philosophy and social criticism

Piazza Fontana, il situazionista e il generale

di Riccardo Antoniani

Sostiene Žižek che “non appena rinunciamo alla narratività, perdiamo la realtà stessa” e poiché “la verità ubbidisce alle stesse regole della finzione, la dimensione della verità si spalanca esclusivamente attraverso l’ordine del discorso che, se non suffragato dalla narratività si sfascerebbe”.

Questo vale anche per le tante narrazioni cinematografiche e letterarie che, da Pasolini a Tullio Giordana, hanno saputo tratteggiare per la strage di Piazza Fontana degli scenari inediti ma non per questo meno capaci – alla pari delle tante inchieste giudiziarie, parlamentari e giornalistiche susseguitesi negli ultimi cinquant’anni – di un’aderenza epifanica con il reale.

In questo senso, tanto esemplari quanto obliate sono state le incursioni letterarie di Gianfranco Sanguinetti, figura apicale dell’Internazionale Situazionista. Classe 1948, l’amico fraterno di Debord è figlio di Teresa Mattei, la più giovane deputata dell’Assemblea Costituente che durante la Resistenza partecipò all’organizzazione dell’omicidio di Gentile e che verrà cacciata dal partito di Togliatti nel 1955, rea di rifiutarne l’asfissiante stalinismo e ancor più l’invito ad interrompere la gravidanza frutto della relazione extraconiugale con Bruno Sanguinetti, uno dei pochi industriali che finanziava il PCI nell’immediato Dopoguerra. Gianfranco era il nome del fratello della Mattei, morto suicida nelle carceri di Via Tasso per timore di tradire i propri compagni sotto tortura.

Sanguinetti, che all’indomani dell’attentato alla Banca dell’Agricoltura era ricercato dalla polizia, riuscì a rifugiarsi in Svizzera dove contribuì alla redazione de Il Reichstag brucia ?: il trattato che – scriverà Debord – “anticipando di molti mesi i primi timidi dubbi delle sinistre italiane” sulla versione ufficiale della strage milanese “rivelava l’essenziale di questa manovra terroristica” e che il 19 dicembre, a tre giorni dalla morte di Pinelli,  venne “distribuito in situazione di grande emergenza, con sistemi di propaganda sudamericani: venivano messi dei pacchi di volantini nelle piazze principali di Milano, e poi con l’automobile ci si passava sopra perché volassero dappertutto”. 

Com’è noto, ci volle più di un lustro prima che, per Piazza Fontana, gli organi inquirenti abbandonassero la pista anarchica. Anni in cui il nucleo della destra eversiva fiancheggiata da apparati dello Stato e qualche settore industriale seguitò a realizzare altre stragi e tentativi di golpes poi falliti. Anni in cui la riforma dei servizi nostrani e il cui scontro intestino tra Vito Miceli e Gianadelio Maletti, rivelava in controluce le lotte interne alle correnti democristiane nonché le ingerenze atlantiche in uno dei periodi più fragili delle nostre istituzioni democratiche. 

Proprio in quegli anni, per la precisone nel luglio del 1975, Sergio Scotti Camuzzi fece pervenire a 520 membri di spicco della politica, industria e pubblicistica italiana un pamphlet che titolava Rapporto veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia firmato da Censor: “furono sospettati come autori il senatore Merzagora, ex-presidente del Senato e della Repubblica ad interim, il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, che si firmava Bancor, e perfino Eugenio Montale. Il libro divenne ricercatissimo, e suscitò morbose curiosità.  L’editore Mursia ne pubblicò quindi cinque successive edizioni quello stesso anno”. Forte dei pubblici encomi ricavati – da Andreotti ad Amendola, da Visentini ad Agnelli, in molti scrissero a Scotti Camuzzi per ringraziarlo – dopo sei mesi Sanguinetti svelava l’identità di Censor, pubblicando un altro pamphlet in altrettante 520 copie, Prove dell’Inesistenza di Censor enunciate dal suo Autore, smascherando così la complicità degli articolati del potere che “non sembravano esser per nulla disturbati dal suo cinismo estremo sull’uso del terrorismo e dei comunisti contro la classe operaia e più particolarmente contro i poveri in generale”. 

