philosophy and social criticism

Senza un altrove. Testi, ipertesti, linguaggi

Antonio Caronia

Di fronte alle apocalittiche previsioni sulla morte del libro, Umberto Eco ha ragione: fino a che non si sarà trovata una tecnologia migliore e più semplice di un insieme di fogli di carta che si possono sfogliare e leggere comodamente in qualsiasi situazione (al tavolino, seduti in metropolitana, distesi a letto) il libro è salvo. È ridicolo pensare che un aggeggio ingombrante come un tubo catodico possa far concorrenza al buon vecchio libro, se si tratta di leggere. Ma neppure lo schermo a cristalli liquidi di un portatile è un concorrente credibile alla maneggevolezza del libro. Perciò gli operatori del libro dormano pure sonni tranquilli.

Eppure… anche rassicurati dal buon senso semiotizzato di Eco, forse qualche dubbio possiamo averlo. Intanto tutto va bene fino a che le tecnologie del computer sono quelle che conosciamo oggi; ma se il computer, come racconta Bruce Sterling nelle sue conferenze, diventasse un fazzolettino, qualcosa che ha la consistenza della stoffa o della tela, qualcosa che posso estrarre di tasca quando voglio e utilizzare molto più comodamente di oggi in tutte le situazioni? E badate che la cosa, con tutta la ricerca sui nuovi materiali, è molto meno fantascientifica di quanto si possa pensare.

Ma in fondo, poi, neppure questo è così importante. Perché la forma libro così come noi la conosciamo è qualcosa di molto recente, non ha più di qualche secolo, ed è tipica della cultura occidentale moderna: nasce con la tecnica della stampa a caratteri mobili introdotta da Gutenberg. Quella particolare forma può quindi nascere e morire senza che venga intaccato il substrato su cui essa si basa. Ma il “libro” è invece qualcosa di molto più antico, ed è nato in forme molto diverse dai libri attuali: tavolette, fogli o rotoli di papiro o di pergamena. La parola “volume”, che noi usiamo oggi per indicare quell’insieme di fogli attaccati per il dorso, che si sfogliano uno a uno, ha invece un’altra etimologia, e indica qualcosa che “volve”, che si srotola, un cilindro arrotolato che si dipana, come la Torah della religione ebraica, qualcosa di un po’ più complicato da usare rispetto ai nostri “libri”: un “volume” di questo tipo non potremmo leggerlo così agevolmente nel metrò.

E perciò, bando alla “feticizzazione” delle parole, non scambiamo la forma per la sostanza, o meglio (dato che anche questo è un luogo comune insidioso, e la forma spesso è sostanza), scegliamo bene le forme da feticizzare. Non è la supposta morte del “libro” che preoccupa gli intellettuali, oggi, ma l’eventuale morte (o, fuori di metafora, il ridimensionamento, la fine dell’egemonia) della scrittura: di quella forma di comunicazione, cioè, che da oltre tre secoli struttura e informa il modo di pensare, di percepire il mondo, di vivere la vita, dell’uomo neolitico e del suo più recente parto, l’uomo industriale.

Il dibattito sulla “morte del libro”, in realtà, mescola e spesso confonde quest’ultima preoccupazione con una più contingente, ma alla quale naturalmente sono molto sensibili autori ed editori: la morte (la diminuzione, il ridimensionamento) della lettura. Preoccupazione alla quale mi guardo bene (per la provenienza dei miei modesti redditi) dall’irridere, ma che è poco pertinente all’altra questione. Che la gente legga o non legga, resta comunque il fatto che il “libro” (inteso come scrittura) è il fondamento della nostra civiltà, e lo è da quando sono stati inventati i sistemi di scrittura, più precisamente da quando è stato inventato l’alfabeto sillabico, più ancora da quando Gutenberg ha inventato la stampa a caratteri mobili: la scrittura è il mediatore culturale per eccellenza, è ciò che informa di sé il rapporto col mondo dell’uomo alfabetico.

E allora, invece di preoccuparci della (presunta e irreale) concorrenza che fa al libro il CD-ROM, strumento di espressione e di comunicazione ibrido, irritante, poco maneggevole, e che scomparirà fra dieci o quindici anni per dar luogo ad altri supporti, ad altre forme di organizzazione della conoscenza e dell’espressione più ricche, articolate e maneggevoli, chiediamoci invece se il libro continuerà ad essere il fondamento culturale della civiltà che si sta preparando, o meglio, vista l’ambiguità della parola “libro”, se questa funzione continuerà a essere assolta dal testo. Continueremo a coltivare l’idea sequenziale, lineare, ordinata del sapere organizzato in “testi”, o avremo un’altra metafora, un altro modello, un’altra idea del sapere, un’altra scelta delle priorità, un’altra pratica del rapporto fra sapere e vita?

