Un incontro con Susan George
Giuliano Battiston
Da trent’anni a questa parte Susan George si dedica all’individuazione di percorsi praticabili per una vera giustizia globale, che possano «democratizzare lo spazio internazionale e assicurare una vita dignitosa a ogni abitante del pianeta». E da trent’anni a questa parte si trova ad assediare il «muro impenetrabile costruito intorno alla cittadella del sapere» neoliberista, quel muro che ostacola i tentativi di quanti vogliono espandere gli spazi di trasparenza, inclusione e democrazia. Già da tempo consapevole dei rischi che nascono quando, «come diceva Keynes, la schiuma della finanza diventa molto più importante del fiume dell’attività economica reale», e certa che «lo stimolo alla “crescita di coscienza” non può sostituire la costruzione di nuovi rapporti di forza, di nuovi equilibri di potere», prima che divenisse una formula largamente dibattuta Susan George ha proposto un nuovo «keynesianesimo verde» come via d’uscita dall’attuale crisi finanziaria. Di questo e altro abbiamo parlato con lei, a Roma, nei giorni scorsi, prima che Barak Obama definisse le prime linee della sua politica economica.
Sin dal suo primo libro, «Come muore l’altra metà del mondo», lei è sempre stata scettica sull’efficacia degli appelli alla buona volontà per ottenere dei cambiamenti effettivi. E recentemente ha scritto che una via d’uscita dalla crisi ambientale ci sarebbe, ma non può essere quella suggerita «dai molti ambientalisti di buona volontà, secondo i quali basterebbe che ognuno di noi cambiasse le proprie abitudini». Perché «la semplice consapevolezza dei problemi ecologici, per quanto diffusa possa essere, non sarà mai sufficiente a garantire cambiamenti di politica»?
In questi anni ho avuto modo di parlare di fronte a diverse platee, con membri di organizzazioni non-governative, con persone molto bene intenzionate, che credevano sinceramente nella necessità di cambiare il proprio comportamento individuale. Non c’è niente di male in questo, anche perché l’assunzione di responsabilità nasce sempre con il chiedersi cosa si possa fare individualmente per risolvere un problema; dunque, se per esempio «diventare vegetariano» si trasforma per qualcuno in un imperativo morale, o se è una maniera per entrare nell’ordine di idee che occorre agire in qualche modo, ben venga. Ma che questo non diventi una scusa per evitare di agire in modo politicamente più efficace, sollevandoci dall’onere di intraprendere iniziative capaci di andare al cuore del problema. Nonostante quel che pensano alcuni, come Serge Latouche, l’appello alla buona volontà di ognuno non funziona veramente.
Non a caso lei sostiene che le soluzioni locali sono necessarie, ma non sufficienti, perché occorre preoccuparsi delle questioni di «scala»…
È così: alcune cose possono essere localizzate, come la produzione e il consumo di cibi, alcune forme di trasporto, oppure il settore energetico, la cui decentralizzazione è stata fortemente ostacolata dalle grandi compagnie; ma credo che, qualunque forma avranno le società in cui vivremo in futuro, ci saranno comunque strutture complesse e molto estese. La localizzazione in questo senso è una scelta importante, ma non dovrebbe essere vista come un punto di arrivo: dobbiamo pensare a delle risposte che, in termini di scala, siano adeguate alle dimensioni delle emergenze che ci troviamo di fronte; abbiamo bisogno di soluzioni su larga-scala, di soluzioni «industriali», che prevedano un ampio coinvolgimento dei governi. Solo così potremmo trovare il coraggio di sfidare l’interno sistema economico capitalistico, privatizzato e senza regole. Dovremmo riuscire per esempio a coinvolgere anche gli Stati (ancora meglio istituzioni come l’Unione Europea, ma i suoi rappresentanti pensano a tutt’altro) per una conversione radicale verso un’economica completamente libera dalle emissioni di gas nocivi. Dovremmo convertire del tutto l’economia, come fecero gli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale.
Diversi mesi fa infatti lei ha suggerito che di fronte alla crisi del sistema economico c’è una sola via d’uscita: che «individui, business e governi» si mettano insieme per dare vita a «una nuova incarnazione della strategia keynesiana dell’economia di guerra», che però sia di natura ambientale, non militare. Ci può dire qualcosa di più su questa idea?
È una idea che mi sembra stia circolando con sempre più insistenza ai quattro angoli del pianeta, e che ho presentato pubblicamente per la prima volta nel settembre 2007 (alla conferenza promossa dall’International Forum on Globalization, ndr). Ero certa che fosse in arrivo una crisi profonda, e mi sono chiesta quali fossero gli strumenti generalmente usati durante le crisi finanziarie: si riducono i tassi di interesse, si svaluta la moneta per rendere più appetibili all’estero le proprie merci, si aumenta in modo mirato la spesa pubblica; tutti strumenti che mi sembravano ancora una volta insufficienti: i tassi di interesse non potevano scendere troppo, il deficit commerciale non poteva crescere eccessivamente, il dollaro era già molto basso. Che altro si poteva fare? La risposta mi è sembrata ovvia: investire completamente nel settore ecologico, convertire rapidamente l’economia, spingere per un investimento massiccio verso una politica industriale eco-friendly, produrre nuovi materiali «leggeri», organizzare un trasporto pubblico efficiente, insomma, dare vita a un keynesismo verde. C’è chi obietta che così facendo forniremmo nuova linfa vitale al capitalismo, e probabilmente ciò era vero soprattutto quando ho presentato per la prima volta questa idea. Ma oggi che alcune banche sono state nazionalizzate si può immaginare una gestione parzialmente statale di questa conversione economica, che non sia subalterna ai dettami del neoliberismo. Il primo passo, però, è riconoscere l’urgenza del momento e comprendere che non si può uscire dalla crisi economica senza uscire da quella ambientale. Questo riconoscimento è però ostacolato da trent’anni di neoliberismo, che ci hanno fatto credere per esempio che le operazioni delle banche debbano essere segrete, che il profitto sia segreto, che nazionalizzazione sia una parola terribile. Mi sembra comunque che questa idea del keynesianesimo verde si stia diffondendo sempre più, vedremo cosa succederà.
