Un pensiero vivente. Dialogo con Roberto Esposito
di Alberto Ghidini e Marco Dotti
Per Roberto Esposito, l’ultimo Pasolini, quello di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), servendosi del fascismo come metafora del potere, realizza in forma di film un progetto insostenibile allo sguardo. E forse anche al pensiero. Di questo film (nell’intero progetto), osserva Esposito, tra le pagine del suo Pensiero vivente (Einaudi, Torino 2010) si possono trarre diverse letture, tutte ugualmente plausibili, ma ciò che più rileva è il fatto che Pasolini sia stato tra i pochi “filosofi” ad avere intuito sul nascere la mutazione antropologica che stava portando alla costruzione di un regime biopolitco. Regime fondato sull’identificazione con il Capo e su un godimento differito capace di dissolvere ogni tensione di desiderio.
In Pensiero vivente, lei scrive che, elaborato in Francia, dopo vent’anni di latenza in cui è rimasto praticamente inattivo, passando per l’Italia il paradigma della biopolitica ha ritrovato quella risonanza internazionale che sembrava andata perduta dopo la scomparsa di Michel Foucault. Oltre al merito della filosofia italiana e dei suoi principali esponenti è possibile pensare che ciò sia dovuto (anche) alla specificità della situazione politica italiana degli anni Novanta. Anni che hanno visto succedersi lo scioglimento del Pci, Tangentopoli, l’ingresso di Silvio Berlusconi sulla scena della politica attiva, il fenomeno di movimento di una Lega destinata – ora lo sappiamo – a divenire istituzione… Tutto ciò ha forse contribuito a creare le condizioni per la riattivazione del paradigma biopolitico e, di fatto, ne ha reso praticabili assunti e categorie che la filosofia italiana ha saputo (ben) utilizzare come filtro interpretativo della realtà, guadagnandosi una credibilità sul campo” agli occhi della comunità filosofica mondiale?
Roberto Esposito: Sì, lo credo. Non c’è dubbio che la storia contemporanea in Italia abbia espresso un potenziale, insieme di innovazione e di involuzione, che certamente ha condizionato la pratica teorica e in particolare l’elaborazione della categoria di biopolitica. Già nei primi decenni del Novecento l’Italia è stata un laboratorio politico di particolare rilievo. Sia il fascismo, sia, più tardi, il comunismo gramsciano sono stati esperimenti che hanno avuto larga diffusione nel resto di Europa. E anche dopo, ai giorni nostri, Lega e berlusconismo sembrano anticipare una doppia tendenza destinata anch’essa a diffondersi: da un lato una etnicizzazione della politica come rigetto immunitario delle dinamiche globali; dall’altro una rottura delle tradizionali dicotomie moderne tra pubblico e privato, corpo e persona, immaginario e reale. In questo senso il berlusconismo sta dentro una sorta di biopolitica negativa, e anche perversa, che sostituisce alla forza differenziale del desiderio l’imperativo del godimento immediato. Tutto ciò, evidentemente, ha a che fare con il lavoro filosofico italiano sulla categoria di biopolitica e anche con la necessità di pensare quella che io definisco una ‘biopolitica affermativa’ da contrapporre a quanto cresce sotto i nostri occhi.
Crede si possa affaermare che la riflessione sulla biopolitica di Foucault avesse bisogno di una “filosofia situata” (nei termini di una “geofilosofia”) italiana per potersi affermare come paradigma?
Roberto Esposito: La categoria di biopolitica, proprio per i suoi caratteri non universalistici e differenziali, presuppone in qualche modo un rapporto con un determinato territorio. Da qui la tendenza alla localizzazione cui prima facevo riferimento a proposito della Lega e alle tante forme di “piccole patrie” nate dovunque all’interno del mondo globalizzato. Al contrario, l’elaborazione di una “biopolitica affermativa” – come quella cui rimandano già i lavori di Gilles Deleuze – rinvia al concetto di “deterritorializzazione”, come sconfinamento e contaminazione rispetto ad altre “terre”. La mia tesi è che la tradizione del pensiero italiano, fine dalle sue origini rinascimentali, si sia costituita precisamente al punto di incrocio tra rapporto con un territorio e deterritorializzazione. Non a caso quella italiana non è mai stata una filosofia dello Stato e del potere, ma una filosofia dello sconfinamento e anche, in un certo senso, della resistenza e del conflitto rispetto ai poteri della Chiesa e dello Stato. La filosofia italiana degli ultimi due decenni ha cercato di inscrivere questo elemento conflittuale – già presente lungo una linea che va da Machiavelli a Gramsci – all’interno dell’attuale configurazione biopolitica, ponendo la vita biologica, con tutte le questione che essa pone, al centro dello scontro tra prospettive diverse.