In quella che doveva rivelarsi la più inusitata operazione dell’Internazionale situazionista, il primo falso politico italiano, Sanguinetti si finse “un vecchio borghese ultraconservatore, cinico e disinvolto, che ammetteva la dimostrata utilità del ricorso al terrorismo da parte dello Stato, a partire da Piazza Fontana, per infamare e reprimere sovversivi e proletari, e risparmiarci così una guerra civile, ma criticava aspramente i dérapages polizieschi e giudiziari successivi. Quanto ai comunisti, Censor affermava che i borghesi avevamo ampiamente avuto tutte le prove necessarie da parte loro per assumerli nel governo in un momento di crisi, per combattere contro la classe operaia, cosa che avevano dimostrato di saper fare in modo eccellente dappertutto nel mondo, per poi licenziarli come dei domestici, una volta superata la crisi.” 

Tra i vari estimatori della beffa di Censor vi fu anche il giovane giudice Gianfranco Migliaccio che ne fece convocare l’autore nell’ambito del processo di Catanzaro, spostato il più lontano possibile da Milano. 

“Prendendo le massime precauzioni – scrisse Sanguinetti – scomparvi da tutti i miei indirizzi, poiché diversi testimoni erano già spariti per sempre, e, viaggiando sotto falso nome, mi presentai al giudice Migliaccio, un giovane gentiluomo colto del sud Italia, al quale fornii, su consiglio di Debord, una brevissima testimonianza scritta, nella qua- le ribadivo di non aver nessuna prova giudiziaria contro lo Stato italiano, che non era compito mio fornire: io, affermavo, ero testimone di un avvenimento storico, e consideravo la storia l’unico tribunale degno di rispetto. 

Migliaccio, secondo Sanguinetti, “si disse deluso dalla testimonianza che gli era di poco aiuto, e mi chiese perché avevo così poca fiducia nella magistratura; ma soprattutto mi domandò che cosa avrei fatto io se fossi stato al suo posto, domanda che non mi sarei mai aspettato, ma che mi dimostrava la sua sincera buona fede. 
Gli chiesi se potevamo parlare da soli, e lui fece uscire la cancelliera. I casi sono due, gli dissi: o lui voleva fare carriera in Magistratura, e allora sarebbe stato meglio per lui convalidare tutte le menzogne della versione ufficiale. Oppure poteva passare alla storia come un giudice giusto e coraggioso. E cosa farebbe lei in questo caso? – mi chiese. Tondo tondo, gli dissi: Comincerei con l’arrestare il generale Gian Adelio Maletti, capo del servizio D del servizio segreto, e il capitano Antonio Labruna”.

Fu anche così che si arrivò all’incriminazione del “Generale dagli occhi di ghiaccio”, autoesiliatosi fin dall’inizio degli anni Ottanta in Sudafrica, da cui negli anni rivelerà in maniera sempre più organica i retroscena e le implicazioni, non solo nazionali, relative a quella “serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere”. 

Se, come scrisse Pasolini, un intellettuale, uno scrittore è qualcuno “che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”,  in Italia, a maggior ragione a mezzo secolo da quel 12 dicembre del 1969 – quando si mise in moto un disegno ostile, la famigerata Strategia della tensione, a quanti rivendicavano l’applicazione dei diritti sanciti dalla Carta – la figura e l’opera di Gianfranco Sanguinetti meriterebbero di uscire da quella damnatio memoriae pubblicistica ed editoriale cui venne confinato dopo i pamphlet di Censor. 

Perché, volendo citare ancora una volta il poeta corsaro, “la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile. 
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione.”

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PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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