Roger Caillois, questioni di spazio
M. D.
Roger Caillois, Spazio americano, traduzione di Agnese Silvestri, Città Aperta edizioni, Troina 2004.
Scritto negli anni passati in Argentina, in uno stile ricercato e impersonale, Spazio americano rappresenta un singolare punto di rottura e di ripensamento nell’opera, eterogenea e complessa, di Roger Caillois. Dal gennaio del 1939, come è noto, il giovane sociologo si trovava a Buenos Aires, dove era giunto su invito di Victoria Ocampo – una delle donne più ammirate e corteggiate del suo tempo, di vent’anni più anziana di lui – per tenervi alcune conferenze. Caillois, che non conosceva una parola di spagnolo e ignorava quasi tutto della letteratura sudamericana, ancora non immaginava il ruolo che la sua generosa amica e le distese sconfinate del suo non meno generoso paese avrebbero giocato nella formazione delle sue fortune. Si erano conosciuti a Parigi, a una riunione del Collegio di sociologia a cui la «signora delle lettere argentine» si era presentata su raccomandazione di Jean Paulhan. Caillois figurava tra i relatori, e aveva subito colpito l’attenzione della Ocampo, non meno «per il suo fascino inquietante e la sua estrema magrezza», che per l’innegabile abilità retorica. A prolungare la permanenza di Roger Caillois in Sudamerica contribuirono tanto l’attrazione fatale per la Ocampo, quanto, soprattutto, gli eventi che di lì a poco avrebbero completamente stravolto i connotati delle civili nazioni d’Europa, e gli avrebbero permesso di rivedere Parigi solo sei anni più tardi, nel 1945, a guerra ormai terminata. Nel frattempo, aiutato dalla sua nuova, intraprendente compagna, aveva assunto la direzione di un supplemento trimestrale di «Sur», titolato, per singolare coincidenza, «Les Lettres françaises», ma solo omonimo della rivista clandestina che Paulhan e Decour avevano fondato alla macchia. Nel secondo fascicolo, apparso nell’ottobre del 1939, Caillois si presentava ai suoi nuovi lettori con una lettera aperta, accesa e severa fin dal titolo: Doveri e privilegi degli scrittori francesi all’estero. «Sarebbe criminale», si legge, se gli scrittori francesi in esilio «si comportassero da semplici emigrati», loro dovere è quello di farsi interpreti della voce dei compagni «ridotti a bisbigliare parole». Per questa ragione, nel suo editoriale Caillois avanzava l’elementare (ma non scontata) proposta di gettare le basi per una «solidarietà organica», basata sul «contatto» tra chi si era trovato fuori, e chi, suo malgrado, era rimasto dentro l’inferno francese. La rivista, di cui uscirono complessivamente venti numeri, si fece presto conoscere tra le sponde dell’Atlantico, pubblicando testi di Saint-John Perse, Supervielle, Malraux, ma anche di Borges, Ibarra, Yourcenar. Apparivano irrimediabilmente lontani i giorni, i toni e l’eco del Collège, quando, scrive Caillois, «inseguivamo la chimera di guidare un giovane entusiasmo fuori dal vecchio scenario», ma «eravamo troppo delicati, troppo colti, troppo difficili, troppo incapaci di accontentarci di un gioco che non ci appagava. Le nostre volontà ancora malferme non avrebbero potuto sviluppare sforzi ancora privi di sostanza in quegli strati di sabbia tanto accoglienti da assorbirli subito, berli senza lasciarne traccia esattamente per difetto di resistenza». Nell’America del Sud (punto cardinale al cui «spazio» allude il titolo del libro), ricorda, «mi trovai bruscamente trasportato in un mondo meno ingombro, a volte quasi vuoto, che cambiò da cima a fondo il mio modo di vedere. Seppi che non c’erano solo miraggi in tutto ciò che avevo, fino ad allora, incensato». Fu per lui determinante un viaggio interno, in Patagonia. Nella Terra del fuoco, dove «anche le pietre si consumano e si scoprono impotenti a conservare la loro forma e la loro durezza», Caillois apprese che lo spazio aperto sa imporre con le proprie leggi rinnovando ogni giorno una sfida simile a quella di «colui che posava il piede su questo suolo e accettava che tutto avesse inizio con lui». La parola «frontiera», scrive, non ha qui altro significato «se non quello del limite del potere umano sulla natura, e non certo il limite di una nazione assalita». Un contrasto stridente fra la dura crudeltà della natura e l’atrocità della guerra, tra le «raffiche di vento sulla Terra del fuoco» e le bombe innaturali nelle città europee. «Il mio soggiorno in America del Sud», scriverà nel suo testamento del 1978, «dove i libri e coloro che li leggono contano infinitamente meno della natura e degli illetterati, costituì per me una seria messa in guardia». Nel gennaio 1941, anche Victoria Ocampo aveva intrapreso, sola, il cammino verso la Patagonia, percorrendo la Ruta del Siete Lagos fino al parco di Nahuel Huapí, oggi tristemente famoso per aver «nascosto», nell’acqua gelida dei suoi laghi, i corpi di decine di desaparecidos . Ocampo ne trarrà un breve e suggestivo resoconto, in cui è il Marsia immortalato da Ovidio, e mediato dalle suggestive ricerche del suo amico-compagno Caillois, a costituire il riferimento esplicito di un lavoro che indaga senso e ambivalenza di metamorfosi tra l’umano, il vegetale e l’inorganico. Anche per lei fu quindi determinante la riscoperta di uno «spazio-altro», di una presenza-assenza costante in grado di suggerirle tempo, ordine e ragioni di un cambiamento tanto più necessario, quanto più percepiva che fuori tutto cominciava a bruciare.
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