philosophy and social criticism

Sperma maschile e femminile nell’antichità

di Raffaele K. Salinari

Il Mediterraneo, «intriso di sangue e di sperma», come lo definisce nei suoi Dialoghi con Leucò Cesare Pavese, rimanda immediatamente all’idea generativa di entrambi questi liquidi, uno di origine femminile, il sangue mestruale, l’altro maschile: lo sperma.

Ascendente mitico e cosmologico di questa relazione è certamente la nascita di Venere, che viene creata dallo sperma di Urano evirato da Giove. Il suo stesso nome, Afrodite, deriva infatti da afros che significa sia spuma del mare che liquido seminale; Afrodite è, per questo, anadiomenon, rinasce cioè continuamente dalle bianche spume del mare; Esiodo nella sua Teogonia (vv. 188-90) dice: «Attorno alla bianca schiuma dell’immortale membro trasportato verso il largo, per tanto tempo (poulùn chrónon), una fanciulla crebbe».

Sperma e anima

E dunque la relazione tra il liquido seminale e la sua funzione riproduttiva è evenienza arcaica, prelogica, favolosa, immagine fondante di una evidenza scientifica che si affermerà solo dopo due millenni con lo studio dell’embriologia moderna passando attraverso i pregiudizi religiosi del cattolicesimo e le svariate funzioni che a questo «sangue purissimo», come lo definisce Dante, furono attribuite nel corso dei secoli.

Per rendere l’idea della disputa dottrinale attorno alla funzione dello sperma nell’atto della riproduzione basti dire che, in pieno XVIII secolo, cento anni dopo Galileo, le lenti dei primi microscopi che già indagavano gli spermatozoi – erano infatti stati scoperti nel 1677 dall’olandese Antonie Van Leeuwenhoek – si discuteva ancora se l’anima di ogni nuovo essere umano fosse già stata creata, se esistesse cioè dall’inizio dei tempi per poter poi scendere all’interno di ogni corpo al momento stesso del concepimento, o fosse di volta in volta emanata da Dio e solo dopo infusa in ogni feto: «Prima si costruisce la casa, poi ci si abita», dice Sant’Agostino (354-430); in questo caso aprendo una ulteriore questione di non poco momento ed ancora attualissima: a che punto dello sviluppo embrionale questo avviene?

Ancor prima, gli scienziati del Siglo de Oro, allora strettamente sottoposti ai diktat dell’Inquisizione, si dividevano tra il Santo di Ippona che pur convinto della seconda ipotesi ammetteva candidamente: «Ignoro quando incipiat homo in utero vivere», e l’idea creazionista di Origene di Alessandria (185-254), amatissimo e citatissimo da Borges per il principio della moltitudine dei mondi, che sosteneva invece come Dio avesse creato tutto l’universo e tutti gli universi possibili dal e per l’eternità e dunque anche le molteplici anime che poi avrebbero abbracciato i loro corpi futuri.

L’idea del grande direttore del Didaskaleion alessandrino di una divinità che, oramai separata dalla sua Creazione, lasciava ai viventi il libero arbitrio, si scontrava così con quella agostiniana sostenitrice della posizione che Dio continuasse a creare il mondo ogni momento, intervenendo in ogni singolo istante nelle cose del Creato per insufflare una nuova anima nei corpi, ma solo al momento da Lui ritenuto opportuno: al quarantesimo giorno per i maschi ed al novantesimo per le femmine? Si chiedono i medici dell’epoca. Il mistero della vita doveva comunque permanere poiché «Ut non inveniat homo opus quod operatus est deus» dice ancora il Dottore della Chiesa.

Quest’ultima ipotesi aveva delle conseguenze capitali, ad esempio, sul trattamento ostetrico, dato che solo nel momento in cui l’anima entrava nel corpo esso veniva considerato completo e dunque degno di protezione e di cura. La disputa investiva così il ruolo del liquido seminale per un suo supposto ruolo di «potenza in atto» poiché poteva forse racchiudere in sé tutto l’insieme della nuova creatura, sia il suo corpo che la sua anima. Ironia del destino, Origene, si dice per poter insegnare anche ad allieve donne senza destare dicerie, o per altri motivi a noi sconosciuti, pare si evirasse, escludendosi in questo modo da quella creazione di cui tanto aveva discettato nel suo De Principiis.

