Sovranità e regalità
Adone Brandalise
Nelle pagine dei Lineamenti di filosofia del diritto, come è forse evidente quando si colga la prestazione globale di questo testo riassunta più che nella posizione di una dottrina, nel gesto che la toglie e toglie soprattutto la “scena” che di questa costituisce la possibilità, Hegel convoca le figure della modernità per un rito che comporta, quasi in una sorta di esoterismo estremo senza conforti e indugi liturgici, una loro iniziazione alla verità che le sorregge proprio oltrepassandole, che esce dalla loro complexio proprio attraversandone l’intimità più evidente e pure meno dicibile. Lo Hegel dello Stato colto nella prospettiva dell’etica, sembra al fondo dileguarsi portando con sé l’essenza della sua filosofia oltre quelle categorie della scienza politica moderna che restano dal suo passaggio illuminate ma anche svuotate: lo Stato sta in realtà oltre quelle componenti nelle quali la vicenda moderna ha articolato la sua architettura. Nel suo realizzarsi pienamente nell’etica lo Stato dissolve una essoterica che è tutto il suo visibile compreso i classici arcana.
É nella luce di questo passaggio che al cuore della moderna sovranità Hegel può mettere in campo il rapporto tra questa, nel suo necessario correlarsi con gli altri concetti fondamentali della politica, con la concretezza materiale del monarca e con le vibrazioni di una più antica o forse solo diversa regalità che in questa appare implicata: “La sovranità, da prima soltanto concetto universale di questa identità, esiste soltanto come soggettività certa di se stessa e come autodeterminazione astratta – e, per tanto, priva di fondamento – della volontà, nella quale si trova l’estremo della risoluzione. É questa l’individualità dello Stato in quanto tale; il quale esso stesso, soltanto in ciò è uno. Però, la soggettività è nella sua verità in quanto soltanto soggetto; la personalità è soltanto in quanto persona e ciascuno dei tre momenti del concetto ha il suo aspetto separato per sé, reale, nella costituzione sviluppata a razionalità reale. Questo momento assolutamente decisivo della totalità non è, quindi, l’individualità in generale, ma un individuo, il monarca”.[1] Come noto lo sviluppo del ragionamento hegeliano in questo paragrafo non manca di sottolineare la natura ostica del concetto di monarca per la considerazione intellettualistica inevitabilmente propensa a concepire le dignità del monarca come “qualcosa di dedotto”, mancandole l’aspetto essenziale di questo concetto, quello che ci presenta il monarca come iniziante da sé. Di qui la necessità per Hegel di riconoscere l’importanza del fondamento divino della monarchia o meglio di attraversare compiutamente questo elemento, acquisendo pienamente il senso di quella primarietà ed incondizionatezza che nell’immagine del fondamento divino è ad un tempo custodita e consegnata ai peggiori fraintendimenti. Il monarca sta nel processo costituzionale apparentemente senza ruoli effettivi. Anzi la bontà dell’edificio costituzionale sembra rivelarsi appunto nel suo togliere ogni peso e rilevanza ai contenuti specifici ed accidentali della volontà dell’uomo monarca. Egli deve limitarsi a dare la concretezza del “io voglio” all’azione complessiva del movimento costituzionale. In tal senso il monarca sta in posizione autenticamente decisiva, in una sorta di cruciale indispensabilità nel processo di realizzazione. Ma la sua posizione è nodale proprio perché in essa si rende evidente una volta di più che ciò che sembrerebbe astrattamente il risultato di un processo ne è l’effettivo principio. Proprio quando il re sembra completamente esautorato, destinato soltanto come nell’aggiunta di Gans al paragrafo 280 a “mettere il puntino sulla i”,[2] proprio allora la sua consistenza biologica, la sua materialità, si rivelano essenziali nel connettere la forma dello Stato con il reale. Il monarca è più che mai qui individuo concreto e il fatto che l’efficacia del processo statale tolga ogni incidenza ai suoi estri, alle sue velleità, non fa che esaltare l’elemento irriducibile della sua singolarità. In ciò vediamo profilarsi forse quanto è destinato nella figura regale a stare inevitabilmente oltre allo spazio del discorso sulla sovranità.
