philosophy and social criticism

Raniero Panzieri: contro il conformismo delle pratiche

"Raniero Panzieri"

Raniero Panzieri

di Pino Ferraris

Le presentazioni del libro Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera (a cura di Paolo Ferrero, Edizioni Punto rosso/Carta, 2005) sono state occasioni per ricordare la figura di Panzieri ma anche per aprire una discussione di alcuni nodi di fondo del nostro agire politico. Una discussione da riprendere e allargare. Panzieri è stato organizzatore politico e dirigente negli aspri anni Cinquanta. Come direttore di Mondo Operaio, la rivista ufficiale del Psi, nel 1957-58, aprì con vigore e lucidità, dopo i fatti d’Ungheria, l’unica prospettiva di uscita a sinistra, classista e libertaria, dallo stalinismo.

Conosceva sino in fondo la vischiosa resistenza delle strutture del passato, sapeva della estrema difficoltà e della grande complessità di strutturare il nuovo. Nonostante ciò egli scelse di rompere per continuare. Panzieri fu e rimase uomo di frontiera senza cedere di un millimetro al richiamo delle comode dimore dell’ufficialità politica, rifiutando senza la minima esitazione ogni spregiudicata estetica del sovversivismo settario. La rottura del 1963 con Mario Tronti e i compagni che lasciarono i Quaderni Rossi per fondare Classe operaia fu politicamente importante oltre che molto pesante per Raniero.

Quel dibattito rinvia a dispute antiche del movimento operaio che lo storico francese Dolléans sintetizza nelle formula del conflitto tra rivoluzione di potenza e rivoluzione di capacità. Rivoluzione di potenza indica l’orientamento che subordina la trasformazione sociale alla potenza acquisita con la conquista del potere statale. In questa ottica l’azione sociale immediata e quotidiana è strumentalizzata alla finalità di produrre dominio organizzato della macchina politica. Essa prevede la sovranità del Partito guida, la necessità del momento autoritario. La rivoluzione di capacità rinvia invece alla capacità autogestionaria delle libere associazioni attraverso l’incremento delle risorse intellettuali e morali dei lavoratori e della loro forza autonoma di imporre soluzioni in proprio e dal basso dei loro problemi. Essa prevede il partito strumento al servizio delle solidarietà di classe e la coincidenza permanente fra emancipazione sociale e liberazione politica.

Le rivoluzioni di potenza hanno vinto molte volte, ci ricorda Wallerstein, hanno vinto con le loro strategie basate sulle due fasi: la conquista del potere statale per poi trasformare la società. Ma lo storico americano ci ricorda che i vecchi movimenti anti-sistemici «orientati allo stato» sono rimasti vittime dello stato stesso. Sono falliti nella promessa sociale e nella sfida della libertà e sono implosi. Da quei fallimenti, secondo Wallerstein, prende avvio la vicenda che è partita da quella che egli continua a chiamare la «rivoluzione mondiale del 1968», madre di tutti i successivi nuovi movimenti anti-sistemici, sino al più maturo di tutti, l’attuale movimento dei movimenti.

È qui, sul terreno della trasformazione della politica che Raniero Panzieri ebbe intuizioni veramente profetiche.

Che cosa voleva dire, in quegli anni, richiamare il tema del controllo operaio lanciato col dirompente manifesto politico dei minatori del Galles del sud nel 1912 come alternativa sia alla proprietà capitalistica sia alla statalizzazione? Per quei minatori in lotta lo Stato era un nemico tanto quanto il padrone. I lavoratori volevano diventare capaci di dirigere la propria industria con un sistema completo di controllo operaio. «Socializzare senza statizzare» è questa l’ultima proposta di rivoluzione delle capacità avanzata alla vigilia di quella prima guerra mondiale che forgerà lo scheletro d’acciaio dell’esperienza novecentesca, fatta di statalismo autoritario, capitalismo organizzato e politica militarizzata.

