philosophy and social criticism

Pietà Rondanini: una restituzione civile

"Pietà Rondanini di Michelangelo"

La Pietà Rondanini di Michelangelo nella sua nuova collocazione al Castello Sforzesco

di Giuseppe Frangi

Miche­lan­gelo aveva man­cato il suo appun­ta­mento con Milano nel 1561. Papa Pio IV avrebbe voluto che fosse infatti lui a pro­get­tare la tomba in Duomo per il fra­tello Gian Gia­como Medici, detto il Mede­ghino. Miche­lan­gelo aveva decli­nato l’invito, ma aveva sug­ge­rito il nome di chi poteva sosti­tuirlo: Leone Leoni. Il monu­mento, nel tran­setto destro della cat­te­drale, respira miche­lan­gio­li­smo a pieni pol­moni, al punto da far pen­sare che Leoni avesse lavo­rato sulla base di uno schizzo del maestro.

L’appuntamento di Miche­lan­gelo con Milano però non fu annul­lato, ma spo­stato di quat­tro secoli. Nel 1952 infatti la città, anche gra­zie a risorse arri­vate da una sot­to­scri­zione popo­lare, com­però l’ultima scul­tura di Miche­lan­gelo, messa sul mer­cato dagli eredi della fami­glia Ron­da­nini, da cui viene il nome della Pietà. C’erano nume­rosi musei stra­nieri dispo­sti a com­pe­rarla, ma l’opera era noti­fi­cata e quindi non poteva lasciare l’Italia. Que­sto con­tri­buì a far scen­dere il prezzo e rese pos­si­bile al sin­daco di Milano Vir­gi­nio Fer­rari di por­tare a ter­mine l’operazione, pagando il capo­la­voro 135 milioni.

Per­ché Milano si mobi­litò per avere Miche­lan­gelo? La ragione è interna a una coscienza civile a cui oggi si guarda con un po’ di nostal­gia: un grande cen­tro deve saper met­tere i suoi cit­ta­dini nella con­di­zione di poter con­fron­tarsi e cono­scere i grandi pro­ta­go­ni­sti dell’arte ita­liana. E a Milano, che poteva con­tare già su Leo­nardo, Raf­faello e Cara­vag­gio, man­cava pro­prio il genio di Caprese.

Arrivò dun­que Miche­lan­gelo, il primo novem­bre 1952, dopo un viag­gio abba­stanza tra­va­gliato in treno, con tre tra­sbordi. La Pietà Ron­da­nini venne siste­mata nella cap­pella ducale del Castello, dopo un ser­rato dibat­tito che aveva visto come pro­ta­go­ni­sta Fer­nanda Witt­gens, la leg­gen­da­ria diret­trice di Brera, la quale soste­neva, pur essendo asso­lu­ta­mente laica, che la Pietà dovesse finire in qual­che sto­rica chiesa mila­nese. Vinse invece l’ipotesi dei Musei civici del Castello. Dove in quel periodo erano in corso i lavori per un nuovo alle­sti­mento, pro­get­tato dal gruppo BBPR. A loro dun­que toccò di pro­get­tare la siste­ma­zione defi­ni­tiva della Pietà. Si scelse l’ipotesi di tro­vare spa­zio nella grande Sala degli Scar­lioni, che era stata desti­nata alla scul­tura lom­barda, e in par­ti­co­lare al Bambaia.

Costan­tino Baroni, allora diret­tore dei Musei, aveva chie­sto ai pro­get­ti­sti di imma­gi­nare uno spa­zio che sepa­rasse Miche­lan­gelo dal resto delle opere espo­ste e fosse capace di «susci­tare l’impressione di un rac­co­gli­mento quasi reli­gioso attorno al grande capo­la­voro». L’input venne seguito con deci­sioni anche molto ardite, come quella di abbas­sare il piano del pavi­mento di quasi due metri, con con­nessa distru­zione delle sot­to­stanti volte quat­tro­cen­te­sche. Una grande nic­chia in pie­tra serena iso­lava Miche­lan­gelo dal con­te­sto, una con­tro­nic­chia, rive­stita in legno di ulivo, sti­mo­lava il clima di rac­co­gli­mento chie­sto da Baroni.

