philosophy and social criticism

Sentirsi strani, contro la vecchia e la nuova normalità*

di Amador Fernández-Savater

*Il testo, qui tradotto e publicato con il consenso dell’autore, è apparso originariamente con il titolo Estar raros, contra la vieja y la nueva normalidad su “El Diario” del 19/06/2020. La traduzione è di Elisa Fiorucci.

Non c’è normalità, né vecchia né nuova, ma un processo di normalizzazione che consiste nel neutralizzare tutto ciò che non si adatta.

Conversazioni con amici in fase 2: “mi sento strano”, mi dice uno, “non mi sento bene”, mi dice un’altra.

A me succede lo stesso. Strano, scosso, disorientato. “Mi sono fermato a vivere nella fase 0”, scherzo. Lavoro il meno possibile, passo molto tempo in casa, ho solo voglia di incontri significativi.

E se ci fosse qualcosa da soddisfare in questo sentirsi strani, qualcosa a cui dovremmo dare spazio? E se questo stato d’animo ci volesse dire qualcosa?

2. Ecco ciò che penso: sentirsi strani significa che qualcosa non quadra, che noi stessi non “quadriamo”, che qualcosa si è rotto, che c’è un disallineamento, una dissociazione.

Non ci adattiamo al succedersi delle fasi verso “la nuova normalità”. Sentirsi strani è il nostro modo di ribellarci contro il processo di normalizzazione in corso. C’è una desincronizzazione tra il ritmo oggettivo delle fasi e il nostro ritmo soggettivo.

Mi sembra che sentirsi strani è ora il miglior modo di sentirsi, un indicatore di salute e vitalità contro l’adattamento e l’anestesia.  Più che abbandonare questo stato d’animo, la sfida è lasciarsi andare a sentirsi strani.

  1. Perché non ci adattiamo? Ci sono dei residui in noi di ciò che abbiamo vissuto questi mesi. Impronte di un evento. Effetti dell’interruzione.

L’esperienza vissuta ha lasciato i suoi segni in noi. Questi segni ci deviano dal cammino automatico verso la nuova normalità, troppo simile alla vecchia, benché indossi una maschera. 

Le cose non si chiudono. Forse fa soffrire, però è meglio così. La chiusura è la normalizzazione. Non c’è normalità, né vecchia né nuova, ma un processo di normalizzazione che consiste nel neutralizzare tutto ciò che non si adatta, nel presentare la norma come l’unico cammino possibile.

  1. Cosa ci è successo? Per un momento si è interrotta la definizione convenzionale della realtà. In primo luogo, la idea secondo la quale ciascuno ha la sua vita. L’esistenza ha smesso di essere una questione privata. Il vincolo di interdipendenza si è imposto come un’evidenza materiale e concreta. Non esiste bolla che protegga in modo assoluto dal contagio, nessuno può salvarsi da solo. L’Altro, nella distanza sociale, è diventato paradossalmente più presente: il mio destino è legato al suo. Gli altri contano, importano.

In secondo luogo, l’idea secondo la quale il lavoro e il consumo configurano il senso della vita. Per migliaia di persone gli automatismi della vita quotidiana sono rimasti sospesi. Compreso il continuare come se niente richiedesse un grande sforzo di invenzione: continuare a lavorare come e per chi? Continuare a consumare come e per quale fine?

  1. Nell’interruzione sono sorte domande, malesseri, desideri di altre cose.

Domande: cosa sta succedendo, che mi succederà, che ci succederà?

Quali sono le cose importanti, essenziali, che e chi si prende cura di noi?

Quali sono le cose significative, quali relazioni mi sostengono, che cosa rende la mia vita meritevole di essere vissuta?

Malesseri, perché abbiamo sentito in modo violento l’evidenza che le logiche statali e mercantili  non si occupano di noi.

Lo Stato, nonostante le sue migliori intenzioni (quando ne ha), è cieco di fronte alle disuguaglianze e alle singolarità delle forme di vita. Si legifera come se la società intera fosse una classe media più o meno benestante. Rinchiudersi va bene, però: chi non ha una casa? Chi vive alla giornata? E quelli che vivono in molti in luoghi angusti? E quelli che hanno specificità fisiche o psichiche che trasformano il confinamento in una chiusura insopportabile? Tutte le disuguaglianze di genere, età, razza, classe? Lo Stato, basato nella logica della legge e del dover essere, non vede le differenze che attraversano l’esistente.

