philosophy and social criticism

L’editore in fiera

Maria Teresa Carbone

14 maggio 2009

Il titolo dell’ultimo libro di Umberto Eco – più precisamente, la trascrizione di un suo lungo dialogo con lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, coordinato da Jean-Philippe de Tonnac – suona come un’ironica sfida, Non sperate di liberarvi dei libri (traduzione di Anna Maria Lorusso, Bompiani 2009). Quale miglior proclama per dare avvio alla Fiera del Libro di Torino che si apre oggi proponendo appunto come primo momento di incontro la conversazione dal vivo di Eco e Carrière?

Non c’è dubbio che al Lingotto l’illustre semiologo (nonché filosofo, romanziere, medievista…) e l’autore delle sceneggiature di Bella di giorno ramazzeranno salve di applausi, sciorinando le loro argomentazioni, secondo le quali, a dirla in due parole, il libro, «come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici» è un oggetto a suo modo perfetto e quindi non più migliorabile. Argomentazioni sensate, anche alla luce della caducità dei vari «supporti» alternativi (cd-rom, dvd, generazioni successive di e-book) che nascono e muoiono nello spazio di poche stagioni. Ma argomentazioni, anche, costrette a fare i conti con una trasformazione delle pratiche di lettura tale da rendere arrischiata qualsiasi previsione e, al tempo stesso, con un vero e proprio stravolgimento del settore dell’editoria, che ha portato, nell’arco di pochi anni, alla concentrazione di pochi, potentissimi gruppi, capaci di dettare legge su scala mondiale, a colpi di bestseller preparati a tavolino e di campagne promozionali così muscolose da mettere a repentaglio la sorte delle case editrici (e delle librerie) che si ostinano a rimanere indipendenti.

Di questo si parlerà al Lingotto, sempre oggi, in un dibattito, «L’Europa non fa più sconti. La legge del libro all’estero», organizzato non a caso da sei piccole sigle di qualità (Instar Libri, Iperborea, Marcos y Marcos, Minimum Fax, Nottetempo e Voland), che per l’occasione hanno invitato alcuni «colleghi» stranieri per confrontare la – tutt’altro che rosea – situazione italiana con quello che accade all’estero. Insieme all’olandese Harry Kramer, alla francese Liana Levi e alla tedesca Verena Sich, interverrà all’incontro André Schiffrin, protagonista del mondo editoriale statunitense prima alla Pantheon Books e poi con la «sua» New Press, ma anche raffinato intellettuale a cavallo di due continenti (fu suo padre, Jacques, a dare vita alla Bibliothèque de la Pléiade) e autore di due piccoli volumi, Editoria senza editori e Il controllo della parola (usciti entrambi per Bollati Boringhieri) che, descrivendo efficacemente dall’interno il fenomeno della concentrazione editoriale prima negli Stati Uniti e poi in Europa, sono diventati il citatissimo punto di riferimento di tutti quelli che, nel settore, continuano a considerare il libro come un meraviglioso veicolo di scambio culturale e non solo come una fonte di profitti.

Con Schiffrin, che ha appena pubblicato per Voland una avvincente «autobiografia intellettuale» (Libri in fuga. Un itinerario politico fra Parigi e New York, a cura di Valentina Parlato, 2009), abbiamo parlato alla vigilia dell’incontro torinese.

Nell’ultimo anno non c’è paese al mondo che non abbia subito i contraccolpi della crisi economica. Pensa che la recessione risparmierà il settore editoriale?

Temo al contrario che la crisi avrà effetti molto negativi. Negli Stati Uniti le case editrici hanno già licenziato molti dipendenti, ma forse l’ambito dove i problemi sono più evidenti è quello delle librerie: delle due grandi catene esistenti negli Stati Uniti (quelle, detto per inciso, che hanno soffocato la maggior parte delle librerie indipendenti), una, Borders, è sul punto di fallire e l’altra, Barnes and Noble, non sta molto meglio. Quanto alle case editrici, dal momento che le grandi concentrazioni non smetteranno di tendere a profitti altissimi, è molto probabile che con la crisi cercheranno di restringere la scelta dei libri, puntando tutte le risorse sui titoli che, secondo loro, potranno garantire grandi guadagni. Insomma, la cosiddetta politica del bestseller sarà ancora più accentuata.

In Editoria senza editori lei ha denunciato appunto il fenomeno delle grandi conglomerazioni editoriali. Eppure in questi anni sono nate tante piccole sigle indipendenti che in alcuni casi hanno avuto un discreto successo. Come spiega questa apparente contraddizione?

