philosophy and social criticism

Risus paschalis

Marco Dotti

Il luogo: la chiesa. L’attore: il prete. Il tempo: il giorno di Pasqua. Si presentava in questo modo, con le sue particolari unità di tempo, di luogo e d’azione una delle più imbarazzanti, ambivalenti e anche fra le più diffuse pratiche liturgiche nota nell’ambiente popolare germanico come ostermärlein e, nella lingua e nel diritto ufficiali della Chiesa, come risus paschalis.[1]

Fra le più diffuse nello spazio – dalla Baviera alla Spagna, dalla Firenze di Dante alla Sicilia di Pitré – e nel tempo perché se la prima manifestazione del risus paschalis è attestata a Reims in data 852 d.c., l’ultima testimonianza indiretta risale al 1911, quando la “Gazzetta di Francoforte” segnala la sua – ancora disarmante, secondo il buon costume del gazzettiere renano – sopravvivenza nella pratica nelle chiese della Stiria, fra Austria e Slovenia.

Singolare perché se non si può dire lo stesso per il pianto e le lacrime – così osservava Salomon Reinach, in un suo celebre lavoro su le rire sacré – il riso è un fenomeno che nel corso dell’epoca moderna si è con rapidità e pressoché irreversibilmente laicizzato.[2] Con un’unica eccezione, quella del riso pasquale appunto.

Ma di che riso si tratta? Che cosa c’entrano il ridere, la scurrilità, le giullarate e lo scherno con la celebrazione della resurrezione del corpo e del sangue di Gesù Cristo? E, soprattutto, quali sono gli elementi che lo rendono a tal punto interessante da essere stato oggetto, per lunghi decenni, di una sorta di convenctio ad excludendum fra quanti – da Bergson a Helmutt Plessner, con la sola eccezione di Bachtin e di Propp che significativamente ne tratta in Edipo alla luce del folclore – si sono occupati di fenomenologia e pratica del riso?

Indicativo, a questo proposito, è quanto scrive nel suo celebre dizionario della lingua francese Emile Littré. Trovandosi a definire natura e senso della tradizione del Ris de Pâques, Littré la riconduceva alla pratica di raccontare una storiella non propriamente edificante e forse anche divertente – «un bon conte», dice – nel giorno di Pasqua: «Ris de Pâques, bon conte que les prédicateurs avaient coutume de faire à leur auditoire le jour de Pâques».

Storiella che metteva in ridicolo il Cristo, il suo ingresso a Gerusalemme sul dorso di un asino (un somaro su un altro, tanto che pure il tradizionalista Guénon dovette correre ai ripari e sostenere che Cristo cavalcava i demoni, non le bestie, essendo l’asino simbolo demoniaco per eccellenza), il suo amore “terreno” per la Maddalena, la sua presunta omosessualità… I predicatori, dunque, per attrarre l’attenzione e suscitare il riso dei fedeli, raccontavano storie che in apparenza avevano ben poco a che fare con il martirio e la resurrezione del Cristo, ma deformavano l’Evangelo attraverso una lente parodistica greve e poco consona al registro delle solennità cattoliche pasquali.

Il fenomeno, così come registrato dal Littré alla fine del Diciannovesimo secolo, e in parte attestato anche dalle parole di Reinach agli esordi del Ventesimo, sembrava però aver perso tutta quella carica oscena e eversiva propriamente corporea e spettacolare che, fin dalle origini, aveva identificato il risus paschalis, iscrivendosi oramai integralmente nei confini di un racconto (conte), probabilmente irriverente, ma in fin dei conti lieto (bon), comico e tutto sommato “felice”. Un buon racconto per una altrettanto Buona Novella…

A confermare l’affermazione di Littré è la lettura di un testo del reverendo Strobl, dal titolo Ovum paschale novum e dotato di regolarissimo imprimatur, che raccoglie a uso dei sacerdoti una serie di storielle da “raccontare” nel giorno di Pasqua. Una sorta di breviario che riporta quanto la censura e i divieti non erano riusciti o non avevano interesse a cancellare dalla memoria storica delle comunità cristiane d’Europa.