La matrice logica della modernità, quella in cui rappresentanza, sovranità, cittadinanza… trovano il loro campo di possibilità in una connessione sistematica, si alimenta da sempre di ciò che la eccede ed ospita al proprio interno un continuo esercizio di rinominazione dell’altro sospeso tra creativo slancio ospitale e mortifera prassi sostitutiva. L’artificio del moderno riproduce la propria forza strutturante attraverso continue concessioni a ciò che la eccede, ma le concessioni sono anche inclusioni per sostituzione. Se questo processo può in definitiva diventare il motore della vicenda costituzionale, la paradossale e quasi sopra e infra-umana animalità del re sembra dal profondo della sua internità estrema alla realtà dello Stato anche indicare la consistenza di un tempo e una materia ulteriori alla sua capacità di nominazione e di articolazione logica. Qualcosa che se, per un verso, appare un residuo al di là di tutte le determinazioni di ciò che è “civilmente” umano, dall’altro sembra alludere ad una dimensione di eventi di verità più potenti e reali, di cui – direbbe tutt’altro pensatore – l’imaginatio politica costituisce una lettura confusa e inadeguata e che comunque alimenta di sé anche la stessa pur ridotta “realtà” dell’ordine politico. Il monarca di Hegel partecipa in tal senso alla vicissitudine estrema che è propria di quanto inerisce ad un ordine simbolico quando il movimento del simbolo risolve tutta la propria rappresentabilità in forma logica e resta in una purezza prossima alla sparizione, privato di ogni esteriorità, compreso i tratti essoterici impliciti di ogni esoterismo attraverso i quali tradizionalmente esso avviava la dinamica iniziatica del proprio stesso oltrepassamento. Il re quindi, evidenzia nel proprio stesso estremismo un elemento della condizione umana che è quello dell’ulteriorità dell’uomo alle definizioni che dall’idea di uomo procedono. Il simbolo regale fugge dall’umano verso un “oltreuomo” che occupa il centro di esso, ma non un centro geometrico che si presti a fondare nuove definizioni e a ispirare nuove rappresentazioni oggettivanti. Per un verso il monarca sta eminente e inattingibile sopra lo stuolo umano, per altro verso il suo puro essere in vita riempiendo della sua corporeità gli spazi costituzionalmente previsti lo pone al limite che si presume infimo dell’umano, in realtà privo di tutto se non della propria animalità che esaurisce con l’aggiunta di alcuni comportamenti obbligati tutta la sua presenza.
Non a caso per lo più le vicende delle famiglie reali degli ultimi due secoli hanno l’aspetto di un calvario laico per estenuazione della pure enfatizzata dimensione religiosa della regalità, dove il disorientamento, il disagio sino alla malattia mentale, fanno da strumenti del martirio, sottomettendo i corpi in questione a disciplinamenti e ad invasioni conoscitive che sembrano propiziare quello sguardo oltre l’Acheronte e nelle terre indecenti del non normalizzato che sarà il campo proprio, attraverso il positivismo oltre di esso, dell’impresa freudiana. L’ottocento in particolare chiederà agli esautorati sovrani di animare lo sforzo di reinvenzione della liturgia, di operare in altri termini in una sorta di reimpiego tecnicizzato delle spoglie del simbolico per inscenare narrazioni propiziatorie dei connubi tra la realtà, progressivamente ingigantita nelle quantità e problematica quanto a forma, del prodotto della relazione Stato-società civile con il permanere della forma costituzionale. Eroi tenuti alla discrezione ma anche obbligati al romanzo, asceti monacali, servitori della propria stessa regalità e protagonisti di avventure più o meno esaltanti a seconda delle necessità del racconto che li fa vivere come fatto comunicativo. Essi sono un ingrediente indispensabile per quella siderurgica produzione di passato, di poderosa ed obbligante produzione di quella scenografia del “certamente già avvenuto”, che detta presunti destini immancabili al presente, di cui lo storicismo rappresenta la proiezione filosofico-storica, ma che si manifesta emblematicamente in quella confezione ex novo di tradizioni presunte secolari che caratterizza ad esempio i riti legittimanti e le pedagogie imperiali dell’Inghilterra vittoriana. Né è d’altra parte motivo di stupore che proprio in contaminazione con questo clima anche se con un destino diverso, si muovano al di fuori del cinismo debolmente razionalistico degli usi ideologici o pre-massmediologici degli emblemi della sovranità, alcuni percorsi spirituali che attraversano l’esoterismo ritrovando nel movimento stesso che, rinvenendone la necessità, ne incenerisce anche le interpretazioni fuorvianti e corrive, anche, tra gli altri, i simboli della regalità. Si pensi ai significati del sabastianismo nel pensiero di Fernando Pessoa, dove la figura dell’Encoberto aprendo al Quinto Impero conduce oltre la dimensione della rappresentazione filosofico-storica e nel contempo al cuore della sua stessa possibilità, secondo la ritmica di un gesto che trova il suo nome più pertinente proprio nella congiuntura per eccellenza regale della “abdicazione”.