philosophy and social criticism

La mia colpa, le mie radici

Michele Ranchetti

Nel novembre del 1936 Wittgenstein scrive una lettera all’amico Ludwig Hänsel a Vienna. Scrive da Skjolden dove vive in isolamento quasi assoluto. Si erano conosciuti, lui e Hänsel, durante la prigionia a Monte Cassino nel 1919 e si erano più volte rivisti a Vienna, dove Wittgenstein frequentava l’Istituto per la formazione di insegnanti elementari e anche più volte incontrati nello studio dello scultore Michael Dobril, anch’egli prigioniero in Italia.

Per Dobril, Wittgenstein aveva posato (e ci restano alcuni ritratti a matita, oltre a un bronzo) e nel suo studio aveva modellato quella che è probabilmente l’unica sua scultura: un busto di donna, che si conservava nella casa della sorella. Una bella testa, non caratterizzata da manierismi, semplice e quasi professionale. Con Hänsel, in particolare – come egli stesso testimonierà più volte – erano diventati amici, e a lui Wittgenstein aveva letto il Tractatus ancora dattiloscritto (o almeno una delle sue versioni composte in prigionia). Avevano discusso di filosofia e di etica, e le loro strade si erano avvicinate nella comune decisione di insegnare ai ragazzi. Hänsel continuò la sua attività didattica per tutta la vita acquistando una fama locale non mediocre e provando a aumentarla con la pubblicazione dell’epistolario fra lui e Wittgenstein (che si estende fino alla morte del filosofo nel 1951) insieme con ricordi, lettere e testimonianze di familiari. E’ appunto in questo volume Eine Freundschaft (Haymon Verlag, Innsbruck, 1994) che figura la lettera pubblicata qui accanto, con la confessione. Ed è, credo, la prima versione scritta e pertanto autentica nella sua formulazione precisa, di un documento di cui altri avevano riferito, ma senza riportare le parole stesse di Wittgenstein. In particolare Fania Pascal, che insegnava il russo al giovane Francis Skinner e al filosofo, perché egli non solo intendeva recarsi in Russia ma sembrò intenzionato a restarvi per sempre, per un’altra di quelle cesure radicali, vocazionali e etiche che contrassegnarono la sua vita.

La risposta di Hänsel alla lettera non è di meraviglia, ma di ammirazione (“tu sei sempre di nuovo un uomo magnifico”); lo ringrazia, inoltre, per la fiducia. Non dubita che sia vero ciò che riguarda il suo sangue ebraico, ma – e si scusa – ha sempre saputo che per Wittgenstein è stato difficile accettare le proprie manchevolezze: più difficile che per altre persone perché – ne ha parlato più volte, già nei colloqui di prigionia – con la loro sincerità per le cose piccole altri sono più insinceri di lui con le sue grandi bugie. Ma qui Hänsel aggiunge un suggerimento: se in qualche modo gli valesse come aiuto, Wittgenstein potrebbe mettersi in contatto, per una vera confessione, con una scrittrice norvegese, di cui gli dà il nome.

Hänsel parla di confessione, Wittgenstein, di Gestandis: la prima è quella religiosa, che si fa davanti al sacerdote (o almeno così era ed è nella confessione cattolica, nella quale Wittgenstein era stato battezzato), la seconda è la confessione davanti alla legge, per una colpa civile, non per un peccato. Hänsel, nella risposta, dice poi di rifiutarsi di trasmettere la lettera dell’amico alla moglie e ai figli e ai parenti di lui. Sarà Wittgenstein, in una seconda missiva, a costringerlo a farlo. E Hänsel lo farà. In una terza lettera, del 30 novembre, Wittgenstein gli dice di aver messo per iscritto l’intera confessione e di averla inoltrata alla sorella Mining, quella a lui più vicina, pregandola di trasmetterla ad amici e parenti.

Della confessione nell’epistolario con Hänsel non si fa più parola. Mining ha scritto una storia di famiglia, ricordi ingenui e semplici di tragedie vissute con accorata incomprensione e generosa partecipazione (sono vicende soprattutto di altri) e le difficoltà di Ludwig vi figurano descritte, talvolta con spietato pudore: come quando gli fa spiegare la propria vita come se fosse vista dalla finestra, ed egli sembra una persona che non potendo rendersi conto della bufera che lo colpisce, appare impazzito e insensato nei suoi movimenti; che derivano, invece, dalla necessità di mantenere comunque un equilibrio. Ma della confessione non c’è traccia. Di altre rivelazioni, invece, oppure di quella sull’ebraismo insieme a qualcosa d’altro, si parla spesso nei ricordi degli amici. In particolare, Fania Pascal ne riferisce nelle sue memorie dicendo di aver sentito George E. Moore (che insieme a Bertrand Russell esaminò Wittgenstein a Cambridge, in occasione della tesi di dottorato in filosofia) parlarne con un certo fastidio, come cosa assurda, e tacciando Wittgenstein di impazienza. Ma, appunto, cosa ha a che fare l'”impazienza” con i Principia Ethica? Per Wittgenstein, Moore era “infantile”, rappresentava un esempio di come l’onestà intellettuale possa condurre lontano, in filosofia; ma senza, in un certo senso, rendersi conto di nulla.

