philosophy and social criticism

Tolstoj 2010

Valentina Parisi

Tolstoj nel 1909

Due «date fauste» avrebbero dovuto – secondo Guido Ceronetti – contrassegnare il 2010: il centenaro dalla morte di Tolstoj e il centocinquantenario dalla nascita di Cechov, «formidabili consolatori del genere umano». A distanza di quasi dodici mesi non si può che constatare l’eccessivo ottimismo di un simile augurio: se dell’anniversario cechoviano non si è accorto pressoché nessuno, il centenario dell’autore di Guerra e pace, pur in assenza di progetti editoriali di ampio respiro o di percorsi interpretativi originali, sembra avere evidenziato una netta cesura nella ricezione del romanziere, sulla quale vale senz’altro la pena di interrogarsi. Il lento ma inesorabile esaurirsi di celebrazioni un po’ in sordina potrebbe diventare l’occasione per stabilire quale posizione abbia assunto l’astro tolstojano e quale faccia ci mostri ora di sé: ovviamente a patto di affidarci alla «bella e amabile illusione» già attribuita da Leopardi agli anniversari: l’illusione di indurci a credere che due date prive di qualsiasi nesso siano in realtà legate da un’intima necessità, dal materializzarsi di un’ombra che torna a visitarci.
Può sembrare paradossale, ma a cent’anni di distanza dalla scomparsa sembrano sul punto di compiersi le ultime volontà dello scrittore: essere ricordato non tanto per le sue opere narrative – quelle «sciocchezze», come amava ripetere dinanzi a testimoni lievemente attoniti – quanto per i testi di carattere teorico ed edificante composti all’indomani della conversione. Una sorprendente rivincita postuma del moralista sul romanziere sancita da molti titoli apparsi di recente.

Il versante pedagogico

I titoli usciti negli ultimi tempi vanno da Il risveglio interiore. Scritti sull’uomo, la religione, la società (a cura di Nicola Caleffi e Guglielmo Leoni, Incontri Editrice) a La religione del progresso e i falsi fondamenti dell’istruzione (a cura di Giuseppe Ianiello, Pungitopo), passando per La schiavitù del nostro tempo. Scritti su lavoro e proprietà (a cura di Bruna Bianchi, Bfs edizioni) e il saggio di Bruno Milone, Tolstoj e il rifiuto della violenza, in cui il romanziere russo viene celebrato come pervicace «negatore» (netovshchik, così l’aveva ribattezzato il principe Petr Vjazemskij) di idee ritenute scontate dai suoi contemporanei (in primis il progresso elevato a legge), nonché anticipatore di temi quali la descolarizzazione e la decrescita. In questa ottica, di particolare interesse è il volumetto proposto da Pungitopo dove, replicando a un certo signor Markov che aveva definito irrealistici i metodi di insegnamento sperimentati a Jasnaja Poljana, Tolstoj smascherava i presupposti coloniali impliciti nella «religione del progresso» e ribadiva l’interrogativo posto alla base del suo pensiero: «I figli dei contadini devono imparare a scrivere da noi o noi da loro?».
Accanto a questa rivalutazione delle considerazioni pedagogiche del romanziere russo (avviate in Italia nel 1995 dal volume di Pier Cesare Bori L’altro Tolstoj e riprese dal convegno di studi Fa quel che devi, accada quel che può. Arte, etica e politica in Lev Tolstoj, che si tenne in novembre a Ca’ Foscari), gli scaffali evidenziano un’altra variante dell’«accanimento biografico»: quella per cui l’attenzione si è andata concentrando, appunto, sul «personaggio Tolstoj» e, in particolare, sull’afflato indubbiamente romanzesco della sua fuga da Jasnaja Poljana su treni di terza classe diretti verso il sud. I possibili sviluppi narrativi di questo epilogo sono stati esplorati con alterne fortune da una pletora di testi che vanno dal Tolstoj è morto di Vladimir Pozner (scritto nel 1935 e proposto a maggio da Adelphi nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco) alla Fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari (1986, ripubblicato ora da Electa) all’Ultima stazione di Jay Parini (Bompiani, traduzione di Lorenzo Matteoli), cui fa da corollario Begstvo iz raja («Fuga dal paradiso») di Pavel Basinskij, un libro che ha appena vinto a Mosca il premio Bol’shaja Kniga, e tende a rileggere retrospettivamente tutta la parabola esistenziale e artistica dello scrittore alla luce del suo atto finale.

Voci catturate in famiglia

A fronte di questo tenace interesse per gli ultimi giorni di Tolstoj risulta tanto più impressionante il vuoto che si è aperto intorno alla sua opera narrativa: con la meritoria eccezione del racconto Chadzi Murat, edito da Voland nella nuova versione di Paolo Nori, l’anno del centenario ha brillato soprattutto per l’assenza di quelle particolari riletture che sono le ri-traduzioni. Tutt’al più si dipanano narrazioni accessorie e periferiche, come l’itinerario «coniugale» intrapreso dalle edizioni La Tartaruga già nel 2009 con la pubblicazione di Amore colpevole (mediocre romanzo della moglie Sof’ja) e proseguito ora con una scelta dai Diari della stessa contessa Tolstaja. Nella medesima linea, benché con esiti più significativi, si colloca Preludio a Chopin che inaugura la nuova collana «Asce» degli Editori Riuniti: quattro racconti di autori diversi, diseguali per valore letterario e legati tra loro da una comune intenzione: replicare a quell’inaccettabile provocazione rappresentata dalla Sonata a Kreutzer, ultimo atto dell’annichilimento dialettico che Tolstoj aveva riservato alla istituzione matrimoniale, tanto nella Felicità domestica che in Anna Karenina. Tra gli autori che polemizzano con Tolstoj c’è innanzi tutto il suo quartogenito Lev L’vovic, i cui due testi sono interessanti più che altro come atto d’accusa contro la generazione egoista dei padri che vorrebbero negare ai giovani la possibilità di un amore puro e (neo)romantico. A questi si affianca il racconto di Nikolaj Leskov A proposito della Sonata a Kreutzer, una raffinata sfida endoletteraria dove intorno ai rimorsi di coscienza di un’adultera convergono non solo gli alter ego di Tolstoj e dello stesso Leskov, ma addirittura l’ombra di Dostoevskij. Anche Cechov si unisce al coro con Mia moglie, benché questo soffocante interno domestico illuminato con la consueta intelligenza e malinconia sembri ispirarsi, più che al dibattito sulla Sonata tolstojana, alla carestia che nel 1892 colpì la regione in cui si trovava Melichovo, la tenuta dello scrittore.