Il Mercato, a causa della sua logica di massimizzazione del profitto, è situato sempre al di sopra della presa in cura della vita. È una logica letteralmente extra-terrestre: al di sopra del terrestre, dei terrestri e della terra. Non si producono valori d’uso, ma valori di scambio. Non si produce ricchezza, ma profitti. Le invenzioni tecniche non liberano il tempo, ma intensificano la produzione. La guerra è l’occasione ideale per convertire certi beni (le armi) in denaro. La disoccupazione e i licenziamenti sono la soluzione migliore dell’impresa per non cadere in rovina. L’obsolescenza programmata risulta un’ottima idea.

I problemi per gli abitanti della terra (umani e non umani) sono soluzioni per l’economia. Da qui il pensatore italiano Antonio Gramsci si è appellato alla nostra “terrenità comune” contro la logica capitalista del profitto.

Desideri: nel silenzio, nel tempo riappropriato, in certi incontri e re-incontri con la natura, nelle prime passeggiate per le città libere dal rumore, dalle macchine e dallo stress, nell’attenzione alle cose più vicine, nell’attenzione affettuosa agli sconosciuti, nelle pratiche creative casalinghe, nella intensificazione dei rapporti, in mille esperienze differenti si è risvegliato il desiderio di vivere in maniera diversa.

  1. La vita ci viene data senza manuale di istruzioni. “Vivere non è che ardere di domande” diceva il poeta Antonin Artaud. Non c’è normalità, né vecchia né nuova, bensì un processo di normalizzazione permanente: spegnere costantemente il fuoco sempre ravvivato delle domande su come vivere.

Sentirsi strani significa continuare ad essere vivi. Insistere nelle nostre domande, malesseri e desideri contro la normalizzazione. Cercare di convertire tutto ciò in materia da elaborare per inventare un nuovo desiderio, una nuova forma di vivere.

Sentirsi strani significa difendere le nostre domande, conservare i segni che ci ha lasciato l’interruzione come qualcosa di prezioso, disporci a un’altra attenzione su noi stessi e sulla realtà.

Attenzione a tutto ciò che non quadra, perché sotto l’apparenza della normalizzazione ci sono mille ferite. Persone che non ci sono più e la cui assenza ci interroga: è normale che questa persona non ci sia più? La sua morte è naturale o si tratta di una morte politica, che dipende da un modo di organizzazione sociale? Luoghi e cose che non esistono più: è normale che questo luogo abbia chiuso, che quella persona non lavori più qui?

Ci sentiamo strani perché non vogliamo tornare alla vita di sempre e perché la vita di sempre non esiste più.

  1. Lì fuori continua il virus. È un attore nuovo nel campo di gioco, che obbliga tutti gli altri a ridefinirsi: nuove abitudini, distanza sociale e misure di protezione nelle scuole, università, negozi, trasporti. Ci sentiamo strani anche perché siamo sensibili a tutto questo.

Un’amica, madre di due bambine, mi dice: “non so più cosa significa essere madre, per quale mondo si educano adesso i bambini”. Il terreno si apre sotto i nostri piedi.

La stessa domanda se la può porre un maestro, una maestra, un terapeuta, un operatore sociale, un agente culturale, un lavoratore della sanità…

Non c’è normalità, né vecchia né nuova, solo un processo di normalizzazione : una permanente disattivazione delle domande che potrebbero aprire la situazione, per riappropriarcene, smettere semplicemente di obbedire e inventare regole comune di presa in cura collettiva.

  1. Brutte notizie: il virus si riproduce attraverso le nostre forme di vite (turismo, agglomerati). C’è una specie di radioattività nell’aria. Possiamo dire che i modi di vita convenzionali sono infettati e avvelenati.

Non c’è ritorno a quello di sempre. Anche la persona che quest’estate afferra un volo con destinazione paradisiaca lo farà con un brivido alla nuca.

Allarghiamo ancora di più le brutte notizie: possiamo affermare che la “nuova normalità” è soltanto una parentesi tra due stati d’allarme,  quello da cui veniamo e quello verso cui ci dirigiamo. Anche se non dovesse materializzarsi niente, d’ora in avanti vivremo sotto la sua minaccia. Fino a che non si trova il vaccino, si. E se non si trova? E se appaiono altri virus o altri pericoli maggiori derivanti dal cambiamento climatico?

La paura è giunta per rimanere con noi. D’ora in poi la norma è lo stato di allarme. E quella che chiamiamo “nuova normalità” è solo una fase specifica in questo quadro: sempre provvisoria, precaria, instabile.

  1. Possiamo distinguere due versioni di questo processo di normalizzazione, due forme di adattamento, due forme di governo che sono al tempo stesso due forme di soggettivazione ( ovvero di vivere le cose)

Quella neoliberale/neoliberale porta il nome di Trump, Bolsonaro, Johnson. L’economia al di sopra della vita? No: l’economia è la vita.