L’allestimento ha subito fatto epoca susci­tando entu­sia­smi, ma anche qual­che per­ples­sità, come quelle di Franco Rus­soli, a sua volta diret­tore di Brera («quinte ela­bo­rate e fram­men­ta­rie»), e qual­che attacco feroce, come quello della bat­ta­gliera Witt­gens. Qual­che anno fa, una lau­reanda dell’Università Sta­tale, Maria Ceci­lia Caval­lone, per il lavoro di tesi tra­scrisse e pub­blicò una let­tera della Witt­gens a un’amica romana, Clara Valenti, datata 16 aprile 1956.

Il testo è di una viru­lenza memo­ra­bile: «Da gio­vedì, giorno dell’inaugurazione con Gron­chi, a sabato, inau­gu­ra­zione per l’élite cul­tu­rale mila­nese, imper­versa nel mondo sen­si­bile di Milano la rea­zione ai Musei del Castello, siste­mati come “fiera”, e par­ti­co­lar­mente alla inde­gna espo­si­zione della Pietà entro un’edicola che ricorda… un vespasiano!».

Il giu­di­zio della Witt­gens restò però mino­ri­ta­rio e con il pas­sare degli anni l’allestimento dei BBPR con­so­lidò con­sensi e pre­sti­gio, sino a rive­stirsi di un’aura di intoc­ca­bi­lità. Tra i pochi a con­te­stare l’allestimento ci fu Henry Moore, che attaccò dura­mente l’arca romana usata come basa­mento e le geo­me­trie dei bloc­chi di pie­tra serena che secondo lui distur­ba­vano la vista della Pietà.

Con il tempo, poco alla volta, pic­coli inter­venti det­tati da diverse ragioni hanno modi­fi­cato in maniera pro­fonda il gioco di equi­li­bri orga­niz­zato dai pro­get­ti­sti. Rin­ghiere di sicu­rezza sugli sca­lini e un affol­la­mento di nuove scul­ture arri­vate a ricom­porre la Tomba di Gaston de Foix, capo­la­voro del Bam­baia. Le foto mostrano un micro­co­smo pro­fon­da­mente cam­biato, al punto che nel 1999 il Comune di Milano bandì un con­corso inter­na­zio­nale per una risi­ste­ma­zione della Sala degli Scar­lioni. Vinse Alvaro Siza, ma il pro­getto che pre­ve­deva il ripri­stino della quota del pavi­mento ori­gi­nale rimase let­tera morta, anche per i veti che subito si alza­rono dal mondo acca­de­mico. I pro­blemi però restavano.

La Pietà era di fatto inac­ces­si­bile ai disa­bili e pagava anche un iso­la­mento che la mar­gi­na­liz­zava in ogni senso: para­dos­sale destino per un’opera che era stata acqui­sita con sot­to­scri­zione popolare.

Ci è voluto un asses­sore alla cul­tura che fosse archi­tetto e docente al Poli­tec­nico per sbloc­care la situa­zione: a set­tem­bre 2012 Ste­fano Boeri aprì con molta deter­mi­na­zione il fasci­colo Pietà Ron­da­nini. Venne indi­vi­duata una col­lo­ca­zione ideale in un ambiente affac­ciato sul grande Cor­tile delle Armi e che avrebbe dovuto essere desti­nato a pic­colo audi­to­rium. Inca­ri­cato del pro­getto era Michele De Lucchi.

Quando si palesò il cam­bio di desti­na­zione De Luc­chi aveva pen­sato di rinun­ciare. «Ho detto no tre volte, a muso duro», rac­conta. «Addi­rit­tura mi sono sco­perto di una scor­te­sia che non cono­scevo in me. Mi dispia­ceva intac­care la sala degli Scar­lioni e non mi pia­ceva l’aspetto un po’ imper­so­nale della sala che era stata scelta, un’insignificante costru­zione peri­me­trale lunga e bassa».

