Un profeta del nostro tempo
Michele Ranchetti
Da qualche tempo la figura e l’opera di Dossetti sono riproposte all’attenzione di chi vede nel monaco un personaggio di straordinaria rilevanza attuale. Dossetti appare, anche nelle cronache giornalistiche, come il profeta del nostro tempo, il solo, forse, per cui questa qualifica non sembra eccessiva. Proprio in questi mesi sono usciti quasi contemporaneamente due volumi: gli Scritti politici a cura di Giuseppe Trotta, introdotti da Mario Tronti (Marietti) e gli scritti “religiosi” dedicati al Concilio Ecumenico Vaticano II, a cura di Francesco Marzotta Broglio (Il Mulino). Entrambi, tuttavia, riguardano quasi lo stesso argomento, ed è per questo che non presuppongono una diversa attenzione di lettura.
In uno dei molti scritti autobiografici, in quello dedicato alla figura del monaco vescovo Schuster come modello della sua vocazione, Dossetti scrive: “Per ora, intanto, (Schuster) non sembrava influire sulla mia scelta di uno stato di vita, che era ancora in un’altra direzione – una consacrazione laicale nel mondo, a servizio della ricerca scientifica e dell’insegnamento”.
Costanti metodologiche
Non credo che si potrebbe definire meglio e con maggiore autorevolezza autobiografica il tipo di vocazione che corrisponde agli anni della formazione di Dossetti. Nessun altro avrebbe osato definire così il proprio apprendistato. E’, come si vede, una premessa che condiziona ogni sua derivazione operativa: qualsiasi laicato è qui da subito iscritto in un ambito vocazionale, non gode in altri termini di alcuna autonomia. Negli scritti “politici”, il lungo saggio dedicato al laicato riprenderà questa definizione di laico che è una forma di appartenenza alla modalità religiosa dell’esistenza: la sola modalità che è presente in Dossetti e che trova in lui diverse manifestazioni.
Nello stesso scritto, Dossetti interpreta la figura del vescovo Schuster con una sicurezza che può stupire: “Tutta la verità è che da decenni, già prima di divenire abate di San Paolo, l’anima di Schuster si era lasciata abitualmente plasmare dallo spirito santo a una consumata unità del suo essere pienamente monaco”. Questo giudizio presuppone una naturale confidenza con i disegni provvidenziali come se Dossetti ne fosse abitualmente informato, ne avesse piena e illuminata partecipazione.
Entrambi i brani indicano una costante metodologica delle confidenze o conversazioni o omelie di Dossetti: l’introduzione di asserzioni insondabili, non verificabili, perché appunto frutto di superiori confidenze accanto a concetti elementari, a osservazioni di tutt’altro tipo, derivati da una logica non superiore ma frutto di esperienza. Così i due termini, o le due logiche, si valgono di ossimori e di analogie come di osservazioni fattuali, mischiandosi tra di esse senza apparente difficoltà. In un certo senso il suo discorso è sempre teatrale, poiché pone sulla stessa scena personaggi reali e personaggi immaginari, o almeno non visibili, con la stessa apparenza di realtà e di verosimiglianza. E’ presente in lui non solo, come in Goethe un prologo in cielo, ma vi è un continuo ricorso a quell’altro livello “scenico” che il comune lettore, forse dopo un primo imbarazzo, finisce per accogliere come ovvio e plausibile.
La forza della sua argomentazione si regge su questo metodo che ha suggestione del “vero”. Milani parlava della sua “ditta”, con un’espressione secondo me non felice e abbastanza volgare, ma tuttavia, chiara, evidente, per designare chi, alla fine, fosse l’unico a dover profittare del suo operato di prete e di maestro, chi fosse il suo costante punto di riferimento: l’espressione, sia pure rozza, era efficace nel troncare sul nascere speculazioni di qualsiasi genere, ma soprattutto spiritualistiche. Dossetti presuppone il referente primario, ma l’aura è quella indicibile, del sacro, con il quale egli conversa confidenzialmente. Il lettore, meglio, lo spettatore è escluso e tacitato: sono gli Arcana fidei, è la disciplina arcani ciò di cui il suo discorso è traccia depauperata.
