Rifarsi l´anima. La storia di Alfredo Bonazzi
Francesco Paolella
Poco più di un anno fa è morto Alfredo Bonazzi. Ladro, poeta, assassino redento. Il suo nome fu popolare dapprima nei primi anni Sessanta, quando venne condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio di un tabaccaio milanese (l’ultima di molte condanne, ma l’unica per omicidio); e divenne popolare soprattutto negli anni Settanta, quando iniziò a farsi conoscere come poeta autodidatta, uomo risorto dal suo inferno, emendato dalla sua colpa.
Il 18 febbraio 1973 il presidente Giovanni Leone gli concesse la grazia («per meriti letterari», come Bonazzi ricordava), dopo 13 anni trascorsi in prigione (a Porto Azzurro principalmente) e, soprattutto, nel manicomio giudiziario di Reggio Emilia.
Partiamo proprio da qui. La vicenda processuale legata all’omicidio del tabaccaio nel 1960, vide un ruolo importante degli psichiatri, periti incaricati di stabilire l’infermità (o la semi-infermità) di mente di Bonazzi. Così quest’ultimo trascorse lunghi mesi nel manicomio giudiziario, una esperienza per tanti versi sconvolgente, in cui Bonazzi sperimentò tutta la violenza di quel luogo «di pervertimento e degradazione»[1]. Per 68 giorni consecutivi Bonazzi fu “contenuto”, cioè legato a un letto, abbandonato a se stesso, senza ricevere cure. Nel libro che ha ricostruito la sua storia, uscito quando ancora Bonazzi era in carcere, si può ritrovare tutta la brutalità gratuita (esasperata se possibile dall’inevitabile burocrazia) propria di quella istituzione, allo stesso tempo “medica” e carceraria, riservata ai detenuti impazziti in carcere e agli autori di reati riconosciuti incapaci di intendere, e solo di recente superata[2]:
«Per un tafferuglio nella saletta del cinema, dove ovviamente menai le mani, mi legarono a lungo sul letto di forza e mi imbottirono di droghe calmanti. Tutt’oggi mi domando come fosse possibile – e pure è vero – che lo scopino, l’ergastolano D., avesse il potere di fare legare al letto di forza o di fare sciogliere chi voleva e quando voleva. Il medico, ché soltanto lui avrebbe dovuto avere il potere di fare legare la gente o di farla sciogliere, in sessantotto giorni di letto di forza, io lo vidi soltanto una o due volte, e sempre di sfuggita. Mi potrebbero obiettare, per smentirmi, che il medico veniva mentre io ero stato spedito nel mondo dei sogni dall’azione sedativa delle droghe che mi iniettava l’agente infermiere con la siringa. L’infame ergastolano D. picchiava le persone legate dopo avere loro gettata una coperta sul volto. Ci lasciava il bugliolo sporco per giorni interi, in un lezzo intollerabile fino a quando non si faceva l’abitudine a vivere… legati dentro la fogna»[3].
Qualche anno più tardi, nel 1975, un Bonazzi già conosciuto, tornò a occuparsi di manicomi giudiziari, con un libro-inchiesta, Squalificati a vita: titolo indubbiamente efficace di un volume dove sono raccolte testimonianze di internati ed ex-internati – Bonazzi ha tenuto a lungo rubriche giornalistiche, occupandosi in particolare del sistema carcerario –, ma che è anche una vera e propria “inchiesta”, come si era soliti fare in quel periodo. L’obiettivo: smascherare l’ideologia che era alla base di quel meccanismo punitivo (la “pericolosità sociale”, le misure di sicurezza) e, allo stesso tempo, mostrare tutte le storture e le aberrazioni compiute da chi vi operava (non ultimi gli assistenti sociali e i religiosi). Bonazzi si unì al coro (piccolo coro) di coloro che denunciavano già da tempo l’insostenibilità e l’indifendibilità di luoghi «attrezzati per violentare esseri umani»[4], sfruttandone anche la manodopera.
Come pensare oggi la storia di Alfredo Bonazzi, un tempo conosciuto nella “mala” milanese come «il Gratta» o «il Napoletano», e poi rinato a nuova vita? La sua popolarità, da carcerato e poi da uomo libero, ha dovuto senza dubbio molto alla sua vocazione: la letteratura, la scrittura.
A leggere la sua biografia, così come – evidentemente – la sua produzione poetica[5], si nota appunto questo: dalle macerie di una “infanzia difficile” (i guai familiari, la fame, il riformatorio come scuola di violenza, la guerra) e poi dal disastro di «una vita di errori e di desolazioni»[6], Bonazzi ha scelto di liberarsi proprio nel momento più buio e disperato, abbandonando la logica criminale e trasformandosi in un “assistente” dei suoi compagni carcerati. Ma soprattutto iniziando a scrivere: è sicuramente una storia “esemplare”, che, negli anni in cui forse ancora si credeva all’utopia della educazione e all’utopia della rieducazione del carcere, funzionava molto e bene.
Al di là del valore letterario dei suoi libri, le parole di Bonazzi ci riportano a un mondo in cui la questione dell’emancipazione degli ultimi (e mai solo del singolo, perché non ci si può salvare da soli) aveva ancora la capacità di provocare i “giusti”, i liberi.
Bonazzi è stato un poeta che, nonostante la libertà e la fama, è rimasto forse prigionieri del male compiuto; ma ha voluto mostrarci il suo cammino per rifarsi l’anima.
Note
[1]Alfredo Bonazzi, Squalificati a vita. Inchiesta e testimonianze sui manicomi criminali italiani, Gribaudi, Torino 1975, p. 7.
[2]Cfr. Gaddomaria Grassi, Chiara Bombardieri, Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Franco Angeli, Milano 2016.
[3]L’ergastolo azzurro di Alfredo Bonazzi, a cura di Teodoro Giuttari, Todariana, Milano 1971, p. 170.
[4]Alfredo Bonazzi, Squalificati a vita, cit., p. 13.
[5]Oggi si può leggere Alfredo Bonazzi, Quel giorno di uve rosse: Papa Giovanni dietro le sbarre, San Paolo, Milano 2014.
[6]L’ergastolo azzurro di Alfredo Bonazzi, cit., p. 57.
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 32, issue no. 37, january 2017
issn: 2037-0857
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