philosophy and social criticism

Pirati, schiavi e marinai

Marco Dotti

La nave procedeva vicina, troppo vicina alla terra per poter essere confusa con un vascello pirata (wonted freebooter), pratico di fondali calmi in un mare senza legge come quello dell’Isola Santa Maria. Così in apertura del suo Benito Cereno (1855) Hermann Melville descrive Santa Maria, disabitata e deserta, quasi dimenticata dagli uomini e da Dio sulla costa meridionale del Cile. Data la vicinanza del vascello alla costa, il capitano Amasa Delano non si preoccupa che la nave sconosciuta non inalberasse alcuna bandiera, “benché fosse abitudine tra i marinai di qualunque paese in pace, dispiegarla entrando in un porto dove, per quanto disabitate le rive, si trovasse una sola altra nave”. Simile a un “monastero imbiancato dopo la tempesta”, avvicinatasi, la nave rivela la sua precisa natura: un mercantile spagnolo di primordine – precisa Melville – adibito al trasporto di schiavi neri e merce di valore. Sulla facciata anteriore di un piedestallo, una scritta beffardamente ingiungeva “Seguid vuestro jefe”, seguite il vostro capo, mentre sulle tavole di testa si leggeva a chiare lettere lettere – che un tempo dovettero essere d’oro – il nome della nave, “San Dominique”. C’è qualcosa di inquietante, suggerisce infine Melville, nella natura stessa delle navi. Di tutte le navi, non solo di quelle senza un vero capo da seguire, come la “San Dominique” che la ridicola parata delle forme vorrebbe ancora guidata dallo spagnolo Benito Cereno, ma il tempo e l’incuria materiale sveleranno essere in mano al suo servitore nero Babo, messosi alla testa degli schiavi che hanno massacrato gli ufficiali di bordo, prima di ordire la loro ridicola messinscena. La casa e la nave, entrambe inquietano: l’una per mezzo delle pareti e delle persiane, l’altra, precisa sempre lo scrittore, “delle murate alte come bastioni, che nascondono alla vista i loro interni fino all’ultimo”. Ma nel caso della nave c’è qualcosa di più perché “il vivente spettacolo da essa contenuto ha nella sua repentina e integrale apparizione, in contrasto col vuoto oceano che la circonda, l’effetto quasi di una scena di miraggio”. Per questa ragione, la nave può apparire irreale “e i costumi, i gesti, i visi inaspettati, un chimerico sguardo emerso dall’abisso, che ringhiottirà subito ciò che ha dato fuori”. Attraverso navi senza bandiera e talvolta senza nome, ha osservato Gilles Lapouge (Pirati, Excelsior 1881, Milano 2010), il mare ossessiona la terra. La ossessiona per ciò che nasconde non solo tra gli abissi, ma anche nel ventre di legno di quelle imbarcazioni che Melville voleva dalle “murate alte come bastioni”. Schiavi, oro, miseria, ricchezza o peste: tutto può celarsi in una nave. Tutto vi può essere dissimulato, anche una ribellione di schiavi capeggiata da un mozzo dall’aria insignificante.