Pasolini può essere “letto” come caso di specie della differenza italiana, in questa chiave? In particolare, nella sua tensione fra terra e teritorio; nella cortocuito che pone e propone tra vita poesia e azione («gerrare il corpo nella lotta»), nell’opera vista come «assenza d’opera» o meglio come «appendice corporea della vita»?
Roberto Esposito: Sì. Intanto va detto che Pasolini coglie in largo anticipo, sia pure senza elaborare una teoria sistematica, i tratti di quella trasformazione che poi si sarebbe sviluppata con maggiore evidenza nell’ultimo ventennio. Difficilmente – forse con l’eccezione di Leopardi – uno scrittore ha avuto una simile capacità di cogliere sul nascere quanto si sarebbe di lì a poco determinato. Al centro del suo discorso vi è da una lato la differenza tra terre – tra il Friuli e Roma o tra nord e sud, con una particolare attenzione anche per Napoli; dall’altro la differenza – ed anzi la spaccatura epocale – tra passato e presente, tra origine e contemporaneità, che egli tende ad interpretare, sul piano artistico, in termini mitici, attribuendo al passato o alla premodernità non occidentale i caratteri del mito. Salvo, a un certo punto, accorgersi che anche quei lembi di vita premoderni venivano conquistati rapidamente e violentemente dal nostro modello culturale, con l’omologazione che questo comportava.
Un Pasolini biopolitico, dunque? Una sorta di ossimoro incarnato, un pensiero vivente? Attiene, questa sua riflessione, anche alla mutazione antropologica o a quella apocalisse senza eschaton su cui Pasolini lavorava dai primi anni Settanta, in particolare dall’inzione dall’inizio della stesura di Petrolio, nel 1972?
Roberto Esposito: Non c’è dubbio che, contrariamente ad altri scrittori contemporanei – per esempio Calvino – Pasolini vivesse fin dall’inizio un’esperienza che si può definire biopolitica. Non solo nella sua analisi antropologica, che egli lega anche e soprattutto alle trasformazione dei corpi, oltre che delle psicologie, in particolare giovanili. Ma anche nel senso che egli mette in gioco – nella sua poesia e anche nella sua stessa vita reale – sempre il proprio corpo, facendo di esso il centro, insieme il soggetto e l’oggetto del suo interesse. Si tratta di uno spostamento di non poco conto – questa connessione fortissima tra scrittura, corpo e vita – in una stagione in cui prevaleva una concezione automatica e separata della scrittura rispetto alla soggettività dell’autore. L’incomprensione, ed anche il conflitto, tra Pasolini e le cosiddette neo-avanguardie letterarie degli anni Sessanta e Settanta, verte precisamente su questo punto. La morte di Pasolini, qualunque interpretazione le si voglia dare, va comunque letta all’interno di questa “differenza”.
A cosa si riferisce la figura dell’Insostenibile – richiamata in Pensiero vivente – in Pasolini?
