Incontri alla fine del mondo. Dialogo con Giorgio Vasta
Marco Dotti
Nel suo Spaesamento (Laterza, Roma-Bari 2010) lei individua una «rabbia bianca», uno specifico «sentimento che è come una categoria affettiva» e coincide con il ritorno. A Palermo, non vive più da parecchi anni, ma vi torna con una cadenza che lei stesso definisce “irregolare”. In che cosa consiste questa rabbia?
Il problema che mi sono posto nel momento stesso in cui mi ritrovavo a scrivere di qualcosa che nominavo “rabbia” è che effettivamente è complicato parlarne, perché nel senso comune la rabbia viene, giustamente, descritta come uno stato d’animo disarticolato, caotico, non razionale che dà luogo a comportamenti tutt’altro che disarticolati. Da parte mia, ho cercato di frugare all’interno delle rabbie, cercando di metterne a fuoco i diversi tipi per distinguerli. Dove per distinguere, separare, perimetrare si intende quell’azione civile, naturale, umana che consiste nel dare un nome specifico alle cose. Mi sono quindi reso conto che la rabbia disarticolata è, nella maggior parte dei casi, una rabbia regressiva e infantile, che ciò nonostante appartiene all’umano e come tal è inevitabile che si produca. A me interessano maggiormente altri tipi di rabbia e in particolare una rabbia adulta. La rabbia adulta è qualcosa verso cui dovremmo tendere, per trasformare qualcosa di disarticolato nel combustibile di un’azione che è a tutti gli effetti un’azione adulta e, quindi, il tentativo di sottrarre alla liofilizzazione un sentimento individuale e sociale che ritengo indispensabile. Si tratta di considerare tutto quello che ci succede dentro, attorno, altrove non abbandonandoci alla disarticolazione e al caos, ma cercando di trasformare l’inarticolato in qualcosa che salvi e per certi versi incrementi la nostra capacità di procedere.
Un problema concreto e simbolico al tempo stesso…
Il problema è infatti quella di capire quali sono le azioni concrete nutrite da questa rabbia che siano al tempo stesso efficaci e umane. Abbiamo infatti la sensazione di vivere in una frantumazione sociale talmente potente da non riuscire a individuare comportamente se non quelli simbolici.
La scrittura può essere usata come carotaggio, come tentativo di sondare la mutazione antropologica in corso, vagliando così anche quanto è già, forse irrimediabilmente, mutato?
Se vogliamo, “carotaggio” è un termine al tempo stesso tecnico e grezzo. La geologia ha formalizzato una prassi che, fuori dal suo ambito specifico, viene usata di continuo, anche in maniera inconsapevole e improvvisata. Quando vogliamo “farci un’idea” di qualcosa, che cosa facciamo se non carotando, campionando, sondando? Prima di leggere un libro, per esempio, lo sfogliamo, lo guardiamo, lo tocchiamo e non pensiamo in alcun modo di compiere un’azione arbitraria. Per economia di tempo dobbiamo procedere in questa maniera, indipendentemente dal fondamento razionale e scientifico. Lo stesso si può dire del tentativo che compio in Spaesamento, dove il carotaggio è condotto nel flusso all’apparenza incoerente della storia d’Italia. Ovviamente è un esperimento letterario, ma dobbiamo ricordarci che la letteratura ha una caratteristica unica, poiché la pagina letteraria non è all’antitesi di niente, essa ha la capacità di assorbire al proprio interno qualunque cosa
Un’operazione di questo tipo richiede anche una precisa disposizione dello sguardo…
Nelle Meditazioni milanesi, Carlo Emilio Gadda scrive che bisogna prestare attenzione a tutta la realtà sensibile per operare buone sintesi. Questa richiesta di una disponibilità dello sguardo nei confronti di tutto, senza gerarchie, senza ritenere che ci sia, nella realtà sensibile, un elemento più degno di nota di un altro, è per me un punto di vista utilissimo. Non c’è qualcosa che vale meno di un’altra, nella realtà sensibile, perché a decidere di questa scala di valori e della sua pregnanza non è la cosa in sé, ma lo sguardo che la osserva e decide, reclutando quelle che sono le sue risorse analitiche, che dentro una certa cosa sussiste una potenzialità probabilmente inespressa e cerca di fara un salto dallo scontato, il déjà vu, all’inedito, al mai visto, al mai scoperto, una sorta di jamais vu che si cela anche nelle piccole cose. Anche nelle più umili. Io credo che in questo salto risieda il senso del fare letterario. La letteratura dovrebbe “capire” che non c’è nulla di sicuro. Lo stesso pavimento su cui posiamo i piedi se viene “riformato” attraverso la pagina letteraria diventa altro.
Quello letterario è sempre il luogo di una incertezza, quindi? Pier Paolo Pasolini, nelle Ceneri di Gramsci, parlava di incertezza come contraddizione e scandalo: «Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere».