Le nuove tecnologie della comunicazione, la multimedialità, Internet: in questa galassia ancora poco definita si può sospettare che si annidi, in atto o in potenza, il successore della scrittura, del testo come mediatore culturale fondamentale. E un buon candidato potrebbe sembrare proprio l’ipertesto (o, volendo essere più precisi, l’ipermedia). Ma lo scettico avrebbe buon gioco a far notare come, fin dal nome, l’ipertesto non sia appunto che un “supertesto”, un insieme di collegamenti anche molto sofisticato tra più testi (o fra testi e immagini), qualcosa insomma la cui logica potenzia, ma non supera, quella del testo.

Spesso, per reazione agli ottimistici e fanatici cantori del “nuovo”, si ha l’impressione che molte delle invenzioni di quest’ultimo periodo non siano altro che elevazioni all’ennesima potenza di cose che c’erano già prima. Come l’automobile è una carrozza potenziata, o il transatlantico una canoa molto più sofisticata, così Internet non sarebbe che una biblioteca più un museo più una mediateca più una cineteca più una videoteca, tutte collegate tra loro. Questa impressione sembra suffragata dal fatto che sempre le nuove tecniche di comunicazione e di espressione hanno cominciato la loro strada scimmiottando le vecchie: il cinema facendo del teatro filmato, il telefono ripetendo la comunicazione orale faccia a faccia, la radio isolando l’aspetto sonoro delle forme di spettacolo preesistenti, e così via. Solo dopo un periodo di rodaggio i “nuovi media” delle varie epoche hanno individuato il proprio terreno di elezione, hanno creato le forme di espressione e di comunicazione più pertinenti a ciascuno di essi, il proprio specifico, unico e insostituibile contributo. Perché Internet non dovrebbe cominciare rifacendo la televisione?

Così potremmo rispondere allo scettico che probabilmente le interazioni tra forme di espressione tradizionali non hanno ancora raggiunto, on line, la massa critica necessaria a creare l’unicum, il novum, il salto di qualità della comunicazione interattiva rispetto alle forme tradizionali. Ma non sarebbe una buona risposta, intanto perché le reti telematiche non hanno affatto cominciato ripetendo la televisione, e semmai è solo oggi che Internet ha cominciato a (o rischia di) trasformarsi in una neo-televisione. E poi perché lo scettico ha il diritto di chiederci di indicare qualche esempio concreto, qualche embrione, qualche inizio (per quanto nascosto e marginale) dei processi che noi pretendiamo di intravedere. E di questi inizi e indizi, sul suo terreno di osservazione, lo scettico non ne vede.

È vero, perché il luogo di osservazione privilegiato del nostro ipotetico scettico è quasi sempre il World Wide Web, che ha il merito (o il demerito) di aver determinato l’esplosione di Internet, ma ha anche il grave limite di essere la zona di Internet meno “innovativa”, più tradizionale dal punto di vista della logica comunicativa. Il Web è un insieme scintillante di testi e immagini, un ipertesto illustrato che ha la stessa rigidità ed, entro certi limiti, la stessa immodificabilità dei testi tradizionali, un ambiente in cui l’utente è prevalentemente spettatore, e in cui la sua “interattività” si limita ad attivare qualche opzione marginale (oltre a consentire la creazione da parte delle aziende di massicci database che delineano profili di consumo, individuali e di gruppo, che poi si traducono in azione capillare di propaganda commerciale).

Sono altre le zone di Internet in cui bisogna quindi cercare, se esiste, l’embrione di una nuova forma di espressione e di comunicazione che si sta preparando, che forse già colonizza, sconosciuta, aree del nostro cervello, che si appresta a superare come strumento di mediazione culturale sia il testo e la scrittura, che l’oralità primaria delle società cosiddette “primitive”. Sono altre le zone di Internet in cui, se esiste, vive questa sorta di “neo-oralità”.

Sono i canali di chat, sono le mailing list e i newsgroup, gli strumenti generalmente legati alla posta elettronica, sono gli ambienti interattivi multiutenti e condivisi, i nuovi giochi di ruolo dell’era informatica, i MUD e i MOO.