Le origini: Aristotele e Galeno

Noi risaliremo allora il filo del tempo sino all’antichità pre e protocristiana, per confrontarci in primis con colui il quale ha trattato compiutamente dello sperma sia dal punto di vista filosofico che empirico: l’immancabile Aristotele. A questo specialissimo «distillato del sangue» lo Stagirita rivolse il suo acuto spirito di osservazione. Oltre ad individuare la lunghezza ottimale del pene in erezione, dai dieci ai venti centimetri durante l’eiaculazione per non raffreddare troppo lo sperma o, al contrario, surriscaldarlo, rendendolo così in entrambi i casi inefficiente, e a decretare il numero massimo delle sue emissioni, sette, per le sette cavità uterine atte a ricevere il feto, Aristotele aveva anche elaborato una serie di osservazioni sulla sua funzione riproduttiva.

L’evidenza empirica che un nuovo essere traesse origine da un altro della stessa specie rispondeva ad un principio generale della sua Metafisica per cui, nel suo De generatione et corruptione, sostiene che tutte le cose tendono alla loro conservazione: «Poiché in tutte le cose la natura desidera sempre il meglio, e l’essere è meglio del non essere… e poiché è impossibile che questo possa verificarsi in ogni cosa, per il fatto di trovarsi troppo lontano dal suo principio, in altro modo Dio ha recato a compimento questo desiderio, disponendo che la generazione sia continua».

A partire da questo postulato Aristotele arriva nel De anima a sostenere: «La cosa più naturale, negli essere perfetti e non mutilati… è di fare un’altra cosa simile a se stessi… per poter partecipare quanto possono di ciò che è immortale e divino».

L’affermazione aristotelica che un principio divino è racchiuso nello sperma come «seme umano» è alla base di quella concezione finalistica del mondo, assunta anche dagli Stoici, che domina la fisica e la medicina antiche in contrapposizione al meccanicismo democriteo.

A questo punto dobbiamo dare un occhio all’anatomia antica degli apparati riproduttivi per dire che, secondo Aristotele, i testicoli non erano il luogo deputato alla produzione dello sperma essedo, secondo lui, solo dei pesi che servivano a mantenere in tensione i condotti seminali, «come quelli dei telai fanno con la tela». Checché ne pensasse lo Stagirita, Galeno (129-199) era invece convinto che i testicoli fossero gli organi di produzione del liquido seminale. Il medico di Pergamo, nelle sue osservazioni, aggiunge nel De semine il particolare di un liquido «intermedio tra lo sperma e l’acqua del sudore, che il maschio avverte talora distillare al contatto della femmina, e la femmina al contatto del maschio». Il pergamese, ripreso quasi un millennio dopo da Avicenna, si riferisce al liquido prostatico nell’uomo ed a quello prodotto dalle ghiandole del Bartolino nella donna.

Egli ci informa che questo liquido maschile è prodotto da un organo che, essedo posto più innanzi degli altri venne chiamata da Erofilo, prostate. Per Galeno la funzione del liquido prostatico è triplice: oltre che ad eccitare il coito, suscita il piacere e lubrifica il canale urinario, attraverso il quale avviene così una eiaculazione più efficiente.

Questa necessità di un fiotto ben diretto e sotto giusta pressione, dice Galeno, era dovuta all’idea che la matrice durante il coito si aprisse per ricevere lo sperma e poi si chiudesse per non lasciarlo uscire: «Al momento del coito la matrice si spinge verso l’orifizio della vulva, quasi si faccia innanzi mossa dal desiderio di attrarre a sé lo sperma… il collo della matrice, infatti, è di carne muscolosa, quasi fosse cartilagineo, e vi sono rughe l’una sopra l’altra… in esso vi è un condotto opposto all’orifizio esterno della vulva: per mezzo di quello deglutisce lo sperma».

Da parte di ricercatori che, sprovvisti di ogni mezzo strumentale, scorgevano solo ciò che la dissezione metteva loro sotto gli occhi, non si possono pretendere ipotesi fisiologiche più definite; se poi le paragoniamo a quelle di derivazione strettamente aristotelica, la scuola di Galeno segna un indubbio passo avanti. Vedremo in seguito come, per questo medico dell’antichità, esistesse anche uno «sperma muliebre», con funzioni importanti nella riproduzione.

