Le ragioni del sacro
di JeaN Paulhan
Delle “grandi parole”
Non passa giorno che uno dei nostri grandi uomini politici non faccia più o meno direttamente allusione al potere delle parole magiche o, come si dice, delle «grandi parole». Hitler parlava, un mese fa, del «potere delle formule» (come futurismo), Chamberlain dei potere delle parole (come uguaglianza dei diritti). André Maurois, trattando di politica, diceva ieri l’altro che siamo divisi soltanto da parole. E si sa che Maurras e J.R. Bloch spiegano tutte le nostre divisioni interne, uno con l’increscioso potere della parola democrazia, l’altro con la parola ordine. Così la questione delle parole o delle frasi sacre è permanente. Non c’è bisogno di andare sino in Madagascar per fare l’esperienza del proverbio.
Dubito che questa esperienza possa diventare più soddisfacente. Giacché la nostra prima spinta è di pensare che i grandi uomini dicano sciocchezze. Novalis ha scritto che la parola libertà ha sconvolto dei mondi. Sì, ma non sappiamo perché: c’era molta brava gente che era pronta a farsi uccidere per la libertà, che credeva in essa – gente per la quale libertà era tutto l’opposto di una parola: la realtà suprema. Cosi il resto. Ammetto volontieri che cubismo sia soltanto una parola per Hitler, ordine per Jean-Richard Bloch, e democrazia per Maurras.
Ma per il democratico, il reazionario o il pittore cubista essi sono proprio il contrario di una parola: una scienza, e una convinzione secreta: ora è del pittore, del reazionario e del democratico che si tratta. In verità, vi è una specie di assurdità violenta nel parlare del potere delle parole. Perché l’esperienza più semplice ci indica che, là dove le «parole» si mostrano non c’è potere – ma là dove c’è potere, non si notano neanche le parole. Non vedo «potere» che non sia legato all’ardore, alla convinzione – al pensiero.
Delle “grandi parole” (seguito)
Tuttavia, è appena dopo aver fatto questa scoperta che gli esempi opposti si presentano in gran numero. Perché ci sono parole che ognuno teme, che si evitano, e che esercitano dunque un potere, per lo meno negativo.
Si evita la parola svalutazione: si dice «allincamento monetario». La parola guerra: si dice «difesa nazionale». La “Revue des deux mondes” rifiuta i titoli in cui figura la parola morte. Quando recentemente è stato aumentato l’emolumento dei deputati, non si è detto: «aumento dell’indennità parlamentare». Si è parlato di «coefficiente che tiene conto dell’aumento del costo della vita».
Vi sono anche parole che si cercano: certe parole sconce portano fortuna. Certi arrangiamenti di parole esercitano un’influenza felice. La pubblicità lo sa bene, e la poesia. Du beau… du bon… Dubonnet è più efficace di quanto lo sarebbe Le Dubonnet est bel et beau.
Tutti abbiamo inventato nella nostra infanzia, delle parole magiche, che ci ponevano in un abisso di devozione, in una vertigine sacra. Non avevamo gran cura del loro senso. Michel Leiris ne ha dato due o tre esempi, che mi sembrano abbastanza sorprendenti. Si può amare una donna perché si chiama Rosa. Si può prendere il partito della Libertà o della Rivoluzione, perché queste parole «suonano bene» e senza aver riflettuto a lungo sulla natura della Libertà nè sulle chances della Rivoluzione.
Ma c’è di più. E la nostra stessa dimostrazione di poco fa si rivolta contro di noi. Era facile spiegare l’influenza di Maurras o di Jean-Richard Bloch con un’illusione comune: immaginiamo l’altra gente come se ci fossimo noi al posto suo, ci comportassimo come loro. Ora Maurras e J.R. Bloch considerano la democrazia o l’ordine semplici parole. Dunque (pensano) i repubblicani che agiscono per la democrazia, i reazionari che obbediscono all’ordine, sono mossi da semplici parole. L’illusione è evidente.
Ma bisogna fare attenzione al fatto che essa è tanto comune e naturale quanto evidente. Sarebbe poco: è così comune che le basta mostrarsi per diventare vera. Vera anzitutto certo per Maurras e Jean-Richard Bloch.
Ma qual è il reazionario o il democratico convinto che è sempre stato democratico o reazionario? Che non si è mai interrogato un giorno sui motivi della propria fede? Che non ha seguito, o solamente capito, una delle osservazioni che gli erano fatte? – portato così anch’egli, a ritenere ordine o democrazia una parola. Ben di più, a obbedire a una parola, se rimane reazionario o democratico.
Così, in questo nuovo regno del linguaggio sacro, come nell’altro, il linguaggio segreto ci rinvia alla scienza segreta, e la scienza segreta al linguaggio segreto. Non si esce dal circolo vizioso.
[Estratto da: Scritti sugli hain – teny e sui proverbi malgasci, con un saggio di Silvio Yeschua ; traduzione e introduzione bibliografica a cura di Renato Turci, Ripostes, Salerno 1993, pp. 177-179].
[cite]
tysm
philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 24
may 2015
ISSN: 2037-0857
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