Klaus Kinski in "Cobra verde" (1987) di Herzog

Se la ribellione dello schiavo è la più inquietante, ha pur sempre un “termine”, condizionata come è dalla debolezza e dall’incapacità di governare un vascello da parte di rivoltosi inesperti (non a caso, il timore legato ai vascelli fantasma alla deriva, carichi di appestati o di ex-schiavi ridotti in fin di vita), quella del pirata è la più disperata e temuta perché stando ancora a Lapouge, nasce da “un cuore desolato, che non si aspetta nulla. Si impadronisce della scacchiera, la manda in mille pezzi ma non lo sfiora proprio l’idea di ricostruirne una nuova. Si ritira dal gioco degli uomini e, se continua a usarne le pedine, non spiegherà le regole a nessuno, se non ai suoi riprovevoli compagni, a quelli con cui ha stretto il patto”. C’è molta nostalgia, nelle parole di Lapouge, per una figura legata da un contro-patto criminale che, oramai scomparsa da tempo nella sua forma “classica”, agli occhi di un osservatore del XX secolo può sopravvivere in due dimensioni. Da un lato, può sopravvivere nella sua dimensione mitico-avventurosa, e ne fanno fede sia il successo e l’influenza di “testimonianze” paraletterarie, come quelle del pirata e naturalista William Dampier del quale Mursia ha pubblicato le  Memorie di un bucaniere, relative alla sua circumnavigazione del globo del 1697, sia le vicende legate alla formazione di una vera aristocrazia del mare, in una competizione tra marinai e gentiluomini esemplificata dal contrasto tra il marinaio Francis Drake e il nobile Thomas Doughty, in cui Norbert Elias rintraccia le origini della supremazia della marina militare britannica (nei saggi e negli appunti, in gran parte inediti, racconti nel volume Marinaio e gentiluomo. La genesi della professione navale, a cura di A. Martelli, trad. di A. Perulli, Il Mulino, Bologna 2010). Dall’altro lato, la figura permane stingendosi in un romanticismo della rivolta (oramai) impossibile. Nel 1936, Robert Desnos sanciva definitivamente il commiato dalla seconda figura, pubblicando un Lamento per il pirata: “Versiamo una lacrima per il pirata, per il pirata e per la pirateria!”. Ma chi era il pirata rimpianto da Desnos? Pirata, secondo il De officiis di Cicerone, era “il nemico di tutti”, che non poteva essere annoverato tra i nemici legittimi, per lui non valevano né le normali regole di guerra, né la fede prestata, e neppure il giuramento (dal De officiis parte l’interessantissima e documentata genealogia di Daniel Heller-Roazen, Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, trad. di Giuseppe Lucchesini, Quodlibet, Macerata 2010). Pirata era dunque – ecco il rimpianto di Desnos, nell’annus horribilis 1936 – un nemico nei cui confronti la guerra non aveva mai fine, ma un nemico che tale guerra l’aveva pur sempre scelta, uno che non volendo capi, si faceva capo di se stesso e di una ciurma romanticamente considerata di eguali nel destino.

In tal senso, suggerisce Daniel Heller-Roazen, se pure sono tramontati seduzione e fascino dell’antagonismo piratesco, inteso come stereotipo estetico e romantico, quello piratico è diventato invece una sorta di paradigma cruciale per comprendere alcuni nodi della contemporaneità. Richiamandosi in più punti del suo lavoro a Carl Schmitt (in particolare al suo importante saggio sul concetto di pirateria, Der Begriff der Piraterie, tradotto sul numero 26 della “Vita italiana”, a pochi anni dal congedo di Desnos, nel 1938), Heller-Roazen osserva che la pirateria implica una regione, finora coincidente con il mare aperto, nella quale vengono applicate norme giuridiche straordinarie e in cui vale uno stato d’eccezione permanente. Non solo, in questo spazio più che la confusione, si realizzerebbe il collasso tra categorie criminali e politiche che, a loro volta, porterebbero a una trasformazione radicale del concetto di guerra, diretto verso un soggetto che esprima un antagonismo tale da richiedere misure di repressione che mischino tecniche sia politiche, che poliziesche. Questa guerra, conclude Heller-Roazen, non può che essere perpetua, e dichiarata in nome di una pace impossibile. Essa conosce infatti “soltanto zone mobili di violenza transitoria, dai confini incessantemente disegnati e ridisegnati sulla superficie sferica della terra”. Lo scontro con il “nemico di tutti” deve per forza ricominciare dal principio, ogni giorno, e ogni giorno riprendere senza eccezioni di campo, in forma al tempo stesso intensa, instabile e provvisoria. Forse anche per questa ragione, Benito Cereno poteva non solo essere addotto da Schmitt in funzione autoassolutoria alla fine della Seconda guerra mondiale, ma anche indicato quale paradigma di “capitani senza potere” costrettti a misurarsi con forze senza nome, alla completa mercé di un nuovo polimorfo Leviatano e di un policentrico demone della guerra, vittime e carnefici al contempo di un sistema acefalo che, non di meno, continua come la San Dominique melvilliana a recare la scritta “Seguid vuestro jefe”. In questo mare indistinto, senza che nessuno riesca a capire se ne siano un dialettico per quanto grottesco rispecchiamento oppure una reale alternativa, i vascelli senza bandiera continuano a ossessionare la terra.