Certo, anche la comunicazione basata sulla posta elettronica appare a tutta prima nient’affatto nuova: mailing list e newsgroup sembrano niente più che scrittura, anzi un’orgia di parole scritte. Il fenomeno è invece più complesso e interessante, perché uno strumento come la scrittura, che ci sembrava di conoscere bene, di cui credevamo di conoscere ormai a fondo meccanismi di funzionamenti, effetti culturali e sociali, sta forse invece cambiando natura sotto i nostri occhi. La scrittura che si pratica con la posta elettronica, con le mailing list, con i newsgroup, è infatti di tipo particolare: non ha niente a che vedere con la scrittura di un libro, di un catalogo, di una rivista, ma neppure con la scrittura di una lettera tradizionale. È una scrittura immediata, perché una e-mail, di norma, richiede una risposta non fra due, cinque, dieci giorni come le lettere che viaggiano per posta cartacea, non uno o due anni dopo come accade per i libri, ma nel giro di qualche ora, al massimo il giorno dopo: se uno non ha risposto ad una e-mail dopo due giorni, quella e-mail è già vecchia, finita, dimenticata.

È una scrittura ibrida, che ritrova o riscopre caratteristiche dell’oralità, di una oralità rinnovata, naturalmente. Il ritmo forsennato delle innovazioni ci ha già in certo qual modo anestetizzato, crediamo di esserci abituati al nuovo tanto in fretta che non riusciamo più a coglierne e ad assorbirne i mutamenti neppure quando questi sono ancora in corso. Le due paroline magiche, “tempo reale”, sono già così familiari che ci sembrano ovvie. Che cosa sarà mai un “flusso di informazioni in tempo reale”? Sarà qualcosa che abbiamo sempre fatto, tranne il fatto che la comunicazione è istantanea, o talmente veloce da apparirci tale. E noi che sappiamo fare, da sempre? Scrivere, parlare. E quindi scriviamo e parliamo, anche con la e-mail, anche con il real audio, e poi con le teleconferenze, e con qualsiasi nuova diavoleria. E che sarà mai di nuovo?

Scrivere e parlare, scrivere e parlare. Oggi sappiamo bene, o ci sembra di sapere bene, che cosa differenzia la parola scritta dalla parola parlata. Ma quando nacque la scrittura, che cosa poteva apparire questa agli uomini dell’oralità se non una sorta di trascrizione del flusso continuo della parola orale?

Quando nell’Atene dell’epoca di Pisistrato, nel sesto secolo a.C., due importanti e centrali poemi orali dell’epica greca vennero per la prima volta (presumibilmente in occasione delle feste Panatenee, e probabilmente nel corso di un lungo processo) tradotti dalla forma orale alla forma scritta, dando origine a quelli che oggi conosciamo come Iliade e Odissea, e vennero presentati in quel modo al pubblico, letti quindi e non recitati a memoria, quando questo accadde nessuno poteva sospettare che quell’operazione fosse appunto più che una semplice trascrizione, nessuno poteva pensare che essa stava dando origine a uno sconvolgimento culturale, che avrebbe spodestato la parola parlata dal suo scranno di mezzo di comunicazione egemone, per insediarvi al suo posto la parola scritta. Così oggi nessuno può pretendere di capire e descrivere a fondo un processo che è appena i suoi inizi, e nel momento in cui esso non ha ancora ovviamente sviluppato tutte le sue potenzialità eversive siamo costretti a nominarlo usando e magari stravolgendo termini presi a prestito dai vecchi strumenti: flusso continuo, neo-oralità…

Quando sento dire da alcuni che i nuovi media possono “ristabilire un equilibrio” tra funzioni gerarchizzate e squilibrate dai media precedenti (e dal loro uso sociale), capisco bene le intenzioni che stanno dietro a questa affermazione, capisco che in un certo senso strategicamente è proprio così (e io stesso, magari, l’ho più volte affermato in altri contesti), ma è certo che nell’immediato i nuovi media non ristabiliscono nessun equilibrio, al contrario i nuovi media scardinano equilibri, operano in maniera dirompente perché sono portatori di discordia, di crisi.

I difensori dei valori tradizionali, anche quelli in buona fede, anche quelli “progressisti”, temono l’avvento di una “nuova barbarie”. Ora la parola “barbari” evoca l’immagine di orde vocianti e aliene che premono alle porte dell’impero e minacciano la nostra vita tranquilla e ordinata. Ma forse la nostra vita non è poi così tranquilla e ordinata, forse è minata da squilibri interni oltre che esterni, forse genera, a casa nostra e fuori, ingiustizie stridenti e intollerabili. Forse dobbiamo ringraziare i barbari che diedero il colpo di grazia all’impero romano d’occidente e contribuirono a creare le condizioni perché una nuova religione penetrasse in enormi masse di diseredati e desse origine a un’altra civiltà.