[3] Un percorso dal tracciato non a caso sovrapponibile in parte a quello del serpente che, nella riscrittura-rivelazione gnostica di Pessoa, come è noto “giunge sino a Dio e non si ferma”,[4] e che propone arduo, quanto necessario, l’appaesamento in un orizzonte, se ancora questa immagine può aver corso, ulteriore al “effetto” della prospettiva umanistica, per tanti versi così affine a quello che possiamo intuire profilarsi nell’estinguersi dell’incomprensibilità o, per meglio dire, della originariamente lamentata fraintendibilità, dell’annuncio nietzscheano della morte di Dio. Il tempo in cui si manifesta e si consuma l’equivoco che estingue l’evento della morte di Dio nella constatazione e nello smembramento-riuso-dissipazione del suo cadavere è anche quello in cui si inscena l’impacciata, imbarazzata e non sempre decente passione del corpo del re, sospeso tra luogo di “somatizzazione” del disagio che pervade il movimento costituzionale e l’evidenza, anche se cifrata, di una singolarità esposta, più che protetta, dai titoli, dalle prerogative, dalle sue stesse vicende “umane troppo umane”, oltre la sua stessa umanità. Una sub-umanità ripugnante alle biografie ufficiali e, come già si è accennato, dolorosamente disposta all’evento della psicanalisi ben al di là del mero romanzo analitico, relazione di contemporaneità non banale con una pratica che nel suo svolgersi da Freud ai giorni nostri ha saputo almeno nei suoi episodi più acuminati rendere palese il rapporto tra singolarità ed etica ben oltre i cabotaggi della Sittlichkeit. “Da Mayerling a Sarajevo”, per nominare un luogo di superiore tattile intelligenza quale è il film di Max Ophüls– [5] ma i termini si possono dilatare cronologicamente – si misura il procedere del monarca verso quell’inafferrabile idiozia in cui si risolve il suo soggiacere alle logiche tutte “altre da lui” della sovranità, ma senza acconsentire né opporsi, in una povertà nella quale si perde, forse salutarmente, la stessa identità. Al re, si potrebbe dire, è concesso di mostrare quanto l’Umanità sottragga a tutti gli esseri umani.
Questa d’altra parte è almeno per alcuni non secondari aspetti quel tanto di pronostico preterintenzionale ma efficacissimo sulla modernità che è possibile riconoscere configurarsi spontaneamente di fronte a uno sguardo non insensibile al tempo del proprio guardare in tanta drammaturgia shakespeariana. Si pensi pars pro toto all’itinerario del protagonista verso il cuore della regalità e non a caso con ciò stesso verso l’assunzione piena di una abdicazione nel Riccardo II.[6] Dove sarà l’immagine di uno specchio in frantumi a render tangibile quella verità del personaggio che il volto riflesso nello specchio integro tradirebbe ripetendo un primario rito di identificazione. Riccardo II passa dall’esperienza di una regalità simbolica storicamente indebolita a quella del rapporto disincantato e quindi altrimenti “stregato” tra sovranità e potere, a quella infine di una radicale ulteriorità della luce che animava seppure incerta e intermittente la prima a tutto quanto può e deve necessariamente perdersi nella seconda, una sovranità che sta non solo oltre la potestas regum ma anche oltre l’illimitatezza e l’indipendenza dell’esperire (oltre a quella “sovranità” principesca, incrocio tra potere, desideri e istinti del suo detentore, che la tradizione del Trauespiel insegna a temere come tirannide e disordine politico), e che si profila oltre alla riduzione “umana” dell’uomo, in una condizione che ha la temporalità dell’istante eterno e la povertà perfetta della non-creatura, immortale nel suo lampo di soggettivazione al di là di durate, risarcimenti post-mortem, custodie memoriali.
Forse nella riflessione più recente sul tema della sovranità va facendosi strada, non senza la necessaria fatica, una intonazione del pensiero che in modi e intensità diverse procede dalla intuizione (nel senso proposto da una ardita etimologia di Pessoa di in-tuitio, non protezione) della possibilità di uno sguardo non ricondotto alla visione, ovvero di un vivere che non si sappia solo come scarto, differenza rispetto al rappresentare.
