Scoprire l’altro in una teca di vetro
Maurizio Mazzeo
Narratore, giornalista, viaggiatore, Frank Westerman è nato quarantacinque anni fa a Emmen, nella provincia olandese di Drenthe. Corrispondente free-lance per «De Volkskrant», nel 1993 Westerman ha lavorato come inviato a Belgrado e in seguito ha scritto corrispondenze da Mosca. Proprio dalla sua esperienza giornalistica, l’autore trae spunto per i propri libri, in bilico tra narrativa e reportage. È il caso di Ingegneri d’anime (Feltrinelli, 2006), che racconta dell’improvvisa irruzione di Stalin, il 26 ottobre del 1932, in un consesso di autorevoli scrittori convocati a Mosca da Maxim Gorky. E anche, a maggior ragione, di El Negro e io (Iperborea, traduzione di Claudia Cozzi,2009), dove l’autore affronta temi legati al confronto con «l’altro» nell’immaginario coloniale.
Il «Negro» che dà il titolo al suo ultimo lavoro – ultimo in ordine di traduzione, perché nel frattempo in Olanda è apparso Ararat – è un africano imbalsamato esposto in un piccolo museo di un altrettanto piccolo villaggio spagnolo. Eppure quel «pezzo da museo» è rivelatore di un’intera mentalità razziale.
Quella del Negro è una storia molto semplice. Mi trovavo in Spagna, in una cittadina, e volevo visitarne il museo di storia naturale. È lì che, mosso da una semplice ambizione da turista, mi sono imbattuto in una teca che conservava una strana creatura, un uomo certamente, ma per gli abitanti del villaggio era solo El Negro, il nero imbasamato e mummificato considerato più un oggetto senza nome, che un soggetto vero e proprio. Un oggetto, ma ben classificato da naturalisti esperti in tassonomie e come tale vanto del museo. La storia che racconto è nata da questa semplice scoperta. Una scoperta – per me, evidentemente per gli abitanti del villaggio non lo era, visto che avevano familiarizzato con quella strana presenza – un po’ dura, un confronto-scontro con un’identità e un’alterità conservate in una teca da museo. Vent’anni dopo l’incontro con El Negro ho intrapreso il viaggio che descrivo nel libro, passando dai Pirenei al Sudafrica, alla ricerca dell’identità di quell’uomo e, in fondo, alla ricerca pure della mia di indentià.
Nel suo lavoro – non soltanto nel Negro e io – lei intreccia reportage, romanzo e biografia. Ci vuole parlare dei motivi di questa scelta narrativa?
Io amo raccontare storie. Per farlo, però, ho una precisa necessità: partire dai fatti, legarmi ai fatti, trovare fatti da raccontare. Nel caso di El Negro, il fatto è rappresentato da un incontro. Non un incontro qualunque, beninteso, ma un incontro doppiamente straniante. Lo definirei quasi un impatto, un impatto con l’altro. E questo altro è il nero dell’Africa, con tutto il suo portato simbolico (pensiamo alla schiavitù, alle catene, allo sradicamento, alla nuova emigrazione) e un radicamento forte nell’immaginario collettivo, fosse pure in termini di rimozione. Questo altro, poi, è esposto in un museo di storia naturale, come fosse un coleottero o una scimmia antropoide non ancora o non più umana. Ma il fatto, non è solo che quel nero imbalsamato esiste, ma anche che io – e come me molte altre persone – posso incontrarlo, osservarlo, guardarlo. E un po’ – ma questo non lo si vuole dire – farmi guardare. El Negro ci scruta e ci chiede: ma che cosa mi avete fatto? Che cosa avete fatto della vostra umanità?
Oggi sembrano ritornare alcuni fantasmi che credevamo del tutto superati: timore del pluralismo, idea di uno scontro o addirittura di un rapporto egemonico fra culture…
I fantasmi non tornano, per la sola ragione che non sono mai realmente passati. In ogni caso, credo sia impossibile prevedere che cosa accadrà in futuro. Ciò nonostante, occorre guardarlo negli occhi, questo fantomatico altro, non ridurlo a una parola vuota esposta in una qualsiasi fra le molte teche in cui rinchiudiamo persone e cose. La mia storia cerca di mostrare questa impossibilità di previsione. Di fatto, però, l’era del politicaly correct sta per finire e qualcosa di nuovo ci attende. Oggi penso ai molti turisti in coda davanti a mostre e musei. Forse in qualche vetrina può capitare anche a loro che un «negro» li guardi e col suo sguardo rimandi – come uno specchio – le molte immagini di questa cosa strana e a dir poco controversa che qualcuno si ostina a chiamare «identità europea».