Storie russe nella polvere
di Francesco Paolella
Tranne che per pochissime eccezioni, nessuno, e da decenni ormai, conosce né legge più la “letteratura sovietica”, di cui restano solo tracce polverose in qualche istituto culturale (già comunista) anche qui in Italia. Sono romanzi e racconti scritti da autori tutti venuti a patti e tutti comunque approvati dalla censura comunista: è questo il primo elemento da cui non si può prescindere. Sono libri ridotti ormai allo stato di fantasmi, e dei quali oggi – almeno all’apparenza – non resta che l’eco di un insopportabile entusiasmo per un futuro utopico mai realizzato, entusiasmo che soltanto la servitù ideologica sa garantire. Della letteratura russa del Novecento rimarranno soltanto i libri degli eretici, dei libertari, degli indomati: ricorderemo i libri di Bulgakov, non i “romanzi di produzione”, il cui protagonista era sempre lo stesso, identico e feroce: la noia: la noia della verità imposta e ridondante; la noia del conformismo asfissiante; la noia dei trionfi del proletariato.
Eppure, è più che mai interessante occuparsi – come fa Frank Westerman in Ingegneri di anime, da poco riportato da Iperborea all’attenzione dei lettori italiani – delle biografie dei tanti “cantori di Stalin”, più o meno convinti, ma sempre scesi a patti (per ambizione, o solo per sopravvivere) con il potere sovietico. Le loro esistenze sono state segnate dal terrore, come quelle di ogni suddito sovietico del resto, ma con in più il pericoloso bisogno di mostrarsi, di pubblicare, di sottoporre il proprio pensiero, i propri gusti allo sguardo dell’apparato, della dittatura. La svendita della propria libertà creatrice, la sua stessa corruzione, ha ingenerato talvolta travagli e ripensamenti; ma nessuno, mai – nemmeno il sommo Gorkij – poteva davvero sentirsi al sicuro, immune dal rischio di essere discretamente fatto sparire e di vedere la propria opera cancellata per sempre.
Come si sa, nel mondo sovietico è sempre mancata – tranne che in pochi momenti, del resto ininfluenti – qualsiasi libertà di giudizio e l’assenza di una critica autentica ha avuto conseguenze nefaste in ogni campo, non solo in quello artistico. Prendiamo il caso della cosiddetta “letteratura idraulica”, tipica soprattutto in epoca staliniana: romanzi e romanzi pensati per cantare le titaniche imprese del regime, capace di deviare i fiumi, di costruire dighe maestose o lunghissimi canali navigabili e, in sostanza, di sottoporre l’ambiente a tutto ciò che l’homo sovieticus poteva sognare. Ecco, tutte quelle celebrazioni contribuirono parecchio ad allontanare sempre di più la realtà (con le sue anomalie, le sue asperità, le sue rovine) dalle menti delle classi dirigenti. La letteratura sovietica era tutta fatta di macchine, solerzia, elettricità… ma doveva, nella pratica, riscrivere, rimodellare la storia recente di un popolo, anzi di diversi popoli, tutti schiacciati dallo schiavismo e dall’imperialismo rossi. Il gergo sovietico, che ci fa soltanto sorridere ma che dovrebbe pur sempre farci orrore, sapendo quale orrendo potere avesse alle spalle, era il frutto di un paradosso essenziale: il regime voleva sì favorire la (relativa) alfabetizzazione delle masse, ma con il fine sempre di poter far meglio propaganda.
La cultura russa, poi, ha sempre avuto una specie di idolatria per i propri scrittori: nel Novecento sovietico, però, essi sono stati “usati” indubbiamente assai male, chiedendo loro soltanto una impossibile lealtà verso i desiderata dei padroni del momento; in questo senso, la letteratura sovietica fu piegata all’idiota, assurdo tentativo di pervenire addirittura a una specie di “scrittura collettiva”, superando i resti dell’odiato individualismo, e le tracce di tutto ciò che risuonasse apolitico o sovversivo. Soltanto il contenuto contava, la “leggibilità” era l’unico criterio, e la censura finiva per essere, anzitutto, una continua autocensura paralizzante. Un esperimento impossibile e disumano, anche e in primo luogo per gli scrittori: e tanti di loro soffrirono o morirono per quel “resto” di individualità, che pure era l’essenza della loro creatività: Platonov, Paustovskij e diversi altri cercarono in qualche modo di opporsi all’inerzia totalitaria e combatterono con l’NKVD, ma anche con il proprio scetticismo: scelsero, in fin dei conti, una lucida cecità, per poter scrivere storie a lieto fine ambientate a pochi passi da un gulag (e con sempre, in fondo alla mente, la consapevolezza di avere una buona possibilità di finirci per davvero prima o poi).
Lenin, Stalin e i loro successori videro nella letteratura – arte ancora viva nel Novecento – strumenti adatti per produrre “anime nuove”: lo scambio continuo fra verità e immaginazione – che è alla base della stessa scrittura – era allo stesso tempo utile a questo scopo, ma anche estremamente difficile da controllare. Quando la verità è unica e imposta (ma sottoposta a continui aggiornamenti…), come si fa a tenere a bada la penna degli scrittori? Come si può essere sicuri che le parole stampate vengano davvero intese nel senso giusto? Questa aleatorietà era comunque un’arma nelle mani della censura e della polizia segreta: bastava una frase presa da un racconto per avere una prova di una mentalità controrivoluzionaria.
TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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