L’incerto e lo sfumato non sono eventuali anomalie, sono un elemento costante che non ci possiamo permettere di percepire costantemente, perché andremmo incontro a una sorta di follia perenne. Ma che la pagina letteraria possa essere il luogo in cui si chiarisce che la realtà è il luogo di una continua rivoluzione è il fatto che mi sta maggiormente a cuore.
È una materia incerta
Ho l’impressione che Pier Paolo Pasolini abbia avuto la grandissima intelligenza di individuare un fenomeno in atto, che si stava producendo negli anni Sessanta e ha avuto la capacità di osservarlo attraverso segni che potevano allora apparire secondari: cicale, lucciole, capelli, cartellonistica pubblicitaria. Pasoli ha così potuto parlare di mutazione antropologica, dove il sostantivo “mutazione” rimanda a una situazione in fieri e in piena trasformazione. Pasolini osservava qualcosa che stava accadendo, mentre noi – questa è la mia impressione – continuiamo a porci dal suo stesso punto di vista per rassicurarci e autoconvincerci di stare nella “mutazione” e non nel “mutato”. Siamo in una mutazione già compiuta e prodotta, mentre buona parte delle nostre griglie e dei nostri schemi epistemologici, attraverso i quali facciamo esperienza delle cose, siano ancora non dico ottocenteschi, però profondamente novecenteschi e quindi legati a un’idea di soglia. Secondo questa idea, si deve attraversare una soglia per trovarsi dall’altra parte: sul piano del discorso storico, i grandi eventi del Novecento, per esempio i conflitti bellici, vengono fatti iniziare anche nella vulgata storica più elementare in coincidenza del superamento di una soglia. Per esempio, il regicidio o l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, come quello di Sarajevo del 28 giugno 1914, sono considerati all’inizio della Prima Guerra mondiale. È talmente forte l’impatto di un codice di lettura di questo tipo che cerchiamo di portarcelo dietro anche in un tempo nel quale lo scenario si è modificato e, quindi, immaginiamo si stia in una deriva all’interno di un piano incrinato che ci sta facendo scivolare verso quella soglia che, di qui a poco, supereremo perché ci riesce più difficile, più spaesante, pensare che quella soglia si sia polverizzata e dissolta e noi l’abbiamo superata senza accorgercene e che quello che di cui stiamo parlando è alle nostre spalle, non è davanti a noi. A questo proposito, mi viene in soccorso una frase riportata dallo psichiatra Donald Winnicott, ripresa da un suo paziente psicotico (e la psicosi non è un fatto secondario). Quest’uomo diceva: ho paura per un trauma che ha già avuto luogo. C’è un sentimento, vivo che riguarda qualcosa che è già avvenuto, ma la paura non dovrebbe riguardare qualcosa che ci sta davanti, che può succedere, non che è già successo? Io credo che noi siamo esattamente nella condizione del paziente di Winnicott, siamo nel mutato e abbiamo paura di un trauma che ha già avuto luogo. Raccapezzarsi è la cosa più complicata.
Pasolini pose grande attenzione al “senso dei luoghi” e al loro dissolversi: senza spazio, non si dà né memoria, né tempo…
Ho sempre più la sensazione che il racconto dello spazio sia funzionale a un limite e a un’esigenza. Lo spazio non è altro che una formalizzazione concreta del tempo. Per raccontare il tempo, si usa uno spazio che a questo tempo dà forma, dà una forma più concreta, più tangibile e quindi più dramamturgicamente utile, poiché se mi confronto esclusivamente con il tempo c’è il rischio che vada in una direzione – legittima, ma che non è quella che posso permetteri e che mi interessa particolarmente particolarmente – di ordine filosofico. Per questo “uso” lo spazio. Credo che a essere messi in discussione, oggi, in tutto il discorso che la letteratura, la sociologia, l’antropologia stanno svolgendo, sia essenzialmente il modo in cui si è formata la nostra percezione del tempo. Mi vengono in mente alcune cose, in proposito, facendo ancora riferimento a dei modelli. Un vecchio modello di rapporto con il tempo è quello ottocentesco che prevedeva l’aggiornamento della temporalità una volta al giorno: al mattino si apriva il giornale, lo si leggeva e quello era il momento in cui si faceva esperienza del tempo. Attraverso i bollettini e tutte le trasmissioni che producevano e producono informazioni in cui il tempo viene aggiornato, la radio modificò questa percezione, allargandola da una (la lettura mattutina del giornale) a tre, tante erano le “tappe” dei radiogiornali quotidiani. La televisione portò ancora oltre questa metamorfosi e la rete è il momento “ultimo” e, secondo me, impressionante di cambiamento. Il sito on-line di un giornale è fatto di semplici aggiornamenti, ma prevede un’interazione, mediante la quale tu stesso puoi aggiornare la pagina e, così facendo, “aggiornare” il tempo. Tu stesso hai l’illusione di poter intervenire sul tempo, dandogli un colpo da sotto, facendolo venire su e costringendolo a dirti che cosa sta cambiando. Questo è un modello.
Ne esistono altri?