Il suo ultimo libro, L’America in pugno (Feltrinelli, 2009), è dedicato al lungo viaggio del neo-conservatorismo nelle istituzioni americane. Nell’introduzione scrive che a partire dagli anni Settanta «la cultura americana ha subito un lento progressivo dirottamento verso la destra», la quale ha creato «un vero e proprio sistema di valori che non può essere alterato da un mero cambiamento di maggioranza o dall’elezione di un nuovo presidente». Neanche se quel presidente si chiama Barack Obama?
Sfortunatamente l’ideologia che permea un intero sistema di valori non scompare con la semplice elezione di un presidente dell’opposto schieramento, e di certo la destra non scomparirà così facilmente come le prime impressioni del dopo-elezione di Obama ci potrebbero far credere. Obama è certo un uomo che, nonostante il tono volutamente ambiguo della sua campagna elettorale, ha una visione del mondo ben precisa, delle idee chiare, ma la loro realizzazione è fortemente condizionata dalla terribile situazione che si trova a ereditare. Tralasciamo per ora la crisi finanziaria, e pensiamo al disastro del sistema scolastico americano, al sistema sanitario, alle infrastrutture che sono al collasso perché negli ultimi trent’anni non c’è stato alcun investimento, o se c’è stato è stato fatto senza la dovuta accortezza. La situazione è molto grave. Spero però che abbia la forza sufficiente, nonostante non sia stato un frequentatore dei circoli di Washington e nonostante molti dei suoi consiglieri provengano dalla «vecchia guardia clintoniana», di dire alle banche: bene, se volete l’aiuto dello stato, se volete essere salvate, dovete concedere prestiti per i progetti ecologici, dovete destinare una parte dei soldi agli investimenti sulla conversione ecologica, dovete dare soldi ai cittadini che ne hanno bisogno. Se non lo farà, le banche, ancora una volta, useranno quei soldi per altre operazioni di concentrazione, per fusioni varie, per un nuovo business. Pericoloso per ognuno di noi.
In un suo contributo alla conferenza del 2008 su «The fight against poverty», lei ha sostenuto che oggi, per la prima volta nella storia, la povertà potrebbe essere sradicata, ma ha anche aggiunto che «l’Unione Europea, con la complicità degli Stati membri, sta facendo tutto quel che è in suo potere per impedire che questo accada, sia all’interno dell’Europa che nel mondo». Quali sono le maggiori responsabilità europee?
Le responsabilità dell’Europa sono enormi. L’Unione Europea e gli Stati membri non intendono ridurre la povertà perché hanno deciso di promuovere la «flexicurity», un termine orribile che equivale a maggiore precarietà per i lavoratori. La direttiva sull’orario di lavoro ci riporta indietro al diciannovesimo secolo, elimina le già esigue protezioni dei lavoratori stagionali, ci catapulta in altri termini nel capitalismo della Manchester del diciannovesimo secolo descritto da Engels. Anche sul fronte economico, le partnership e gli accordi non mirano ad altro che allo sfruttamento delle risorse e delle persone, senza tener conto delle necessità occupazionali, puntando invece su privatizzazione e deregulation. Ci si consegna completamente al capitale. D’altronde non è un caso che negli ultimi trent’anni ci sia stato uno spostamento così significativo dal salario al profitto del capitale: ci si è adoperati affinché così accadesse, e l’Europa è sembrata essere una entusiasta sostenitrice di questo processo. Mi sorprenderebbe molto se mi dicessero che i nostri rappresentanti europei non sapevano quel che facevano.
Si sono appena conclusi a Belem gli incontri del World Social Forum, e ci si interroga nuovamente sul suo futuro e sul modo migliore per conciliare carica utopica ed efficacia politica. Alla fine di «Un altro mondo è possibile se»…, lei scriveva che «anche se non è riuscito a fermare la guerra (in Iraq), il movimento oggi è una potenza». Qual è, oggi, il suo giudizio sullo stato del movimento per la giustizia globale?
Spero che il movimento abbia ancora la consapevolezza che potrebbe essere una potenza. È certo un bene che il World Social Forum sia pensato come uno spazio dove persone dai retaggi molto diverse possono incontrarsi e condividere percorsi e iniziative, ma questo finora ha troppo spesso impedito che potesse essere un luogo dove prendere decisioni politicamente significative. Credo che si debba prendere un tema, qualunque esso sia, e, declinandolo a seconda delle culture e della latitudine, farne l’occasione, in una giornata di mobilitazione globale, per pronunciarsi su una questione tutti insieme, trovando un’espressione comune su un tema specifico. Solo così il movimento per la giustizia globale potrà acquistare visibilità mediatica e tornare allo spirito di quel 15 febbraio 2003. Altrimenti si rischia di sprecare la costruzione di un network così importante. Temo però che ora il movimento non abbia sufficiente consapevolezza del suo potenziale potere simbolico.
[da il manifesto, 3 febbraio 2009]