Indubbiamente là dove, ed è necessario che così avvenga sino agli esiti estremi, ci si interroghi sul rapporto sovranità-politica, l’interrogativo riguarda in tutta la sua estensione (ed è proprio questo oggi a dare un sentimento di angustia e a far correre un brivido di impotenza intellettuale lungo le giunture di costruzioni concettuali in cui pure l’intelligenza si spreca), l’orizzonte moderno dell’articolazione che si sviluppa dalla matrice logica della scienza politica e quindi il complesso dei saperi e delle istituzioni in cui si svolge la relazione Stato-società. Riconnettere la fenomenologia delle più recenti e avanzate manifestazioni di questa vicenda alle loro più essenziali e originarie premesse concettuali significa anche avvertire la limitata prorogabilità di questa deduzione, la prossimità della soglia oltre la quale è questa intera dimensione logica a perdere forza ermeneutica e capacità di governo sul reale.
Eppure se si pongono a fuoco alcuni degli snodi fondamentali di queste tematiche si può cogliere il loro dar spazio a ciò che significativamente si mostra nel venire radicalmente in questione di tutte quelle figure in cui l’apparato logico della modernità ha tentato di tradurre e fissare nel proprio sistema la singolarità. Anche soltanto considerando lo sviluppo in questi ultimi decenni del tema della cittadinanza,[7] sviluppo inevitabilmente enfatico perché riguardante un concetto in relazione al quale si gioca più che mai la capacità dell’ordine logico di cui esso fa parte di tenere complessivamente, “convincendo” le emergenze reali a disporsi comunque negli spazi per esse previste, è possibile riconoscere come la figura dell’individuo soggetto di diritti, suddito-cittadino cotitolare della sovranità, fatichi a filtrare adeguatamente in un sistema di tutele, garanzie, bisogni e relativi servizi nonché di doveri impliciti in tutto questo come effetto dell’aumentata complessità sociale, quello che dal punto di vista di chi si situi all’interno di questo patrimonio concettuale, si presenta come il difficile e irrequieto prodotto umano della fase recente della storia di un ordine senza alternative. Mentre l’individuo sembra scomporsi in anatomie dettate da esigenze di politiche ed economie sempre meno disponibili a sopportare le lentezze e le rigidità degli umani rispetto ai tempi e ai modi con i quali opera l’intelligenza loro implicita, diviene più palese lo scarto che lo separa dal gesto ulteriore a qualsiasi oggettivazione e a qualsiasi tempo rappresentato della emergenza eventiva della singolarità. Il singolo compare là dove la realtà cessa di essere la rigidità indiscutibile del già avvenuto per presentarsi come ciò che avviene, perché anch’esso è radicale e originale messa in gioco di tutti quegli elementi che compongono, per uno sguardo oggettivante, l’individuo.[8] Il singolo come la realtà sono in questa prospettiva indeducibili. Il discorso che pretende di ricavarli dalla descrizione di una tendenza manca l’obiettivo perché non appartiene alla dimensione del loro accadere, che è quella della impermanenza, cioè della non durata, l’effimero rispetto all’immaginazione lineare del tempo, il presente come luogo dell’effettivo prodursi della realtà in ogni evento di soggettivazione. Il singolo quindi non si pone più come il residuo irriducibile dell’individuo, né come il nucleo dell’umano,[9] ma come ciò che è reale proprio perché non residuale e perché non situato in ipotetici centri sepolti nell’interiorità, non più sottomesso alla relazione perché tutto e immediatamente relazione esso stesso.
Se nella esperienza dell’intreccio di linguaggi del nostro contemporaneo tale evidenza compare quasi sempre sospesa tra il silenzio di una parvenza senza didascalie né commenti e la dolorosa e forse necessaria cacofonia della ricerca di possibili “veri” conflitti , mentre la poesia e le sue trasmigrazioni artistiche la aureolano spesso con la doratura occidua della commemorazione, ma anche riaffermano la potenza che la abita.
Anche per questo le immagini della vita che si frange nei paradossi della figura del monarca nelle intuizioni proposte dalle più varie tradizioni letterarie possono risuonare ora come nostre contemporanee, non per una attualità dettata da analogie o somiglianze più o meno forzate tra epoche storiche, di quelle di cui l’onestà scientifica sa fare giustizia magari con implacabile grigiore, ma per il riaprirsi oggi, soprattutto nei gesti del pensiero in cui il contemporaneo cessa di essere solo la somma del passato prossimo e del presunto imminente futuro per ritornare ad essere il tempo in cui la realtà si decide, in quei tagli che connettono l’ordine e i suoi costi e che la poesia e la letteratura sanno a volte guardare così infinitamente da renderne parlante la verità senza riduzioni e senza pregiudizi.