Recuperare la normalità il prima possibile, costi quel che costi. Come recitava lo striscione di un manifestante pro-Trump negli Stati Uniti, “sacrificate i deboli”. La vita è produttività, la vita è impresa, ciascuno è imprenditore di sé stesso, lasciate cadere tutti coloro che non riescono a seguire il ritmo.

Necro-politica e necro-logica: produzione di popolazioni usa e getta, superflue, in eccesso. Proprio il tratto che Hanna Arendt ha segnalato nella sua epoca come condizione necessaria della politica nazista in Le origini del totalitarismo

Ma non scandalizziamoci troppo in fretta. È troppo facile e non ci porta da nessuna parte. Quello striscione rende solo esplicito ciò che è implicito, occorre ringraziarlo. La necro-logica regge già le nostre istituzioni. Pensiamo alle residenze dove sono morti molti dei nostri anziani. La percezione normalizzante che spegne le domande su questa morte massiva (“erano vecchi, dovevano morire”) già ci attraversa e ci costituisce.

La versione neoliberale / socialdemocratica  porta il nome di Pedro Sánchez (o di Alberto Fernández in Argentina).

Ovviamente, è molto preferibile (o difendibile) di fronte all’orrore necro-politico della destra radicale per mille ragioni. Ma non fermiamoci nemmeno qui. È anche un calcolo costo-beneficio sulla popolazione considerata come forza di lavoro, altra considerazione utilitaristica.

In questo calcolo si combinano i diritti sociali e i provvedimenti sanitari con una struttura che non si tocca, un limite assoluto. Il caro Fernando Simón lo ha riassunto con la sua abituale franchezza : “questo paese vive di turismo, dobbiamo prepararci (in altre geografie si tratta di estrattivismo predatore). Questa combinazione la si chiama “nuova normalità” . Non si tocca la struttura, né si intraprende nessun cambio sostanziale. 

Tuttavia non possiamo  nemmeno spremere sangue da una rapa: ciò che sempre ha cambiato le cose è una nuova definizione della realtà, l’emergenza di un altro senso della vita. Un governo gestisce, meglio o peggio, però non può produrre un altro senso della vita.

  1. Una quantità di domande, di malesseri, di desideri di altre cose. Tutto ciò unito e rivoltato, in un magma. È un potenziale enorme.

Qual è la sfida? Incastonare l’esistenziale con il politico, le domande e l’impulso al cambiamento. Ci sarà energia politica solo quando tali dimensioni tesserano un rapporto, come successe l’11M 2004, il 15 M 2011, l’8 marzo dello sciopero femminista

La trasformazione sociale non consiste solo in una serie di problemi oggettivi (povertà, etc.) che si articolano in domande dirette allo Stato, ma è anche l’espressione (non la rappresentazione) di  domande radicali sulla vita che presto diventano collettive, comuni e condivise. Forme di espressione (organizzativa, strategica, tattica) che occorre inventare ogni volta,  senza disprezzare le esperienze passate, ma ricreandole. 

Quando l’esistenziale si separa dal politico c’è solo debolezza: il politico si converte in partito, identità e ideologia; l’esistenziale si porta in terapia.

I tentativi di trasformazione sociale hanno fallito sempre quando hanno affidato il cambiamento a un rinnovamento puramente oggettivo, strutturale, sociologico. È la “sinistra senza soggetto” che ha smontato il pensatore argentino León Rozitchner più di 50 anni fa, ma che persiste nel suo fallimento.

La sinistra senza soggetto si fa carico del politico senza la dimensione esistenziale, la terapia si fa carico dell’esistenziale senza la dimensione politica.

Il soggetto del cambiamento non è un mero supporto di determinazioni economiche e sociologiche, bensì lo spazio di elaborazione di domande, malesseri e desideri. Uno spazio contemporaneamente e inscindibilmente individuale e politico.

La forza di trasformazione passa oggi per la capacità di dare espressione comune al magma delle domande, malesseri e desideri che ci attraversano, alle nostre soggettività ferite e in crisi, in definitiva al nostro “sentirci strani”.

Ringrazio per le conversazioni “strane”che alimentano questo articolo: Marta Badiola, Natasa Lekkou, Raquel Mezquita, Marga Padilla, Juan Gutiérrez, Natalia Garay, Diego Sztulwark, Agustina Beltrán, Javier Olmos, Arantza Santesteban, Sergio Larriera, Eugenia Mongil, Amarela Varela.

TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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