Che cosa ha con­vinto De Luc­chi alla fine ad accet­tare? Il fatto di una evi­dente ina­de­gua­tezza dell’allestimento BBPR, innan­zi­tutto. «I visi­ta­tori erano costretti a un per­corso molto vin­co­lato e non era pos­si­bile vedere l’opera nella sua com­ple­tezza. Senza girare intorno alla Pietà non si per­ce­pi­sce il dramma anche per­so­nale che Miche­lan­gelo ha così mira­bil­mente rappresentato».

Da qui la scelta corag­giosa e inno­va­tiva del nuovo alle­sti­mento in quello che era l’Ospedale dei sol­dati della guar­ni­gione spa­gnola di stanza al Castello, una strut­tura per altro coeva alla Pietà Ron­da­nini. I visi­ta­tori, dopo essere entrati in un pic­colo ambiente di decan­ta­zione, pas­sano nella grande sala e si tro­vano la Pietà di spalle. «La schiena della Madonna è quanto di più espres­sivo e com­mo­vente. Miche­lan­gelo ha scol­pito que­sta figura con una curva trac­ciata nel marmo che appar­tiene a tutte le epo­che dell’arte», dice De Luc­chi. «Per que­sto la sor­presa più grande ora è vedere l’opera espo­sta di schiena e dover girare attorno alla sta­tua per ammi­rarla in tutta la sua meraviglia».

Tutto il per­corso di rial­le­sti­mento, gui­dato dal diret­tore dei Musei Clau­dio Salsi e dal con­ser­va­tore Gio­vanna Mori, è avve­nuto all’insegna di quella coscienza civile che 63 anni fa aveva per­messo che l’ultimo capo­la­voro di Miche­lan­gelo diven­tasse patri­mo­nio della città. Le scelte sono state tutte all’insegna della sobrietà e del rigore, per met­tere al cen­tro in ogni modo non solo la visi­bi­lità ma anche il valore cul­tu­rale e umano di un’opera come la Pietà. Il pavi­mento in rovere chiaro scelto da De Luc­chi riprende quello che secondo i docu­menti era il pavi­mento dell’ospedale. Gli affre­schi recu­pe­rati sulle volte, con i car­ti­gli che com­pon­gono il Credo, resti­tui­scono anche una dimen­sione reli­giosa al luogo: sopra la Pietà, tra l’altro, c’è il ver­setto che riguarda l’Ascensione, quasi a richia­mare il movi­mento ascen­sio­nale che l’idea com­po­si­tiva di Miche­lan­gelo miste­rio­sa­mente contiene.

Anche la parte didat­tica, affi­data a Gio­vanni Ago­sti e Jacopo Stoppa, è stata rea­liz­zata con grande cura, senza che inter­fe­ri­sca visi­va­mente sugli equi­li­bri dello spa­zio. Una Guida (Offi­cina Libra­ria, euro 8,00) resti­tui­sce al visi­ta­tore non solo la sto­ria della Pietà e della sua for­tuna, ma anche le ragioni di que­sto nuovo alle­sti­mento. La coda inin­ter­rotta di visi­ta­tori all’ingresso è poi il test che rende ragione della scelta fatta: tren­ta­mila ingressi nei primi dieci giorni, con una rica­duta posi­tiva anche sui numeri di tutti i musei del Castello.

Nella sala oltre alla Pietà sono espo­sti il ritratto in bronzo di Miche­lan­gelo di Daniele da Vol­terra e la meda­glia che Leone Leoni coniò e inviò a Miche­lan­gelo per rin­gra­ziarlo della com­messa rice­vuta per la tomba del Mede­ghino in Duomo. Una sorta di sigillo a un’operazione di grande valore civile e culturale

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philosophy and social criticism

vol. 24, issue no. 24

may 2015

ISSN: 2037-0857

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