Teoria della provincia
Marco Dotti
Alessio Torino, Undici decimi, Pequod/Italic, Ancona 2010.
Nelle città di provincia, non è raro imbattersi in cartelli stradali segnati da fori di proiettile. La ruggine ne addolcisce rapidamente i bordi e rende difficile capire se si tratta di spari recenti o sono lì da tempo. Anche lungo la strada per l’Abbazia della Visitazione, tra capanni abusivi e bombole del gas, alberi da frutto, lucertole e carretti pieni di legna, i cartelli hanno buchi simili. Norman – protagonista del denso e sorprendente romanzo d’esordio di Alessio Torino – li osserva, bicicletta alla mano, poi si fa rapire dal paesaggio, dagli animali e dal sole. Vorrebbe restare sospeso in quel silenzio, tra il mulo che lo fissa e il fieno, svuotare la testa o pensare solo alla propria passione per le pietre e a Pieve Lanterna, il suo paese, dimenticandosi di tutto il resto, anche della madre. Ama le pietre, Norman, le cerca, le studia e le classifica usando termini tecnici e nomi espressi in un latino astruso che solo gli specialisti o gli iniziati conoscono. Stephanoceras, Nautilus, Galaticeras, Phylloceras e Harpoceras: il latino, ma anche «il greco di Demostene e Platone», studiato al liceo, «gli è servito per dare un nome ai fossili» e alle cose, e un ordine preciso al mondo. Norman si accorge anche che, pronunciate a una certa altezza, sui monti, certe sillabe e certi nomi, come quello del poeta greco Minmnermo, possono fare paura. Ma quando torna sulla “terra” (che non è mai perfettamente piana, essendo Lanterna un paese appenninico), il suo corpo e la sua testa si fanno più leggeri, anche se nemmeno lì smettono di spingerlo lungo un tragitto individualmente lucidissimo ma, al tempo stesso, socialmente delirante. Così, il primario che lo visitava in ospedale gli ricorda una Mercaticeras in scala 1:1 e, al tempo stesso, quel suo volto «con le sopracciglia da turco» gli apre la «soglia di un mondo diverso», fatto di ricordi, alcool e piccoli particolari di una provincia immobile ma estrema nelle sue passioni e nei suoi dolori, «un mondo dove se provavi a gridare ti veniva sonno, avevi sete e ti dissetavi senza muovere un dito».
Ci sono poi le “parole” che, al pari dei volti, sembrano vuote e risvegliano immagini. Norman le annota, dal suo letto in ospedale, come fossero «aforismi immortali» che, una volta scritti, perdono ogni valore e diventano frasi fatte e prive di senso. Attorno al paese in cui vive, Pieve Lanterna sugli Appennini, e alle sue contraddizioni storiche (i partigiani dimenticati), economiche (la banca) e sociali (carpentieri immigrati e bariste polacche), Norman opera uno scavo verticale, inizialmente estraniandosi “cercando” fossili di cui è abile collezionista, ma finendo inevitabilmente per trasportare quello scavo dentro e fuori di sé, sulla propria e altrui genealogia nel tentativo di leggere storie e rancori dentro stratificazioni di volti, nomi o paesaggi incrostati dal tempo. Nelle sue peregrinazioni attorno Pieve Laterna, come a un profeta involontario, a Norman si aprono continuamente soglie che hanno la “consistenza” di un bar, della casa di un amico o di un vecchio conoscente, e sembrerebbero prefigurare il passaggio a un mondo fatto più di immagini, che di eventi. Anche le parole attorno a lui, infatti, quando non si svuotano in pure frasi fatte, assumono la consistenza di immagini mentali e veicolano attorno a sé una serie altrimenti inspiegabile di stati di umore e malumore.
Con lo stesso movimento, però, attorno a Norman e ai suoi stati mentali si costruisce un’inconsapevole “clinica della provincia”, composta di vite perennemente fuori dal centro, scombinate o spaesate forse più della sua dallo scorrere incessante e orizzontale di paure, grazia e orrori quotidiani. Per chi abita questa provincia, il tempo è dilatato e naturalmente confuso, i nessi tra causa e effetto scombinati e ogni impressione o ricordo facilmente si muta in ossessione. Alessio Torino lavora con intelligenza attorno ai poli di concrezione di questa anima collettiva provinciale, descrivendo e a sua volta scavando, come il protagonista di Undici decimi, nella sua vita assolutamente irrealistica, ma drammaticamente reale. Lo fa con una lingua intensa ma sempre ben controllata, e con una passione meticolosa – parimenti calibrata –.per il particolare, il contrasto e la “ruggine” che ricopre certe storie di paese. Come per i fori di proiettile nei cartelli stradali, anche qui non si sa se siano storie che appartengono al passato o al presente. O, semplicemente, nel loro inestricabile groviglio di aberrante bellezza, malgrado tutto e tutti prefigurino un tempo di più sterili miserie ormai prossimo a venire.
[da il manifesto, 1 aprile 2010]
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