Pubblicato una prima volta a Salsburg nel 1698, il libretto di Andreas Stobl conobbe un’incredibile fortuna, arrivando a tre edizioni in pochi anni. L’intenzione dell’autore era quella di istruire i sacerdoti sui «mezzi per rendere attento l’uditorio», perché «altrimenti le chiese resterebbero vuote». Una pratica, questa, ben conosciuta anche nella Firenze di Dante che ne fa cenno nel XXIX canto del Paradiso («… or si va con motti e con iscede, a predicar, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio e più non si richiede»).

Strana situazione, perché se da un lato le autorità ecclesiastiche in un lasso di tempo pur molto ampio hanno cercato di dissuadere e sanzionare la trasgressione, dall’altro si sono dati pareri di ecclesiastici illustri che hanno ritenuto persino salutare il ricorso alla scurrilità nel giorno di Pasqua.

Il pur tollerantissimo Erasmo da Rotterdam, dal canto suo, si diceva disgustato per una cosa che non esitava a definire «la più vergognosa che esista». Orinare nella coppa, sputare sull’ostia, dichiarare – toccandosi il basso ventre – che «qui c’è un vino migliore», far irrompere un porco nel corso della funzione proprio quando si pronuncia la parola “Dio” o ridurre l’altare a un postribolo, denudandosi e emettendo peti non era un semplice “dire”, ma un vero e proprio “fare” del sacerdote, intenzionato a servirsi di elementi “bassi” per attrarre fedeli (per lo più popolani) in chiesa e per accattivarsene l’attenzione, scongiurando il rischio che vi si recassero solo per dormire, starsene al caldo, o concludere qualche misero scambio commerciale.

L’esigenza è spettacolare, quindi, non solo “discorsiva” o retorica e come tale prevede una teatralità provata e studiata, una messa in gioco di elementi visivi, sonori, ritmici determinati da onomatopee, rutti e peti e riproduzione di grugniti e suoni animali.

Non si trattava, dunque, di “raccontare” e “irridere” ma, come finemente osservava lo sdegnatissimo Erasmo, di «gettare addosso» ai fedeli suoni, rutti, epiteti, scenette erotiche, introducendole repentinamente nel corso della predica. Anche la comunione ai defunti, il battesimo dei feti abortiti e dei bambini morti, l’estrema unzione data ai neonati assieme all’acqua battesimale erano altre pratiche (l’attendibilità varia, com’è ovvio, col variare delle fonti) di questa religiosità che alcuni – Jakob Grimm, ad esempio – hanno voluto ricondurre ai culti agrari precristiani transitati e sopravvissuti in altre forme. Il fenomeno, come registrato dal Littré, alla fine del XIX secolo ha dunque perso gran parte della coloritura oscena che lo aveva caratterizzato nei secoli precedenti.

Coloritura oscena determinata dall’elemento sessuale crasso e animalesco, mimato sull’altare con l’aiuto di ragazzini e comparse adibite alla riproduzione di urla gridi e gemiti di piacere, e non solo dal suo racconto. L’osceno era dato, soprattutto, dall’imitazione sull’altare – si legge in un documento – «di ciò che i coniugi sono soliti celare nella loro camera e che conviene fare senza testimoni» e, soprattutto, dalla pratica della masturbazione maschile e dell’omosessualità saffica.[3]

Non era infrequente, ancora nel XVI-XVII secolo, che i preti si denudassero il basso ventre, durante l’ostensione della particola consacrata. Nello spazio sacro del tempio di Cristo, il rituale etico veniva così riconfermato attraverso la più dura profanazione, e la più bassa fra le bestemmie – l’attribuzione al Cristo di una natura animale: porco, asino o capra che fosse – coincideva con la più genuina riaffermazione del corpo in preghiera.

[Articolo pubblicato su Alias, n. 15, sabato 11 aprile 2009]

Note

[1] Inevitabile e fondamentale il rinvio al testo-guida di Maria Caterina Jacobelli, Il risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Queriniana, Brescia 1990.

[2] Cfr. Salomon Reinach, Le rire rituel, Weissenbruch, Bruxelles 1911.

[3] Sul rapporto fra sacro e osceno, cfr. Alfonso M. di Nola, Antropologia religiosa. Introduzione al problema e campioni di ricerca, Vallecchi, Firenze 1974, pp. 15 ss.

TYSM LITERARY REVIEW

VOL. 22, ISSUE NO. 22

APRIL 2015

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