Blas. Storiche bestemmie
di Alfonso Maria Di Nola
La bestemmia (dal greco neotestamentario blasphemia, composto da phemì, “dire”, “parlare”, e probabilmente da un blas, collegato con blapto, “ledere, danneggiare”) è un comportamento orale maledittorio e oltraggioso che viene all’evidenza della religione e del diritto soltanto nell’Ebraismo antico e medioevale, nel Cristianesimo e nell’Islam. L’antica concezione classica considerava le divinità distanti da ogni reazione all’umano parlare, e ignorava questo crimine o peccato.
Nella storia cristiana durissimo è stato il rigore delle legislazioni civile e canonica contro la bestemmia in senso proprio. Già le Novelle di Giustiniano richiamano l’attenzione di quanti “usano espressioni blasfeme e giurano nel nome di Dio, provocandone la collera” e ordinano di astenersi dal comportamento lesivo della divinità, o anche dal giurare innocentemente sulla propria testa, imponendo pene estreme contro i contravventori.
Nei secoli posteriori, un decreto di Gregorio IX commina a coloro che bestemmiano contro Dio, i suoi santi e la Vergine una pubblica contrizione dinanzi alla porta della chiesa per sette domeniche consecutive e nella settima domenica il bestemmiatore dovrà spogliarsi pubblicamente dei suoi indumenti e, scalzo, chiedere l’elemosina ai fedeli, imponendo, in mancanza, la scomunica e il divieto di funerale cristiano.
Con il sorgere dei Comuni, la gestione delle pene resta affidata anche e principalmente all’autorità laica, che definisce la loro misura e durata nei vari Statuti, dal carcere, alla flagellazione, all’esilio. Proprio per i comuni va ricordata la frequente esposizione del bestemmiatore al pubblico ludibrio in una gabbia o presso la chiesa. A Verona, dal 1228, appare la corbellatura: il peccatore, messo in un corbello, era tuffato più volte nel fiume. Altrove lo si puniva, trascinandolo per le strade con una catena al collo o lo si sferzava. Pure corrente, in epoca posteriore, era la perforazione della lingua, che è comminata dalla costituzione Cum pridem di Pio V del 1566. Questi estremi interventi, la cui costante applicazione già per i tempi antichi è dubbia, vengono meno con lo sviluppo storico di una teologia più illuminata che ha la sua prima manifestazione nelle scuole controriformistiche dei Gesuiti e, attraverso le opere di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, ispira l’attuale dottrina, indirettamente influenzando le legislazioni civili.
Fra il Seicento e i primi decenni dell’Ottocento, tuttavia, l’uso della bestemmia era straordinariamente diffuso nelle classi popolari e lo documentano i predicatori delle missioni urbane e rurali che dovevano intervenire dal pulpito minacciando le terrifiche punizioni divine contro i trasgressori, soprattutto i frequentatori di osterie, i giocatori, i facchini, gli appartenenti alle categorie più basse della plebe urbana. Sulla nuova e moderata valutazione della bestemmia era, però, passata, per quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie, la profonda tolleranza di Sant’Alfonso.
Le grandi novità apportate, attraverso il recupero di testi gesuitici, dalla teologia morale alfonsiana avevano il loro primo concreto dato nel negare il significato blasfemo alle espressioni popolari sostitutive, del tipo “mannaggia la marosca”, per indicare la Madonna, o “cribbio”, per Cristo, o “ostaria” per ostia consacrata, e via di seguito. Ma il centro della nuova dottrina dipende dalla comprensione umana che quel santo ebbe per i costumi di popolo. Mentre nella Napoli di Carlo III il famoso e famigerato padre Rocco, domenicano, usava ancora i sistemi del terrore contro i peccatori, la nuova impostazione, passata poi all’attuale teologia morale, faceva riferimento principalmente, per la bestemma e per il turpiloquio, all’intenzione, all’animus del peccatore, esigendosi, per la definizione del peccato mortale, il dichiarato cosciente proposito di offendere Dio e i suoi santi. Diveniva invece assolutamente veniale il proferimento di bestemmie che sono tali soltanto per la formalità linguistica e non sono sorrette dall’intenzione mala o prava.
Contro la lunga ed inefficace tradizione punitiva delle prammatiche vicereali nei riguardi dei contadini che, durante la mietitura e la vendemmia, erano usi pronunziare oscenità e turpitudini, Sant’Alfonso dichiara: “le parole oscene non sono mortali se vengono proferite per ira o per gioco, come è nel caso dei mietitori, dei vendemmiatori, dei mulattieri”. La medesima dottrina vale per la bestemmia, in qualche modo prossima all’oscenità verbale. I moderni trattati di teologia morale dichiarano che “non è bestemmia proferire parole sacre che non abbiano senso completo” o che provengano dall’ira e dall’uso malizioso. Ancora di più, dall’epoca di Sant’Alfonso, che affrontò fra dure polemiche quest’argomento, non è considerato mortale il bestemmiare i morti, purché non si investa nella maledizione l’anima dei defunti.
Queste notazioni hanno un loro risvolto antropologico, interessato a interpretare il valore della bestemmia come comportamento sociale. Essa, in ogni caso, è un atto metaforico di aggressività psicologicamente repressa e, attraverso la bestemmia, incanalata oralmente. Ma è insieme un comportamento trasgressivo, con il quale, più o meno intenzionalmente, il bestemmiatore rompe la norma linguistica consueta e tende a infrangere il mondo di protezione e di sicurezza dal quale si sente tradito: perciò in ogni caso la bestemmia è un atto religioso capovolto, giacché un ateo non avrebbe destinatari della sua trasgressione. La quale struttura della bestemmia spiega anche la tendenza delle legislazioni penali a farne un reato contro il modello sociale, più che contro il piano divino. Sono recenti le sentenze di magistrati italiani che, contraddittoriamente, assolvono o condannano il bestemmiatore, applicando in interpretazioni opposte il decaduto articolo 724 del nostro codice penale che prevedeva l’ammenda per “chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la divinità o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato”. Sottratta, per il Concordato, la qualifica di religione dello Stato al cattolicesimo, l’articolo è stato inteso come applicabile a chiunque offenda valori sociali presenti nelle religioni in genere: soluzione quanto altra mai ambigua, poiché ogni magistrato dovrebbe avere, per definire la penalizzazione del comportamento, una vastissima competenza storico-religiosa.
[Articolo apparso su il manifesto del 10 novembre 1996]
TYSM LITERARY REVIEW
VOL. 16, ISSUE 21
JANUARY 2015
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