Forse è opportuno guardare con lo stesso occhio anche alle tribù aliene di punk, occupanti e squatter, anche i più disperati, anche i più violenti contro giornalisti e magistrati, anche i più lontani da un discorso di “cultura” e di “equilibrio”. Non è la prima volta che nell’incultura e nello squilibrio di oggi si annidano la cultura e l’equilibrio di domani. Vogliamo rimproverare a questi “asociali” di rinchiudersi nei loro recinti, di rivendicare il diritto a essere lasciati in pace? Proprio adesso che i ricchi di tutto il mondo si rinchiudono nei propri recinti (certo dotati di tecnologie molto più sofisticate, dalle telecamere di sorveglianza ai cancelli elettrificati alle armi più moderne ai cani da guardia più feroci selezionati geneticamente)? Vogliamo rimproverare loro di ritorcere contro la civiltà, in maniera certo poco tollerante ed educata, gli stessi principi su cui essa si basa?

Gran parte dell’esperienza dell’uomo neolitico e moderno si è formata dentro ambienti di questo tipo, dentro recinti, dietro steccati. La stessa scrittura alfabetica rappresenta, al fondo, la possibilità di chiudere, di delimitare, di erigere steccati concettuali, di ripetere nell’ordine del mentale l’operazione primaria dell’uomo neolitico che delimita il proprio territorio: e non a caso la scrittura è stata lo strumento che ha permesso alla coltivazione della terra, per migliaia di anni isolata in alcune enclaves o coesistente con il modello di caccia e raccolta, di diventare il modo di produzione dominante del pianeta, ben prima di quello industriale. Senza la scrittura, molto probabilmente, noi saremmo ancora in una situazione di medietà, di trapasso tra nomadismo, caccia, raccolta e agricoltura. La scrittura ha creato il quadro mentale necessario per questa egemonia: l’erezione dello steccato, nella nostra mente di uomini neolitici e poi industriali, è un fatto scontato, un’operazione del tutto “naturale”.

Le nuove tecnologie stanno oggi facendo crollare tutti gli steccati che abbiamo eretto, stanno scuotendo alla base tutte le certezze, sia fisiche che metaforiche, sulle quali ci siamo basati. Certo, nell’immediato, per erigere altri steccati, magari ancora più odiosi, per ribadire nuove o vecchie egemonie, ancora più inique. La globalizzazione vuol dire esattamente questo, è un fenomeno oggi dirompente, e si presenta spesso con un volto bizzarro, violento e crudele: se lo spostamento di alcuni miliardi di sterline o di dollari sui mercati valutari, nel giro di qualche millisecondo, può decidere del livello salariale del lavoratore dei paesi industrializzati come di quello indonesiano, addirittura dell’esistenza o meno del suo posto di lavoro, questa è una cosa che ci riguarda tutti, a cui non possiamo restare indifferenti, a cui sentiamo (magari impotenti) di doverci ribellare.

La risposta, però, non può essere quella di rifugiarci dentro un’illusoria glorificazione dei valori della civiltà “umanistica”, che rimane del tutto astratta e ininfluente sui processi reali, anzi, non è che il controcanto, il rovescio della medaglia, in ultima analisi la legittimazione delle posizioni degli interessati cantori delle glorie della rivoluzione digitale, alla Negroponte. Dentro i processi di cosiddetta “globalizzazione” si aprono spazi locali per vivere, costruire, interpretare e sviluppare esperienze virtuali e reali che estraggono dal nuovo ambiente tecnologico possibilità diverse, estranee, opposte alla logica del dominio tipica dei “piani alti” di queste tecnologie: esperienze di condivisione, di conoscenza, di reciprocità, di gioco e di travestimento, di cooperazione e di sperimentazione di nuova socialità. Molto più divertente che stare a piangere sui Dante, i Velasquez, i Michelangelo e i Picasso che hanno fatto grande l’umanità, e ora tutto questo deve passare come una lacrima nella pioggia. Qualcosa, certo, crollerà di fronte ai barbari come crollarono le basiliche romane, e con le pietre delle basiliche romane si faranno le chiese romaniche e poi le chiese gotiche…

[cite]

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 23, issue no. 33, february 2016
issn: 2037-0857
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