo più creativo fulgore, sarà nelle arti che ne fanno uso concreto, dall’oreficeria alla pittura. Ma, più che altrove – anche se questa affermazione può sembrare un paradosso –, l’oro vivrà nella poesia, entro il cui linguaggio esso si fonde, si moltiplica e rafforza più che in qualsiasi forno di alchimista. In poesia il riferimento all’oro, specie nella lirica e nell’innografia, fonda una miriade di figure, che danno alla sua presenza un’irrequietezza, uno scintillio, una tensione ad alto voltaggio che esso, nella sua consistenza concreta, non può avere in termini così spiritualmente cospicuí. L’idea dell’ardore, della perennità, dell’incorruttibilità che l’oro rappresenta, diventa in poesia dato di fatto mentale, verità nei lampeggiamenti delle immagini che lo evocano, e nelle loro tintinnanti catenelle fonico-ritmiche. Ed esso si rifà antico e insostituibile come quello che, quasi magicamente notato dai primitivi, apparve quale caparra di un nascosto ma dovuto paradiso.

L’età, appunto, “dell’oro”, onnipresente nei miti e nella poesia dell’antichità, simboleggia l’eterno bisogno umano di armonia e il sogno di una riconciliazione universale che – se pure non si verificò mai – si desiderò ci fosse stata. E ne nacque così una generazione di prospettive utopiche, ma forse non del tutto infondate, di un suo ritorno. Questo bisogno, questa necessità del ritorno all’oro del mito oggi sono più sentiti che mai, attivano una benigna spinta a superare la stretta delle angosce e delle incertezze del mondo attuale. E forse non è esistito poeta che abbia rinunciato a trasferire nei versi, in cui la lingua quotidiana mira a superare se stessa, la parte più radicale e radicolare di ogni ispirazione: tutto sommato, l’irrefrenabile nostalgia di un’età dell’oro, fonte di ogni metafora.

Basti pensare a tutto l’oro che trapunge e rampolla nei canti dei poeti, a partire dal celeberrimo «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi» di Petrarca: qui, con effetti moltiplicativi, l’«aura» fa pensare, oltre che al nome dell’amata, a qualche cosa di aureo (attraverso l’omofonia della radice), alla brezza luminosa dell’amore, infine quasi a un`aureola”, che vuol dire coroncina d’oro. E sono innumerevoli i riferimenti aurei che donna e paesaggio, motivi fondamentali della poesia di ogni tempo, evocano lungo le storie delle varie letterature di tutto il mondo, anche a prescindere dai temi paradisiaci della religiosità. È una perenne aurora in cui si manifesta l’irriducibile volontà della poesia, nella sua spinta collaudatrice del mondo, a chiamare in causa attraverso le fioriture, le metamorfosi e persino le allucinazioni dell’oro, l’origine di ogni vita.

L’oro finisce per diventare addirittura il simbolo della creatività poetica stessa, e della “poesia pura”, fondatrice di se stessa; così infatti disse qualcuno, felice del potersi esprimere, della pulsione profonda che lo portava a scrivere, o se vogliamo a cantare: «oro oggi è la gioia / della mia lingua». E anche se in questa sovrabbondanza di metafore condite d’oro sono in agguato la retorica e il luogo comune, permane pur sempre il segno di un’ebbrezza, di una felicità, di un dono totale che solo il riferimento all’oro può vagamente rendere. Si può dunque perdonare ai poveri Paperoni poetici di tuffarsi nei loro fantastici e pur verissimi mucchi di pepite. Ed è consolante che l’oro, specialmente in forma di tante simpatiche e festose catenelle, venga sotto gli occhi di tutti quale promessa di dolci e instancabili intrecci, di fertili e lievi sposalizi tra immaginazione e realtà, e infine di un mondo in cui sognare su un frustolo d’oro disponibile per ciascuno, pronto a lasciarsi guidare dal vero significato del suo rayonnement, sarà più importante che tenerlo nascosto a cumuli per pochi.

[Tratto da: L’oro e l’alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale. Atti del Convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 10-12 maggio 2001, Interlinea, Novara 2003]

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