Il richiamo di Panzieri del tema del controllo operaio, l’apertura della dimensione del movimento politico di massa, l’affermazione secondo la quale il proletariato ha la possibilità e la necessità di educare se stesso costruendo i suoi propri istituti di democrazia riapre (nel linguaggio e nella forme del suo tempo) la perduta prospettiva della rivoluzione di capacità e tenta di ricongiungere intransigente istanza socialista e radicalismo della libertà. E tutto questo prima della «rivoluzione del 68», prima del crollo catastrofico del comunismo, prima dell’esaurimento del secolo socialdemocratico. Tronti rispolvera vecchie antitesi tra movimentismo e organizzazione, tra spontaneità e direzione, tra Consigli e Partito. Non sono più questi i termini del problema. Le articolazioni reticolari del far da sé solidale, le richieste di comunalismo partecipato, l’esigenza di un sindacalismo orizzontale in grado di coniugare protagonismo democratico, forza rivendicativa e capacità di fare società anche negli ambiti di vita, i movimenti di pace e di difesa dell’ambiente, il ritorno embrionale di forme di economia solidale tutto questo sollecita un grande sforzo di invenzione politica. In momenti come questi occorre soprattutto chiederci:quale politica? quale partito? Paolo Farneti, che è stato uno dei più acuti e stimolanti sociologi della politica, ci ha ricordato che l’esperienza storica del partito politico di massa non ci propone soltanto il modello di quel partito alternativo alla società civile che tendeva a inglobare e a partitizzare la società intiera secondo l’esperienza della socialdemocrazia tedesca di Bebel e di Kautsky e dei partiti della III internazionale.

Il vecchio partito laburista, cinghia di tramissione alla rovescia che rappresentava i sindacati nel parlamento, poteva essere visto come partito complementare alle strutture date della solidarietà operaia. E’ possibile invece vedere nel partito operaio belga di Vandervelde un partito coordinatore delle solidarietà. Era una associazione di associazioni, una federazione politica di camere sindacali, società di mutuo soccorso e cooperative. E’ bene tener presente questa articolazione pluralistica dell’esperienza storica del partito di massa quando la posta in gioco è un radicale ripensamento della politica. Dopo il crollo del partito burocratico di massa che inquadrava e mobilitava singoli individui collettivizzati emergono ora i fragili e arroganti partiti videocratici e personali che cercano di costruire il loro dominio sull’apatia e sull’atomizzazione di massa. Contemporaneamente il movimento dei movimenti dimostra nuova tenuta associativa, capacità cooperativa e forti esigenze di politica reticolare e partecipata.

Oggi ci troviamo di fronte al confronto e allo scontro tra forme diverse della politica che implicano ipotesi alternative dell’agire sociale. Di questo incominciava a parlarci Raniero quarant’anni fa. Ma c’è un’altra lezione per l’oggi che ci viene da lui . E’ fondamentale ricordare il suo metodo esemplare di analisi e di controllo delle grandi transizioni sociali. Negli anni a cavallo tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta egli indaga e contesta il passaggio verso il neocapitalismo del cosiddetto «miracolo economico».

Due strumenti essenziali Panzieri ha messo in opera a questo fine: la critica dell’uso capitalistico delle macchine e l’inchiesta operaia. Sul terreno dell’analisi e del controllo della successiva grande trasformazione del post-fordismo il nostro fallimento è totale. Il mutamento verso la società informazionale ci è semplicemente caduto addosso. Come mai questa tecnologia informatica che per sua essenza intreccia tecnica e potere, non siamo riusciti a sezionarla con il bisturi di Panzieri della critica dell’uso capitalistico delle macchine?

È vero che la telematica ha un doppio volto. Essa vende computer come beni di consumo durevoli che ci rendono disinvolti consumatori di informazione. Ma questa tecnologia è anche e soprattutto un formidabile bene strumentale che scende sul versante del lavoro come procedura che regola, come ordinatore che guida, come panopticon che sorveglia.