Tuttavia, come appare dai ricordi, Wittgenstein ha anche un’altra colpa: quella di aver tirato le orecchie a una scolara (quand’era maestro elementare) e di averne così provocato lo svenimento. Oppure, come sembra più probabile, di aver negato il fatto. Il filosofo subì un processo e risultò assolto. Ma l’assoluzione coincise con la sua rinuncia all’insegnamento nelle scuole. Wittgenstein era violento con gli scolari, come loro stessi mi raccontarono con paura più che con ammirazione. Del suo progetto di insegnare gli elementi originari della realtà naturale (le piante, gli animali, le pietre, i tre regni – il famoso scheletro di gatto) non sembravano ricordare nulla se non di essere stati sottoposti a uno sforzo superiore alle loro possibilità. Che fosse manesco, non era possibile negarlo. Di altre colpe, non c’è traccia nei ricordi e nelle conversazioni. Neppure della sua omosessualità, come era troppo semplice credere, ma non perché quella colpa si situasse a un livello ancora più profondo.

Nel 1936 Wittgenstein era un uomo famoso. La sua unica opera, dal titolo spinoziano di Tractatus Logico-Philosophicus, suggerito da Moore era oggetto di una già vasta letteratura. Aveva concluso un ciclo di insegnamento a Cambridge, e gli scolari avevano potuto “portare a casa”, dettati da lui, Il libro blu e il libro marrone, in sostituzione degli appunti in inglese, del resto subito vietati. Aveva rinunciato alle sue enormi ricchezze in favore dei familiari, poteva vivere in totale solitudine e così scrivere. Nel 1935 era stato in Russia forse per mutare vita un’altra volta, o forse per una “morale politica” di cui quasi tutti i suoi allievi non hanno tenuto alcun conto (ma i suoi giovani amici partivano con le brigate internazionali).

Nel 1936 nessun avvenimento politico sembra avere suggerito la necessità di una confessione civile come quella riportata in questa pagina, e neppure il precisarsi sempre più certo di una persecuzione. Hitler, è vero, aveva già inaugurato i suoi progetti e i suoi campi, ma l’Anschluss sarebbe stato due anni dopo. Certo Wittgenstein “parlava di politica” e si faceva commentare gli eventi da Piero Sraffa (il cui ruolo non è mai stato del tutto chiarito, anche per le vicende italiane). Ma è difficile parlare di un’appartenenza preventiva e di carattere sacrificale, al destino degli ebrei. Del resto Wittgenstein si mostrerà molto abile nel salvaguardare le fortune familiari, riuscendo persino a far dichiarare di sangue tedesco il bisnonno e assicurando la conservazione dell’immenso patrimonio, non più suo, per i fratelli assai meno ascetici di lui. Chiederà senza particolari emozioni di “tradimento” la cittadinanza inglese, che otterrà nel 1939, per suggerimento di Sraffa e intervento di Keynes. E allora, che cosa “significa” la confessione in un contesto non etico e neppure immediatamente civile, tantomeno “religioso”? L’ebreo, per Wittgenstein è forse soprattutto colui che non possiede un talento, ma è capace di far fruttare il germe che è stato seminato in lui, così come – secondo il suo parere – era avvenuto nel rapporto fra Breuer e Freud. Ma nessuno confessa una bugia per essere ricondotto a una appartenenza che ha negato; oltretutto, in un momento, il 1919, in cui non costituiva un valore di differenza. E se la bugia, la negazione delle sue radici per tre quarti ebraiche, è così rilevante per lui, qual è mai la “realtà” di riferimento? E’ una negazione senza contesto, forse accompagnata da altre che non abbiamo. Del resto, anche le sue riflessioni filosofiche, un itinerare riflessivo contro il suo tempo, tendono a non avere contestualizzazione: il che fu per Wittgenstein, una ragione di sofferenza.

[da il manifesto del 30 marzo 1996. L’articolo era preceduto da questo sommarietto: “Pubblichiamo, una lettera, inedita in Italia, in cui il filosofo scrive all’amico Hänsel confessando di avere sminuito le sue radici ebraiche”]