Per Galeno infine, come per Abu Bakr Mohammad Ibn Zakariya al-Razi (865-930), il liquido seminale aveva anche un ruolo nell’erezione, stimolata, oltre che dalle «ventosità forti, recate nei corpi cavernosi dallo spirito desiderativo grossolano», dalla «mordacità» dello sperma sui canali seminali.

Seme virile, seme muliebre

Oramai radicata la teoria di Galeno che i testicoli avessero una funzione fondamentale nella preparazione del seme virile, dobbiamo ora cercare di capire di cosa fosse composto per gli antichi questo liquido, non avendo essi nessuna idea né dello spermatozoo, né della citologia degli organismi viventi. Torniamo per un momento ad Aristotele per il quale lo sperma è «un escremento utile dell’ultimo alimento». In questo modo lo Stagirita riconduceva il ruolo del liquido seminale a quello della nutrizione poiché, ancor prima di chiedersi in che modo un essere vivente si forma, si era concentrato sul suo accrescimento.

E allora, per quale processo avviene la nutrizione e l’accrescimento della nuova creatura umana? I fisiologi antichi, procedendo anche su questo argomento dalle sue idee, distinguevano tre o quattro «digestioni» attraverso le quali il cibo ingerito deve passare, prima per essere assimilato, poi per trasformarsi in sperma.

La prima di queste avviene nella bocca, prima digestio fit in ore, con l’aiuto della salivazione, e termina nell’intestino con la formazione della «massa tisanaria» o chilo. A questa segue la seconda, che avviene nel fegato, in cui il chilo si tramuta in sangue. Questo non è ancora un liquido perfetto, ma «pieno di impurità»: esso ha dunque bisogno di una terza digestione. Questa avviene attraverso il potere filtrante dei reni che assorbono l’«acquosità» superflua facendo sì che esso finalmente si raccolga nel «talamo del cuore» come dice Aristotele. Da qui, o dal fegato secondo Galeno, partono le «arterie quiete» che hanno il compito di veicolare il nutrimento, divenuto nel frattempo «sangue grosso», per tutto il corpo.

Ma, per essere assimilato, questo «sangue grosso» ha bisogno di una ulteriore digestione che per Galeno ed Avicenna si compie nelle vene, dove esso depone le ultime impurità. Purificato così di tutte le «superfluità» e fattosi «sottile», questo sangue comincia a «distillare dalle vene nelle membra» sinché si coagula e si «fissa» in ognuna di esse dando nutrimento al corpo.

Ma non tutto il «sangue sottile» si fissa negli organi; quello che rimane viene sottoposto ad una quinta digestione, quinta come la quint’essenza, divenendo proprio nei testicoli e nei vasi spermatici il seme atto ad alimentare la generazione; «quasi alimento che di mensa lieve», dice Dante che, nel canto XXV del Purgatorio (vv. 37-39), lo definisce ancora «sangue perfetto», oramai trasformandosi da rosso a bianco ad opera dello spirito (pneuma).

Qui la simbolica ermetica è evidente, e rientra in quel complesso sistema di analogie e rimandi che il mondo medioevale ha sviluppato al massimo grado partendo dal neoplatonismo e dall’idea dello spirito aristotelico come elemento di unione tra forma e materia. La Grande Opera parte dal Nero (Nigredo), colore della Prima Materia in putrefazione e dunque dal «sangue grosso», per poi arrivare alla fase Rossa (Rubedo), quella del «sangue sottile» ed infine all’Opera al Bianco (Albedo) che corrisponde alla trasmutazione del sangue in sperma.

Anche lo «sperma muliebre» verrà sottoposto alle stesse digestioni prima di poter esercitare il suo ruolo riproduttivo. Il corpo umano è così una fornace alchemica, un atanor, e lo sperma, sia virile che muliebre, la sua Pietra Filosofale.

E dunque, per comprendere appieno questa fase fondamentale della trasmutazione del sangue in sperma ad opera dello spirito, dobbiamo accennare alle concezioni filosofiche dei presocratici come Empedocle, Leucippo e Democrito che, con impostazioni diverse, avevano una visione meccanicista dell’accrescimento corporeo. Empedocle, in particolare, sosteneva che gli elementi contrari si attraggono e da questo scaturisce l’accrescimento. Egli era convinto che nulla nascesse o morisse ma che gli elementi principali, i quattro rizomata o radici, si ricombinassero perennemente; non nati (ἀγένητα) ed eternamente uguali (ἠνεκὲς αἰὲν ὁμοῖα), essi divengono (γίγνεται) ogni cosa: fuoco (πῦρ), aria (αἰθήρ), terra (γαῖα), acqua (ὕδωρ).