Quando incominciammo, nei primi anni Ottanta, ad analizzare l’automazione flessibile a base elettronica nelle fabbriche vedevamo soprattutto l’informatizzazione come automazione di sostituzione del lavoro umano, come robotizzazione. Eravamo ossessionati dall’utopia capitalistica della fabbrica senza operai. In realtà lo sviluppo principale dell’informatica è stato nella direzione della tecnologia di integrazione che ha prodotto operai senza fabbrica. Due notizie recenti danno il segno della direzione di marcia. Nelle fabbriche dell’ex Zanussi, dove venti anni fa seguivamo criticamente il processo di robotizzazione, ora si smontano i robot e si mettono di nuovo gli uomini e le donne sulle linee di produzione.

La destabilizzazione del lavoro generata dall’informatizzazione ha prodotto una tale abbondanza di lavoratori flessibili e a basso costo da rendere conveniente l’utilizzazione del lavoro umano al posto del robot.

Contemporaneamente, da una ricerca universitaria commissionata dal sindacato inglese, ci viene una novità sconvolgente: si diffonde la robotizzazione diretta dell’umano. Sono migliaia gli operai con il computer da polso che vengono guidati e controllati, via satellite, nei minimi dettagli delle loro operazioni lavorative.

Questa funzione della telematica come nuovo automa-autocrate del processo di produzione che ha sostituito la catena di montaggio ci ha lasciato disorientati. Non esiste una critica dell’uso capitalistico del macchinismo post-fordista. Il decentramento centralizzante dell’automazione d’integrazione informatica ha scisso cooperazione tecnica e cooperazione sociale, ha verticalizzato e concentrato il comando mentre ha frantumato e disseminato orizzontalmente macchine e operai.

Si va perdendo la centralità della fabbrica come luogo di integrazione del ciclo di produzione. Diventa molto più complesso quel movimento di andata e ritorno tra soggettività operaia e movimenti del capitale che era proprio dell’inchiesta che ci proponeva Panzieri.

Quando allora si parlava di con-ricerca o di inchiesta socialista si sottintendeva una visione, non certo deterministica, ma comunque piuttosto ottimista circa il rapporto tra essere sociale e coscienza sociale. Oggi questo rapporto è molto più contraddittorio.

In tempi come questi il rischio più grave è quello di andare a cercare soltanto ciò che vogliamo trovare mentre è fondamentale nell’inchiesta incontrare l’alieno, lo sconosciuto, l’imprevisto. L’intreccio sempre più significativo tra ambiti di vita e di lavoro richiede un ripensamento di fondo dell’inchiesta. Non c’è più un punto di osservazione privilegiato della condizione operaia. 

Il call center, il bancario al video-terminale, il conduttore di sistemi automatici, il lavoro autonomo di seconda generazione, l’hacker creativo? Oppure le immense periferie cinesi, indiane e brasiliane che ci ricordano, su smisurata dimensione di scala, la Londra ottocentesca di Engels? Occorre rifuggire dalle semplificazioni, occorre evitare di assumere la parte per il tutto, è necessario riaccendere i riflettori sul lavoro da ogni lato, da molte postazioni, da svariate angolature.

Vi sono queste e infinite altre difficoltà nel ridefinire e rilanciare il metodo dell’inchiesta ma alla base della paralisi e dell’indifferenza verso l’inchiesta c’è una colossale, gigantesca svalutazione economica, culturale e politica del lavoro. Solo dei visionari potrebbero negare la dilatata presenza sociologica del lavoro, tutti però dobbiamo constatare il crollo del valore del lavoro che, a mio avviso, ha la sua radice principale nella rottura drammatica del nesso tra lavoro e politica, tra lavoro e trasformazione sociale. Ci vuole anticonformismo, è necessario spezzare senza pietà il conservatorismo delle pratiche e delle idee, occorre consapevolezza piena dei mutamenti di fondo, coraggio, come diceva Raniero, di rompere radicalmente, ma rompere per continuare. Non rompere per liquidare.

[da il manifesto, 14 luglio 2005]

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philosophy and social criticism

vol. 24, issue no. 24

may 2015

ISSN: 2037-0857

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