Roberto Esposito: Intanto va detto che si tratta di una figura che non appartiene al solo Pasolini, ma che è parte integrante del pensiero, e per certi versi, anche della letteratura e dell’arte italiana, al pensiero sempre connesse. La stessa immagine che figura sulla copertina del mio libro – si tratta di una riproduzione del celebre dipinto, poi andato perso, di Leonardo dedicato alla Battaglia di Anghiari – ne costituisce un esempio. Ma l’Insostenibile è riconoscibile in altre figure estreme, presenti in Dante, Bruno, Vico e in altri autori. Definisco in questo modo qualcosa che non è rappresentabile. Che eccede i confini della rappresentazione, artistica, letteraria, filosofica perché allude ad un nucleo riposto e irriducibile, che non soltanto continua sfuggirci, ma che neanche l’autore è in grado di padroneggiare. E’ come un resto, un residuo – generalmente violento – che rimane fuori dal quadro rappresentato e tuttavia, in un altro senso, ne fa parte ed anzi costituisce il suo senso primo ed ultimo. In Salò questo elemento è messo in scena, almeno fino a un certo punto, prima che la sua indicibilità distrugga la possibilità di riconoscerlo. Personalmente non lo vedo nella atrocità dei carnefici – ancora dicibile in quanto tale e ben riconoscibile nella storia novecentesca (il nazismo, etc.), ma nella caduta della barra di distinzione tra carnefici e vittime. Nella carneficina di se stesse che le stesse vittime mettono, contraddittoriamente, in opera, distruggendosi, e così distruggendo anche l’oggetto della persecuzione dei carnefici.
In Salò, dopo aver “consumato” il mito e il sacrificio (come forse il solo Pavese era stato capace di fare, nella sua “contaminazione volontaria), Pasolini concentra l’attenzione a una sorta di Legge dell’Illegalità: lei (p. 204, del “Pensiero vivente”), segnala una cosa che ci pare di capitale importanza: Pasolini scaverebbe qui nel nucleo del potere sovrano, svelandone il centro vuoto, l’anarchia al potere… Ci può spiegare meglio? è un punto chiave, che specie in Salò sembra riallacciarlo a Bataille, anche se molti interpreti preferiscono ancora leggere Pasolini a partire dagli scritti corsari, dove questa tensione è meno chiara…
Roberto Esposito: Si tratta del nucleo segreto, cioè invisibile, della sovranità. Mentre questa categoria, con la sua lunghissima storia, fa pensare alla figura sovrana di chi fa la legge, oggi, in pieno regime biopolitico, sembra profilarsi una diversa forma di sovranità, legata alla disattivazione della legge ordinaria e all’apertura di uno “stato di eccezione” in cui alla fine tutto è permesso. Questo, almeno, è accaduto durante il regime nazista, ma anche in altri casi, più recenti, come quelli delle dittature in Cile e in Argentina. Il potere, piuttosto che “fare” la legge, si è limitato a “disfarla” – o, come anche si può dire, a fare una legge che si autoconfuta nel suo opposto, appunto in una legge dell’illegalità. L’idea che sia possibile, e legittimo, fare tutto – all’uomo e contro l’uomo – significa scavare un vuoto, dentro la legge, in cui essa si rovescia in pura anarchia, in una legge della non-legge, o meglio dell’antilegge, in cui la legge coincide con l’assoluta illegalità. E’ in questo viluppo “teologico-politico” che ha affondato lo sguardo Pasolini in Salò. Il risultato è che sono pochissimi, ancora oggi, quelli che hanno visto il film fino al termine. Che hanno provato a sostenere l’Insostenibile.
Che cos’è un pensiero vivente?
Roberto Esposito: “Pensiero vivente” allude a due elementi che si sovrappongono. Da un lato al fatto che il pensiero italiano, contrariamente a quanto è stato a lungo sostenuto, anche in Italia, con una sorta di provincialismo all’incontrario, è tutt’ora, e anzi oggi più che mai, in vita, vitale. Dall’altro al fatto che al suo centro, oggi come nel passato, e fin dalla sua origine, vi è proprio la categoria di vita. Diversamente da altre tradizioni filosofiche, impegnate a guardare dentro di sé, alla ricerca di una idea di soggettività, dei drammi della coscienza interiore o di una teoria della conoscenza, il pensiero italiano è sempre stato un ‘pensiero del fuori, del mondo e della vita, nella sua connessione irriducibile con la storia e con la politica.
L’intervista è stata realizzata nel 2011 e pubblicata sul n. 49 della rivista “Communitas” (monografico dedicato a Pier Paolo Pasolini)