Quando da Bordeaux partivano gli schiavi
Valentina Porcheddu
Bordeaux, port de la lune. È con questo slogan che la città viene presentata ai turisti di tutto il mondo e non per niente il suo logo è un abbraccio tra quattro mezze lune. Ai visitatori riesce tuttavia difficile non soltanto distinguere questa forma di crescente lunare, ma anche immaginare un porto in quella che oggi è la corniche del fiume. Una larga e lunga banchina, da percorrere a piedi, in bicicletta o sui rollers, ospita infatti un giardino botanico e uno specchio d’acqua artificiale che riflette le superbe facciate dei palazzi ottocenteschi, patrimonio dell’Unesco. I vecchi hangar sono stati trasformati in spazi espositivi o ricreativi e le rare navi, che si vedono solcare le acque della Garonna, sono quelle da crociera con ponti illuminati e sagome danzanti, che battono bandiere di paesi lontani. Eppure nel XVIII secolo questo porto, distante appena 60 km dall’Oceano, era al centro di un fervido commercio, ben poco «pulito», che fu all’origine della ricchezza della città.
Ma evocare la luna è certamente più romantico che ricordare le vergogne del proprio passato. E così tra vigliaccheria, convenienza politica e omertà intellettuale, ci son voluti ben due secoli prima che Bordeaux, secondo porto di negrieri della nazione dopo Nantes, rendesse giustizia alla memoria e alla popolazione meticcia che di quel passato è l’erede. Su iniziativa del comune ma soprattutto sotto la spinta di numerose associazioni che si battono per il riconoscimento della «diversità», si è inaugurata infatti domenica scorsa (giornata nazionale di commemorazione per l’abolizione della schiavitù e della tratta dei neri) al Musée d’Aquitaine un’esposizione permanente intitolata: Bordeaux au XVIIIe siècle: le commerce atlantique et l’esclavage. Ottocento metri quadri, quattro sale: un percorso che attraverso incisioni, oggetti, documenti, installazioni audio e video, accompagna il visitatore in un viaggio riparatore che per qualcuno sa di riscatto, per altri di catarsi. Ma che vuol essere soprattutto un invito collettivo a cogliere il lascito morale della storia.
Alla vigilia della rivoluzione, Bordeaux era il primo porto per volume di commerci con le isole dell’America. Beneficiando del regime dell’«esclusività», che impediva alla colonie il commercio con i paesi stranieri, trasportava verso le Antille passeggeri e merci (stoffe, farina, vino) dell’Aquitania che venivano scambiate con prodotti coloniali (zucchero, tabacco, caffè, indigo, cacao) da ridistribuire in Europa. Il bisogno di forza lavoro nelle Antille spinse gli armatori di Bordeaux al commercio triangolare della tratta dei neri: tra il 1729 e il 1792 le navi francesi deportarono circa centocinquantamila neri d’Africa occidentale nelle Antille. Cancellata dalla Costituente nel 1794 e ristabilita da Napoleone Bonaparte nel 1802, la schiavitù venne definitivamente abolita in Francia nel 1848.
I fatti storici narrati nell’Esposizione sono immersi in una scenografia che cambia di volta in volta colore: rosso scuro nella prima sala, per celebrare la prosperità della vite, marrone nella seconda, per ricordare lo zucchero di canna, vero e proprio petrolio dell’epoca, turchese nella terza per evocare il mare, la traversata, l’altrove. Bianco e nero, infine, per l’ultima sala. Una scacchiera di foto e citazioni che simbolizza la lotta, l’incontro, il métissage. Un abitante di Bordeaux, originario della Guadalupe, scriveva: «Abbiamo seminato anche per inventare il cammino, per liberare il passato e l’avvenire. I nostri tamburi si sono accoppiati con le terre e da quest’unione sono nate le musiche del Nuovo Mondo».
Questo piccolo poema ci ricorda che lo schiavo, privato di ogni dignità umana, rappresentava la forza fisica agli occhi del padrone, il quale era incapace di vedere oltre i suoi muscoli. Di tale invisibilità lo schiavo fece il perno della sua resistenza. Perché se è facile abbattere il corpo di un uomo, più difficile, pur privandolo di ogni dignità, è distruggerne l’anima. Per cui, l’espressione della propria interiorità e cultura – in tutte le sue forme e le sue arti -, trascendendo il corpo, divenne il vero mezzo d’affrancamento dei neri. Ancora oggi è ciò che non riusciamo a vedere oltre il colore della pelle, che rende lo straniero un «diverso» e quindi uno «schiavo» della nostra tracotanza. Le catene della xenofobia e del razzismo, del potere e del profitto, imprigionano in forma di leggi o atti barbarici i nuovi schiavi. Libero è non solo chi, nelle nostre società, riesce a «affrancarsi» integrandosi, ma anche colui che, accettando l’altro, fa della diversità un valore. Dall’altra parte delle Alpi, visitando l’esposizione di Bordeaux, si ha la sensazione che il «no a un’Italia multietnica» pronunciato in questi giorni risuoniancora più insopportabile. Nel dramma dei molti «clandestini» respinti e abbandonati in mare, nelle metropolitane che si vorrebbe trasportasse su una carrozza gli immigrati, sull’altra gli italiani (quelli doc, bianchi e con gli occhi chiari), rivivono i fantasmi di un passato che, forse, non dappertutto, vuole davvero «passare».
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