Mi vengono in mente due scene cinematografiche di inizio secolo. Una proviene da Safety Last, un film del 1923 con Harold Lloyd, attore che oggi gode di minore notorietà rispetto a un Buster Keaton. In una scena del film, Lloyd sta salendo su un grattacielo, ma quando ha quasi raggiunto la cima cade e si aggrappa alla lancetta di un grande orologio che sporge dal grattacielo. Questa è una situazione nella quale, in maniera del tutto preterintenzionale, si fotografa una esperienza del tempo forse più significativa oggi, rispetto a quanto non fosse all’inizio del Ventesimo secolo, quando la sensazione era quella di un movimento continuo. Credo che oggi ci siano generazioni intere che, come Harold Lloyd, rimangono aggrappate a quella lancetta in una complicità, perché sì, è vero, rischiano di precipitare e quindi devono restare ferme, ma hanno pure bisogno che quella lancetta non si muova, altrimenti si crolla. È come se, oggi, per più generazioni tra le quali metto anche la mia – io sono nato nel 1970 – vi fosse una sospetta collusione: a fronte degli aggiornamenti continui della rete di cui abbiamo detto, si ha bisogno che il tempo non passi, diversamente precipito in una storicizzazione che mi mette in crisi,perché non so come affrontarla. Non so se è soltanto una suggestione narrativa o possa realmente accadere, ma sarebbe bello che Harold Lloyd si staccasse da quella lancetta, lo lasciasse libero di muoversi e di scorrere, scendesse dal grattacielo e azzardasse lo stesso percorso che compie il pinguino – e qui siamo al secondo riferimento cinematografico – nel documentario Incontri alla fine del mondo (2007) di Werner Herzog.
In quel film, Herzog riprende e intervista una serie di persone, incontrate durante il suo viaggio in Antartide. Tra queste persone, vi è un etologo che ha dedicato la sua vita allo studio dei pinguini descrive un comportamento anomalo, incomprensibile, perché comunque non corrisponde a un progetto “genetico” di preservazione della specie, da parte di alcuni pinguini. Questi pinguini si allontanano in branco dalla colonia e vanno verso la costa, quando devono andare a pescare e mangiare. A un certo punto, però, un pinguino si ferma, non prosegue con gli altri verso la costa, non torna verso la colonia, ma prende una terza via. Il punto è che questa “terza via” corrisponde a circa cinquemila chilometri di ghiaccio e. di conseguenza, corrisponde a una specie di morte certa. C’è un’ostinazione incredibile da parte del pinguino, perché se provano a prenderlo e a riportarlo alla colonia lui ripercorre i cinquemila chilometri. Questi cinquemila chilometri, che ci appaiono spazio, sono in realtà tempo. Quei cinquemila chilometri di bianco, quei cinquemila chilometri di ghiaccio sono il tempo che ci tocca o che abbiamo la grandissima fortuna di avere. Perché accanto alla paura, può esserci pure la meraviglia: per questa ragione dovremmo scendere dall’orologio e lasciarlo andare, accettando il fatto che c’è un azzardo, un rischio da correre e che questo non è soltanto un trauma, ma una grandissima occasione.
In fondo, è un’occasione anche il cadere. Al suo funambolo, Jean Genet ricordava che è il suolo, non la corda, che lo fa vacillare…
Abbiamo l’abitudine di concentrare lo sguardo soltanto su ciò che si è perso, ed è comprensibile perché il retaggio è così forte che noi guardiamo solo i limiti, guardiamo solo ciò che manca. Accettando il limite, probabilmente, capiremo che non si tratta di “tirare su” a forza dal passato un alfabeto sociale, un alfabeto del rapporto tra le generazioni che appartiene, magari, a chi ha vissuto in un’altra storia, in un altro tempo. Dobbiamo provare a congegnarne un altro, a elaborarne un altro di alfabeto. Per molto tempo si è pensato che l’uccisione dei padri fosse, simbolicamente, la pratica giusta per determinare un passaggio tra le generazioni e una trasmissione dell’esperienza. A me contiua a sembrare molto potente il modo in cui tutto questo viene affrontato da Collodi, nel suo Pinocchio, nel momento in cui si rende conto che invece di uccidere, si può compiere un’azione più dolorosa, meno drastica ma molto più sfumata e complessa che è farsi carico. Pinocchio per uscire dal ventre del pescecane deve mettersi Geppetto sulle spalle e provare a meritarsi il passaggio dal legno alla carne, incarnandosi letteralmente nell’età adulta, portandosi come Enea con Anchise il padre sulle spalle. Aveva capito tutto David Foster Wallace, quando in un’intervista del 1993 diceva: «noi dobbiamo essere i genitori». È quel dobbiamo, la parola centrale. Lo svezzamento non accade più come accadeva un tempo. È una scelta, una decisione, non un processo fisiologico. È prendersi i genitori sulle spalle e affrontare cinquemila chilometri di ghiaccio.
[da Vita, 20 agosto 2010]
tysm, n. 1, dicembre 2010
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