Per questo, la maestrìa di Dossetti, è piuttosto quella di un organizzatore di referenti, di intrecci di livelli e di gradi di perfezione. Non direi che professi mai una particolare confessione, ma è straordinariamente capace di porre in una relazione efficace tempi, persone, intelligenze e competenze diverse: è, altrimenti detto, un politico per vocazione le cui mutazioni – da professore universitario a uomo politico, a monaco e di nuovo a voce partecipe nella scena politica attuale – corrispondono a scelte in cui entra certamente una fortissima riflessione e meditazione, ma sempre dalla stessa parte dell’esercizio di autorità.
Così, anche leggendo una serie di articoli e interventi che riguardano la “politica” di Dossetti, non possiamo non avere in mente gli altri suoi scritti di altro argomento, certo, ma di non diversa ispirazione. Altrimenti detto, l’esito monastico, non è un approdo, è una qualità diversa della vocazione originaria e unica, che può benissimo convivere con la qualità politica, imprenditoriale, ecc.: se di carisma si tratta (e di che cosa mai d’altro in lui) allora nessuno di questi carismi è prevalente ed esclusivo, mentre è proprio della loro compresenza lo straordinario fascino della figura di Dossetti e la suggestione che essa provoca. Ad esempio, e per conseguenza, Dossetti agisce da provocatore nell’ambito politico, poiché introduce come valori, o meglio come realtà di esperienza, suggestioni anomale che derivano da vocazioni e appartenenza di tutt’altro ordine e ne impone la realistica necessità.
In realtà, Dossetti dispone di una seconda maniera di intendere lo stesso fatto, una sorta di duplicità dei sensi e una diversa, possibile “narrazione” dello stesso episodio: due vangeli sinottici ma in cui il secondo viene esposto da un testimone oculare “nei cieli”, mentre il primo è il resoconto del testimone sulla terra. E questo potrebbe essere relativamente consueto; solo che in Dossetti, ma è così anche nei vangeli sinottici, i due resoconti sono intercambiabili perché egli dispone dell’una e dell’altra versione che per lui non sono affatto alternative. Oppure, e qui, proprio qui, nasce il politico in lui, Dossetti affida la seconda delle due versioni, quella visibile, ai suoi discepoli nell’ordine politico, salvo a non riconoscerla, o più spesso a riscattarla nell’ordine di cui egli improvvisamente si riappropria.
Non so se i curatori del volume hanno fatto bene a premettere quella conversazione che suggerisce un’interrogazione immediatamente spiritualistica a scritti che potrebbero e forse dovrebbero essere letti con minore partecipazione emotiva: sono infatti anche e soprattutto scritti programmatici. In particolare direi che nella forma della conversazione autorevole la non opposizione aprioristica fra fede e politica che vi viene ribadita suggerisce un carattere di fortuità e di disponibilità all’agire politico che è memoria confidente e consapevole e anche tollerante nei confronti della propria esperienza.
Tre i temi
Infine, il carattere profetico della invocazione finale sulla necessità di riconoscere il mutamento radicale di tutti i modi e i valori del presente, è davvero un segno che a me sembra sopra le righe. E’ vero, tuttavia, che in particolare i saggi finali del volume possono giustificare quella intenzione premessa dai curatori.
Due temi vi figurano con straordinaria evidenza: il tema della chiesa che costituisce l’unico vero oggetto della ricerca e dell’esperienza di Dossetti – la chiesa è l’oggetto primario in cui si manifesta il tempo dell’esperienza politica – e il tema della nuova volitività cattolica, cioè di quella “passione” costruttiva che anima il giovane Dossetti nel suo ingresso nell’attività politica. Un terzo tema, che vi affiora ma che, secondo me, contrassegna in modo ancora più rilevante, e imprime il carattere definitivo a tutta la sua esperienza, è il tema dell’obbedienza.
Dossetti, abbiamo visto, riceve una consacrazione laica, in un secondo tempo obbedisce alla indicazione ricevuta dai suoi superiori di continuare nella prassi politica, malgrado divergenze e difficoltà rilevanti, in un terzo tempo, che non è per nulla finale nel senso di conclusivo, obbedisce alla sua professione di fede monastica, ma questa fede monastica non è alternativa a nessuna delle altre obbedienze.
Così, è davvero la figura del profeta, come colui che per obbedienza parla in nome di qualcun altro e alla cui voce sostituisce la propria, che meglio di ogni altra descrive l’esperienza di Dossetti.
[da il manifesto, 28 giugno 1996]