Si tratta di un fenomeno incoraggiante, soprattutto perché nella maggior parte dei casi a varare queste nuove sigle sono dei giovani, che hanno alle spalle una esperienza nelle grandi case editrici e si sentono abbastanza forti da affrontare un’impresa in proprio. Quanto al loro successo, è dovuto alla capacità di queste sigle di rivolgersi a nicchie di pubblico, sfruttando al meglio gli spazi vuoti lasciati dalle scelte omologate delle grandi conglomerazioni e contrastando il deserto intellettuale creato dai grandi gruppi.

A questo proposito, però, c’è chi sostiene che mai come in questa fase della storia si è letto e scritto, e che quello che alcuni descrivono come un imbarbarimento nasconde una sorta di età dell’oro, meno elitaria di quella che l’ha preceduta. Cosa ne pensa?

Effettivamente le cifre sulla lettura negli Stati Uniti rivelano che il tempo dedicato alla lettura non è calato. Si tratta però, almeno per il cinquanta per cento, di una lettura su Internet, una percentuale che sale ancora presso i lettori più giovani, che sempre più di rado si accostano ai libri. Ora, senza riaprire il vecchio dibattito sul ruolo svolto dalla cultura popolare, mi sembra che ci sia una differenza sostanziale rispetto a trenta o quarant’anni fa. Quando ero giovane, le case editrici fondavano la loro ragion d’essere sull’offerta a un pubblico che fosse il più vasto possibile dei libri migliori: Penguin per esempio pubblicava i gialli di Agatha Christie, ma proponeva anche classici e autori contemporanei di qualità a prezzi molto contenuti. Oggi non solo è più difficile avere accesso a queste opere, ma costano anche molto di più. Insomma, di certo ha un senso pubblicare Il codice da Vinci, l’importante è che libri come questo non monopolizzino il mercato, come le grandi case editrici alla ricerca solo del profitto tendono invece a fare.

Anche tenendo conto dei cambiamenti attuali, in che cosa consiste per lei il ruolo dell’editore?

Per quello che mi riguarda, resto fedele a quello che diceva il grande Kurt Wolff, fondatore di Pantheon Books, secondo il quale un buon editore deve offrire ai lettori i libri che non sanno ancora di desiderare. Insomma, è chiaro che per funzionare una casa editrice deve vendere i suoi libri, equilibrando però la scelta tra quelli che trovano subito il loro pubblico e quelli che richiedono un tempo maggiore. Un bel problema, oggi che il tempo è una merce di lusso. Quando da ragazzo lavoravo in una libreria, il discrimine per un libro era la sua qualità, adesso è la rapidità con cui viene venduto, e i titoli che non resistono a questa prova scompaiono immediatamente. Del resto, non c’è da stupirsi, visto che ora i manager delle case editrici provengono quasi sempre da altri settori, dove vige la regola del profitto immediato.

I grandi gruppi editoriali, da Bertelsmann a Holtzbrink a Planeta, sono tutti europei. A cosa attribuisce questo apparente paradosso, che sembra smentire l’immagine di un’Europa colta e raffinata contrapposta a un’America avida e mercantile?

Penso che alla base di questo movimento di «conquista» delle case editrici europee ci sia stato, da parte dei gruppi tedeschi o francesi, il tentativo di uscire dai confini imposti da una lingua percepita comeminoritaria. Per raggiungere questo obiettivo gruppi come Bertelsmann si sono mostrati pronti a spendere enormi quantità di denaro, anche se, così facendo, hanno fatto sciocchezze enormi. Vivendi per esempio ha comprato una casa editrice americana, Houghhton, per una cifra quasi doppia di quella per la quale l’ha rivenduta l’anno successivo. Ma questo è il mondo delle corporations, che ti impone di essere il numero uno o il numero due, e ti costringe a fare scelte sconsiderate.

E a proposito di giganti, qual è il suo punto di vista sul Google Settlement, la transazione che Google propone – anzi di fatto impone – a editori e autori di tutto il mondo per includere le loro opere nel Google Library Project, il programma che si prefigge di indicizzare «tutta la conoscenza del mondo»?

Come Robert Darnton nel suo intervento di qualche mese fa sulla «New York Review of Books» sono molto preoccupato, penso che l’accordo proposto da Google prefiguri una situazione di monopolio pericolosissima. D’altro canto, la digitalizzazione del patrimonio culturale è un dato con cui bisogna, alla lettera, fare i conti. Sotto questo aspetto è necessario che il settore dell’editoria si attrezzi per un cambiamento che sarà radicale. Il mio prossimo libro cerca di analizzare appunto il rapporto tra il denaro e la parola scritta, cercando di capire dove, e come, si possono tracciare dei confini fra quanto viene ceduto gratuitamente e quanto invece si deve pagare. Temi fortemente connessi a una politica culturale consapevole e mirata a livello pubblico che oggi purtroppo non esiste quasi da nessuna parte.