Soffocato dal chiacchiericcio dei suoi familiari e privo di alcuni tra i suoi «lettori» più sensibili (in libreria manca sia il fondamentale volume di Viktor Sklovskij edito dal Saggiatore nel 1978, sia il saggio di Dmitrij Merezkovskij che nel remoto 1900 inaugurò la tradizione del raffronto con Dostoevskij), Tolstoj appare oggi confinato in un passato arcirusso, come suggerisce anche il sottotitolo di una biografia appena uscita in Inghilterra, Tolstoy: A Russian Life di Rosamund Bartlett. Perché, invece, non riportarlo a confronto con Kierkegaard o con Proust, come si era già tentato vent’anni fa, o indagarne la presenza fantasmatica, ma più che accertata, nella prosa postmoderna russa di oggi?

Sul fronte editoriale italiano l’evidente mancanza di «investimenti» tolstojani appare tanto più sorprendente dal momento che, solo vent’anni fa, l’effervescenza era tale da generare veri e propri mostri. Ricordo, a questo proposito, che Tolstoj entrò nella mia vita di dodicenne – era il 1988 – con un titolo bizzarro, Casa Rostov: il volume che mi venne messo allora in mano conteneva stralci di Guerra e pace nell’adattamento che l’editore Marietti aveva approntato per i più giovani: niente digressioni storico-filosofiche, pochissima «guerra» e, della «pace», la sola linea narrativa legata alla casata Rostov, privilegiata rispetto a quella dei Bolkonskij nella speranza di far scattare nelle menti preadolescenziali i più scontati meccanismi di identificazione psicologica. Così amputato, Guerra e pace si riduceva a un libretto tutto sommato agile, di sole duecentocinquanta pagine, che divorai avidamente, un po’ turbata dalla sua sconclusionatezza di fondo: i riassunti inseriti qua e là non potevano certo restaurare la coerenza dell’intreccio e parevano alludere alla mole invisibile che si estendeva al di là delle pagine superstiti. L’immaginazione finiva così per proiettarsi su quei territori negati, su quel resto che veniva taciuto.

Più tardi, una volta affacciata sulla mole del corpus tolstojano, mi accorsi che quel caso di vivisezione editoriale aveva lasciato una traccia durevole nella mia memoria. Non a caso, a distanza di anni, l’immagine della lacuna o, meglio, dell’eclissi resta inscindibile per me dall’opera dello scrittore di Jasnaja Poljana, complice anche la lettura reiterata dei Diari dove, a frammenti di sfolgorante introspezione, subentrano abissi temporali spiazzanti, quando l’autore, dopo aver fustigato per bene la propria vanità ed essersi imposto regole di condotta draconiane, dimentica per mesi, se non per anni, i suoi quaderni in un cassetto. O magari per effetto di quel passo meraviglioso di Adolescenza in cui si descrive intento a voltarsi di scatto, per sorprendere il nulla cosmico che intuisce alle sue spalle.

A distanza di anni Tolstoj avrebbe riposizionato la sede di quel vuoto, imprimendole una rotazione di 180 gradi e collocandola di fronte a sé («Vivo è l’uomo che avanza verso il luogo rischiarato da un lume che si muove innanzi a lui», annotò nel diario del 1890), ma immutata sarebbe rimasta in lui la tendenza a contraddirsi, a superare quanto era già in suo possesso. «Non si può mettere su un piedestallo, ad ammaestramento dei posteri, un individuo che è esclusivamente una lotta», scriveva di Dostoevskij nel 1883; eppure avrebbe potuto benissimo riferire questa frase a se stesso, perennemente impegnato com’era a inseguire il miraggio dell’autoperfezionamento, a respingere la tranquillità definendola «vigliaccheria dell’anima».

Ipotesi su un disinteresse

Alla luce di questa «discontinuità» già notata da Isaiah Berlin, forse non dobbiamo sorprenderci se una parte di Tolstoj è fatalmente destinata a restare in ombra, a sottrarsi allo sguardo dei lettori. Resta però da chiedersi se lo scarso fermento editoriale del 2010 sia indice di saturazione («Tutti hanno già letto Tolstoj») oppure di scoramento («Nessuno legge più Tolstoj»). E se sul versante accademico sia opportuno dedicare interi corsi all’«altro Tolstoj», visto che gli studenti spesso non hanno ancora letto Guerra e pace – neppure in forma vivisezionata.
Definendolo «uomo di intempestività, inattualità e differenza», Andrea Zanzotto lo ascriveva al novero ristretto di quegli autori che potrebbero investire tutta la nostra esistenza con una semplice frase. In effetti, basterebbe a dimostrarlo quell’autentica slavina verbale che è l’incipit geniale e arcigno di Resurrezione: «Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto estirpassero qualsiasi filo d’erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fiumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli – la primavera era primavera anche in città».

[da il manifesto, 15 dicembre 2010]

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