Roland Barthes, frammenti di un discorso sedizioso
Marco Dotti
“Roland Barthes”, a cura di Marco Consolini e Gianfranco Marrone, Riga, n. 30 (2010).
Il 7 gennaio del 1977, Roland Barthes tenne la lezione inaugurale del suo corso di semiologia letteraria, suscitando grande eco dentro e fuori il Collège de France. Trasmessa alla radio, pubblicata parzialmente su “Le Monde” e, l’anno seguente, in un volumetto per il suo editore di riferimento, Seuil, la Leçon di Barthes portava l’attenzione sul problema del potere nella lingua e sulla questione – mai realmente risolta, forse perché mai del tutto affrontata – della trasmissione non autoritaria di un sapere.
Discorso di potere, osservava Barthes, è ogni discorso che genera colpa e, di rilesso, suscita colpevolezza in chi lo riceve. Da questa prospettiva, ciò che di più oppressivo può esserci in un insegnamento, non è il “sapere” che esso convoglia, ma le forme discorsive in cui quel sapere viene presentato e proposto e la colpa che genera in chi “riceve”, ma talvolta persino in chi “dà”. Nascosto tra le pieghe delle cose, nelle mode, nei gusti, nei giochi, nelle opinioni e nei loro rimandi mitologici, non solo nelle istituzioni quindi, il “potere” è plurimo e pulviscolare, non si muove mai in una sola direzione e la sua lingua non è «né reazionaria, né progressista, ma semplicemente fascista». Il fascismo, infatti, non si può ridurre, banalizzandolo, a una semplice accozzaglia di divieti. Esso sconfina sul piano inevitabilmente torbido e controverso del “desiderio”, è un «oggetto vincolante» che va pensato analiticamente: «fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire». Per questo l’arte, se non si esime dall’affrontarlo, non può far altro che «renderlo credibile, dimostrando come arrivi», non certo mostrando a che cosa il fascismo assomigli.
Due attidudini, etiche e politiche, al tempo stesso permetterebbero – forse – di ingannare per un attimo, con un deviante ma mai disincantato gioco neolibertino, il meccanismo infernale di questo potere diffuso, senza peraltro scongiurare la possibiltà che il potere stesso si impadronisca di un’opera e la trasformi in un oggetto meramente gregario rispetto ai propri discorsi: l’ostinazione e la relativa capacità di spostarsi, di ritrovarsi sempre là dove non si è attesi. Barthes ricordava come, pensando ai film della Trilogia della vita , dopo averne constatato la strumentalizzazione, Pier Paolo Pasolini avesse tematizzato questo doppio movimento nei termini di “necessità” dell’ostinazione e coraggio dell’abiura. Anche nel Salò o le centoventi giornate di Sodoma, Barthes intravvedeva d’altronde ostinazione. Ma forse, in Salò, l’appropriazione e la (relativa) abiura erano stato disinnescati preventivamente dalla morte di Pasolini. In un articolo apparso a suo tempo su “Le Monde”, il critico francese rileva infatti come “ostinato” sia stato, da parte di Pasolini, prendere alla lettera talune descrizioni di Sade, rendendole in scene dalla bellezza triste e gelida, come certe tavole di enciclopedia. Impossibile trasferire quella “presa alla lettera” in altre rappresentazioni. Il fascismo, qui, era stato preso seriamente, con tutta la disarmante ingenuità di cui Pasolini era capace. Nonostante un percorso accademico non propriamente ortodosso, nel ’77 a Barthes (che si qualificava «soggetto indefinibile» e «impuro») su proposta di Michel Foucault era stata assegnata la cattedra di semiologia letteraria. Le sue “intenzioni” si rivelarono fin dall’inizio molto chiare: «vorrei tenere un discorso senza imporlo», dichiarava, «vorrei che la parola e l’ascolto che qui si intrecciano fossero simili all’andirivieni di un bambino che sta giocando attorno a sua madre, che se ne allontana e che poi ritorna da lei per portarle un sasso o un filo di lana, stabilendo così intorno a un nucleo di pace e serenità, tutta un’area di gioco, all’interno della quale il sassolino o il filo di lana hanno alla fine meno importanza del dono che se ne fa». Sessantaduenne, ricordando sul finire della Leçon gli anni dell’adolescenza trascorsi in sanatorio, quando nel 1934 e nel ’41 la tubercolosi lo aveva costretto a una sorta di involontario distacco ascetico dal proprio tempo e dal mondo, richiamandosi al Thomas Mann della Montagna incantata e, soprattutto, all’autore che più di tutti lo aveva accompagnato in quei giorni difficili, Jules Michelet, Barthes si vedeva in un corpo «molto più vecchio di me, come se noi avessimo sempre l’età delle paure sociali attraverso cui, secondo i casi della vita, siamo passati».In questo senso, richiamandosi anche alla «storia di quel luogo fantasmatico per eccellenza che è il corpo umano», la lezione del 1977 rappresenta un frammento esemplare del tentativo di Barthes di far transitare il suo insegnamento nella dinamica di una “vita nuova” e sul piano «illustre e démodé» della sapientia». C’è un’età, concludeva, in cui «si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra, in cui si insegna ciò che non si sa, e questo si chiama cercare». Vi è infine un’ultima età, quella dell’esperienza del “disimparare”, quando si deve «lasciare lavorare l’imprevededibile rimaneggiamento che l’oblio impone alla sedimentazione delle cognizioni, delle culture, delle credenze che abbiamo attraversato».L’ostinazione e l’abiura si fusero allora in una giocosa, ma per nulla pacificata deriva: «scelgo ostinatamente di non scegliere; scelgo la deriva: io continuo». Tre anni dopo, un incidente stradale se lo portò via.
[da il manifesto, 26 marzo 2010]
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