Nel 1838, una ventina di anni prima di Melville, E. A. Poe aveva collocato al centro delle sue Avventure di Gordon Pym proprio la descrizione di una nave dall’irrealtà sconcertante, un vecchio mercantile olandese alla deriva, abitato da fantasmi e costretto a non appartenere a nessuno e a non radicarsi in nessun luogo, dal cui ventre di legno emanava un fetore “inconcepibile, infernale, intollerabile, soffocante”. E’ in qualche modo a questo fetore infernale, a questa ossessione per la natura altrettanto demoniaca delle navi – e alle paure di Delano che le forme celino misteriose sostanze – che la memoria ritorna, leggendo di altre imbarcazioni. Sono quelle meticolosamente ricostruite dal danese Thorkild Hansen nel suo Le navi degli schiavi (2009), seconda parte di una Trilogia che denuda più che limitarsi a denunciare la falsa coscienza di un paese, la Danimarca, arricchitosi col commercio degli schiavi nel triangolo tra l’Africa e le Isole Vergini dei Caraibi, convintosi di essere (altro caso à la Melville) il primo paese europeo ad avere abolito la schiavitù. Ora integralmente disponibile anche per il lettore italiano, grazie alla meritoria scelta della casa editrice milanese Iperborea che, nelle traduzioni di Maria Valeria D’Avino, ha o mandato in libreria – dopo aver dato alle stampe dal 2005 anche La costa degli schiavi e Le navi degli schiavi– il capitolo conclusivo della straordinaria ricostruzione di Hansen, Le isole degli schiavi (Iperborea, Milano 2010).

La “trilogia” di Hansen, autore tra le altre cose di una monumentale ricostruzione del caso clinico di Knut Hamsun, ricostruisce le rotte dell’ “ignobile tratta” danese e ripercorre, attraverso la lettura di rari documenti, alcune tappe del cammino oscuro di navi costruite con ingegnosa e perfida cura, per “nascondere” a sguardi indiscreti l'”imbarazzante carico” trasportato dall’Africa. Navi cariche di dolore e miseria, che per alcuni (e persino per l’illuminata corona danese) erano al contrario ricchezza e prosperità, battezzate con nomi “rassicuranti” per dare il segno dei tempi nuovi: Buona Speranza, Fedeltà, Libertà. Tra il porto di Copenaghen, l’Africa e le colonie danesi delle Isole Vergini, per circa due secoli, i trasporti si svolsero dapprima su navi riadattate alla tratta dei neri africani, mentre nel cosiddetto periodo d’oro del commercio danese, alla fine della seconda metà del XVIII secolo, le imbarcazioni negriere cominciarono a essere costruite appositamente per questo scopo. Per contenere il massimo di schiavi e schiave possibili fu costruita la “Rio Volta” di cui Hansen riporta il disegno per la costruzione della stiva, comparandolo a quello di un’altra nave negriera, la celebre imbarcazione inglese “Brookes” il cui modellino il conte di Mirabeau teneva in bella vista nel proprio studiolo, avendolo ricevuto in dono dall’abolizionista Thomas Clarkson. All’occorrenza, un ingegnoso ancorché elementare sistema di assi e travi, nascondeva alla vista i dannati del mare, percepibili solo dall’odore e per qualche sordo lamento proveniente dalle stive. Di questi dannati Hansen ricostruisce storie, dolori e rivolte quasi epiche (esemplare quella di Kong Joni, anima e leader della prima ribellione). Le loro voci, come i vascelli fantasma di Poe ossessionano ancora la terra. Come la cattedrale imbiancata di Celano vagano senza meta per l’Europa e, con i suoi miraggi non le concede pace.

[da “L’Indice dei libri del mese“, ottobre 2010]

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