Da ciò nascevano e morivano i corpi. Pur avendo una visione mistica molto spiccata, il filosofo di Agrigento mostrava così un certa concezione fisica della generazione, che non chiamava in causa principi superiori ma solo il gioco tra i quattro elementi e le due forze che li animavano: l’Odio e l’Amore: «Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate, ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini».

Contro questa concezione Aristotele sostiene invece che gli elementi contrari non si uniscono ma si dividono e che, dunque, affinché un corpo possa nascere e crescere, debba agire lo «spirito» (pneuma) come ponte tra materia e forma. Qui entra in gioco la concezione finalistica del mondo, cioè ordinato da un Principio trascendente o immanente alla natura, a seconda delle concezioni filosofiche, ma pur sempre superiore. Per gli Stoici, ad esempio, questo Principio è nel mondo, è l’anima mundi stessa, per Platone ed Aristotele è il Motore Immobile che presiede alla regolazione del tutto. Ma è proprio a questo punto che le concezioni tra i due grandi filosofi divergono: per lo Stagirita il Principio agisce sulla materia informandola di sé attraverso la funzione dello spirito, mentre per Platone esso rimane separato ed agisce attraverso un Demiurgo «senza il quale è impossibile che ogni cosa abbia nascimento» (Timeo 28,c), che attua così la mediazione tra l’iperuranio immutabile ed incorruttibile delle idee e la materia.

E dunque, con la teoria della forma e della materia unite dallo spirito, Aristotele si opponeva egualmente al meccanicismo di Empedocle ed al finalismo trascendentale di Platone, sostenendo invece che il principio del divenire va ricercato nel seno stesso della realtà che diviene, e non pensato come estraneo ad essa. La materia è un principio potenziale ed indeterminato che ha bisogno di essere determinato ed attuato dalla forma (l’idea). Per questo lo sperma, principio di nutrizione del nuovo essere, deve distillarsi attraverso l’infusione dello spirito che, tra le sue attribuzioni, ha anche quella dell’accrescimento degli esseri.

Dopo la quinta digestione, dunque, lo sperma è infine maturo grazie alla «virtù accrescitiva dello spirito» che gli deriva, in questo specifico caso, dice ancora un Dante molto coerente con la sua appartenenza ai Seguaci d’Amore, «dal cuor del generante», e non attende altro che essere eiaculato in vagina.

A questo punto però, dobbiamo accennare ad una questione che, partendo dai presocratici, venne dibattuta sino al Rinascimento ed oltre, come si evince anche dalle testimonianze contenute nel testo Embriologia sacra, del prelato Emanuele Cangiamila, palermitano, pubblicato a Milano nel 1751: cosa veicola il seme?

Anche qui la controversia trae origine dalla discussione che Aristotele intraprese contro Empedocle ed Anassagora, se cioè esso sia formato di particelle invisibili staccatesi soltanto dalle membra simili ed omogenee, come i muscoli, le ossa o i nervi, o anche da quelle dissimili e complesse come la mano o il volto. Il Cangiamila, nel suo testo (Libro I capitolo 4), riporta la testimonianza di un certo Delempazio che, sotto le lenti del suo microscopio, avrebbe visto «coi propri occhi sviluppato da vermetto nel seme maschile un uomo».

Secondo la teoria accennata alla fine del Timeo platonico (91 D), «il seme inseminerebbe la matrice pronta ad accogliere animali invisibili per la loro piccolezza e non ancora formati». Questo fa dire a Wincenty Lutoslawski nel suo The origin and growt of Plato’s logic (Londra 1905, pag. 484) che il filosofo aveva intuito la presenza degli spermatozoi molti secoli pima della loro effettiva scoperta: «There are amid all the mythical fiction of the Timaeus some wonderful glimpses of deep insight which betray Plato’s genius».