Note
[3] Si pensi oltre alla prodigiosa lirica Abdicação, del Pessoa ortonimo, quella Estetica dell’abdicazione, chiave tra le essenziali dello stile di pensiero di questo autore: “Conformarsi è sottomettersi e vincere è conformarsi, essere vinto. Per questo ogni vittoria è una grossolanità. I vincitori perdono sempre tutte le qualità di insoddisfazione verso il presente che li hanno portati alla lotta che ha dato loro la vittoria. Sono soddisfatti, e soddisfatto può essere solo colui che si conforma, che non ha la mentalità del vincitore. Vince solo chi non riesce mai. È forte solo chi desiste sempre. La cosa migliore, la più regale è abdicare. L’impero supremo è quello dell’imperatore che abdica a tutta la vita normale, quella degli altri uomini, sui quali la responsabilità della supremazia non pesa come un carico di gioielli”. Cfr. Una sola moltitudine, a cura di Antonio Tabucchi, Adelphi Milano 1979, p. 78.
[5] Max Ophüls nella sua attività di regista cinematografico ha sciorinato e nel contempo sapientemente implicitato una delle intelligenze più capaci di muoversi nella dimensione più intima e vitale della cultura europea, quella per così dire capace di muoversi con suprema e responsabile leggerezza al di sopra del conoscere e del sapere e quindi in una attitudine felicemente disposta nei confronti del farsi evento della verità. In grado di far dialogare “dall’interno” le fibre essenziali delle sensibilità tedesca, austriaca e francese, egli ha forse proposto del tutto preterintenzionalmente ma certo nella logica del suo comporre anche con piena consapevolezza artistica, in molti suoi film, una meditazione acuta quanto poco pretenziosa sull’inserzione del singolo nella rete delle convenzioni di cui è intessuto l’ordine costituito, tracciando così su di uno sfondo lucidamente impolitico le silhouettes delle fondamentali figure del gioco della rappresentazione. Se nel film citato la storia e la politica sono chiamate in causa direttamente dal soggetto, il trattamento apparentemente romanzesco melodrammatico riporta la vicenda al rango di quelle tutte “private” ma proprio nella radicalità del loro non essere in alcun modo pubbliche paradossalmente ed “estremisticamente” politiche, che sono quelle tipiche dell’autore di Libelei, Le plaisir, La ronde… Che qui la vicenda tocchi teste coronate mette appunto in luce come il melò dinastico abbia una sua intrinseca capacità di evidenziare, teatralizzandolo, una evidenza che sta al cuore di quell’ordine che nella figura del sovrano trova una sua essenziale giuntura.
[6] In una prospettiva simile a quella qui proposta si era intervenuti in A. Brandalise e M. Mancini, Corpo e rappresentazione nell’archetipo della corte, in “Il Centauro”, settembre-dicembre 1985, pp. 71-94.
[8] Operano in tutta questa considerazione come è ovvio le immagini di percorsi intellettuali e poetici assai diversi, ma è forse indispensabile citare se non altro i nomi apparentemente non immediatamente contigui di J. Ortega y Gasset e A. Badiou. In particolare del pensatore francese contemporaneo si è tenuto particolarmente presente la riflessione sul soggetto umano come evento irriducibile a sviluppo dell’indiividuo biologico, intrinsecamente immortale nel suo tempo essenzialmente etico. Traccia questa che nel contesto di una complessità di elaborazione teorica qui non riassumibile e che incrocia con un rigore e una essenzialità di sguardo che comunque la colloca al di là di qualsiasi mero eclettismo, Platone e Kantor con Lacan e Marx nel ormai classico L’être et l’événement, Seuil, Paris 1988. Si è poi tra gli altri scritti di questo autore in particolare considerato Ethique, essai sur la consience du Mal, Hatier, Paris 1993.
[9] Si è tenuto in particolare conto, senza volere per altro ricavare una “posizione” alla quale aderire o meno, la coraggiosa riflessione di G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.
[testo tratto da: Adone Brandalise, Categorie e figure. Metafore e scrittura nel pensiero politico. Unipress, Padova 2003]
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