Il piano derelitto dei banditi. La distopia allegra di Cavazzoni
di Francesco Paolella
Nota su: Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri, Quodlibet, Macerata 2014
Ermanno Cavazzoni rimanda in libreria (con un nuovo titolo) Cirenaica, già pubblicato una quindicina di anni fa da Einaudi.
Il bassomondo, con la vita infernale che vi conduce, viene raccontato in un manoscritto che l’autore dice di aver trovato in mezzo al binario 21 della stazione centrale di Milano: è fin troppo facile pensare che questo altro mondo, ben più brutto, cattivo (anzi degenerato) e disperato del nostro, serva in realtà per parlare di noi. Della nostra vita, disperata e vuota.
Nessuno vuole scendere apposta nel bassomondo, semplicemente ci si capita: non si sa se per caso, per errore (ma di chi?), oppure per la volontà di divinità poco plausibili. Ci si vive un tempo infinito e infinitamente vuoto. Là è sempre domenica pomeriggio, magari da far passare in una piccola città di provincia. Uno spazio vuoto di cose da fare (nessuno lavora, nessuno si occupa degli altri, nessuno sembra che abbia una famiglia o un amante). Ma è anche e prima di tutto vuoto di cose da mangiare. La vita è allora una continua smania per trovare dei commestibili (dei resti, dei rifiuti soprattutto) ed è una continua smania nell’interrogarsi sul perché: perché sono finito quaggiù? Perché non mi ricordo niente della mia vita passata, di prima di finire qui? E perché non posso andarmene?
Un mondo, quel bassomondo, che poi è poco più di una città, tutta sporca, cadente, ammuffita: senza luce elettrica, senza benzina; un carcere che non ha bisogno di sbarre, un inferno fiacco.
Ci si capita dicevamo: si scende da un treno, non si sa dove si è arrivati; e, immancabilmente, ci si fa truffare. L’economia del bassomondo si fonda sui raggiri degli ultimi arrivati. Esistono infinite strategie (travestimenti tutti malamente allestiti, ovviamente per mancanza di mezzi) per rapinare dei bagagli e del portafoglio chi scende da un treno. Finti parenti, finte autorità, finte guide turistiche: là tutto è definitivamente finto. Un caos assoluto dove, però, emerge, pur nell’eterna immobilità, nel buio continuo, la forza della “legge di gravità”. Si tratta un’anarchia che, però, in un certo qual modo, è riuscita a stabilizzarsi. Anche le truffe fanno nascere una certa, misera, moralità. Ed emerge una naturale gerarchia anche nel malaffare.
Questa società di sbandati assomiglia tanto ad una fatta di topi, se questi animali divenissero un po’ più evoluti.
La stazione dove i treni arrivano arrivano soltanto, è l’unica industria della città ed è dunque il centro di questo mondo apocalittico. Soprattutto alcune pagine di questo libro fanno pensare a La strada di Cormac McCarthy, a un mondo desertico grottesco e cannibale che non più nemmeno morire. Ma Cavazzoni riesce sempre a tenersi lontano da ogni forma di “male assoluto”. La Valle dei ladri è sì un racconto distopico (ma davvero divertente!) in cui ci vengono presentati personaggi patetici e tristi, ma che non riescono mai ad essere realmente cattivi: dei Vitelloni all’epoca dell’apocalisse.
Le illusioni con cui ci si truffa (l’uno con l’altro, oppure se stessi) rappresentano forse le prove più dure di queste esistenze da incubo. Le “credenze” che vi sono nate sono appunto patetiche. Nessuna vera bestemmia è possibile. D’altra parte, nessuno è davvero qualcuno nel bassomondo. Senza identità, senza nome, senza memoria. Ci si chiede: quale dio potrebbe odiarci così tanto? A che pro farci vivere così malamente? Gli uomini-ladri del bassomondo, che riescono a pensarsi solo come escrementi degli dei, non vedono la possibilità di una rivolta, né, tanto meno, di una riforma. Le proteste (ad esempio per avere a disposizione un po’ più di corrente elettrica o un fantomatico “foglio di via”) non sono niente più di una crisi di nervi.
Con chi prendersela? Nessuno sa niente, nel bassomondo: né la radio, né la televisione funzionano. Se ne ricava soltanto un rumore inutile:
«La radio nel bassomondo non si sente meglio della televisione (specie quelle piccole radio acutissime) e c’è chi passa il giorno a cercare una stazione; si sentivano suonare rapide marcette (o forse solo disturbi cadenzati della frequenza), poi ritornavano i notiziari sempre più concitati, cose ci fosse stato qualcosa che cresce e ogni giorno si fa più imminente, qualcosa che sta per arrivare e quindi c’è poco tempo davanti. A me sembrava si cercasse di dare l’allarme e a ogni ora venisse aggiornata la situazione. Per un po’ questi dei telegiornali cercavano di essere freddi e obiettivi; poi erano spaventati loro stessi dalle loro parole, e quindi parlavano sempre più forte, con la voce sempre più isterica. Non si riusciva mai a capire cosa precisamente si trattava, per via del disturbo che falsa e cacofonizza le voci, e anche l’immagine aiutava poco, ma doveva essere qualcosa di grave in arrivo, il tono era inequivocabile, l’urgenza» (p. 172).
Il mondo, quell’altro, quello oltre le montagne, quello luminoso, è troppo lontano. Questa pagina, che ricorda da vicino la scrittura di Buzzati (pensiamo ad esempio al suo racconto Qualcosa era successo, contenuto ne La boutique del mistero, fa capire quanta frenesia debba accumularsi fra quei truffatori-truffati. La voglia di evadere, che fa nascere incredibili dicerie – a cui tutti finiscono per credere – è l’unico loro vero patrimonio. Si vive di inganni, come sempre.
tysm literary review, vol. 11, no. 16, july 2014
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