Anche ad Ippocrate è attribuita l’ipotesi che la materia dello sperma venga da tutte le parti del corpo; nel suo De genitura sostiene che il seme deriva da tutta l’«umidità che è contenuta nel corpo»; però aggiunge che da tutta questa umidità si separa la parte migliore e che da essa si stacca ancora un «semplice» che lui classifica come «spumoso»: la materia essenziale dello sperma richiama così il mito della nascita di Afrodite.

Dunque la soluzione data da Aristotele si inspira alla sua filosofia: tutto ciò che nasce comincia ad essere per l’impulso di un agente che lo trae dalla potenza all’atto. Quindi lo sperma maschile è dotato di «virtù formativa», mentre il mestruo di «virtù informativa», cioè capace di restare impresso. Un rovesciamento completo dell’idea stessa di matrice. Per altri, invece, lo sperma conterrebbe una dissoluzione, o meglio una soluzione, in cui sono presenti minutissime particelle che riproducono in piccolo ogni parte del corpo. Dunque per lo Stagirita lo sperma maschile non è materia creazionale ma solo causa agente, mentre per Galeno, Ippocrate ed altri medici sino al Rinascimento, esso è il vero principio generatore, contenendo in sé tutte le parti del corpo da sviluppare nella matrice col concorso dello «sperma muliebre».

Da qui il ruolo della donna nella riproduzione, essendo le ovaie, a quel tempo, ritenute solo testicoli femminili atte a produrre il mestruo, che serviva solo a «cuocere» la materia vivente. Questa tesi fu sostenuta da Galeno che infatti distingue tra sangue mestruale e «sperma muliebre», intendendo con questo il secreto dei testicoli muliebri, cioè delle ovaie che scenderebbe lungo i canali seminali femminili, cioè le tube, per mescolarsi con lo sperma virile e dare così inizio al processo di formazione del nuovo essere.

È dunque merito del medico di Pergamo aver intuito il ruolo attivo della donna nella riproduzione, seppure con una visione anatomica che descriveva l’apparato genitale femminile come speculare a quello maschile. La vagina, infatti, è solo un pene introverso, le ovaie sono i testicoli interni e le tube l’equivalente dei dotti spermatici. Ovviamente, in tutto questo, il seme maschile è più «forte», e quello femminile ha bisogno del suo «conforto» per attivarsi. Con Avicenna anche i medici del primo Medioevo continuano a parlare di «sperma muliebre» distinto dal mestruo, del quale peraltro era un derivato, in quanto quest’ultimo è anch’esso una «superfluidità» del sangue non ancora digerito e purificato; lo «sperma muliebre», allora, è formato dallo stesso sangue che ha compiuto tutte le fasi digestive. Per effetto dell’ultima il mestruo perde il colore sanguigno e ne assume uno biancastro (humor dealbatus), e diventa materia atta e disposta a ricevere l’azione dello sperma virile. Sara con gli studi di Gaspare Bartholin, medico danese, di Malpighi e Gabriele Falloppio italiani, che queste concezioni verranno finalmente sradicate per dare vita ad una netta interazione dei ruoli tra lo spermatozoo e l’ovulo.

Il naso maschile ed il piede femminile

Le polemiche continueranno dunque sino al XVIII secolo quando, con la scoperta e l’utilizzo del microscopio ed una visione Illuminista dell’embriologia, ai pensieri dei filosofi classici si sostituiranno i mezzi dell’osservazione scientifica anche se, come abbiamo visto in aperura, la Chiesa cercherà di mantenere sul mistero della vita e dell’anima ineffabile l’ultima parola, mentre il mito della nascita di Afrodite intorno allo sperma fuoriuscito dai genitali di Urano governa ancora il nostro immaginario erotico.

Concludiamo questa digressione con un poemetto della scuola medica salernitana che riprende il sistema di analogie tra materia e forma, con particolare riguardo alle corrispondenze tra il naso virile ed il membro, e tra il piede muliebre e l’organo femminile: «Ad formam nasi dignoscitur hasta Priapi; Ad formam pedis cognosces vas mulieris. Noscitur ex pede quantum sit virginis antrum; Noscitur ex naso quanta sit hasta viri». Ognuno si divertirà a tradurre dal latino i termini di questo noto detto popolare che parla della relazione tra il naso virile, la dimensione e la forma del membro, e tra il piede femminile, la forma e la profondità della vagina… così è se vi pare.

[cite]

tysm literary review

vol. 16, issue 21

january 2015

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