La comunità colpevole
Bruno Accarino
Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1999.
La situazione è imbarazzante, per i molti detriti che si sono accumulati: ecco perché già nel titolo dell’ultimo lavoro di Roberto Esposito si parla di communitas e non di comunità. Bisogna raccontare una vicenda che non dispone degli appigli consueti e che al massimo passa cursoriamente per Ferdinand Tönnies, il fondatore della sociologia classica tedesca che mise a punto (sullo sfondo di grandi nomi a lui contemporanei, valga l’esempio di Otto von Gierke) il paradigma comunità/società, e al quale si è soliti richiamarsi in questi casi quando si cerca, appunto, un paradigma. Anche in questo caso, del resto, non bisogna esagerare nello scrollarsi di dosso la polvere dei classici, perché Tösnnies perviene a quella sintesi nel corso di una biografia che annovera circa cinquant’anni di più o meno assidua attenzione all’opera di Hobbes e parecchie incursioni nella modernità politica (tra l’altro su Spinoza, se la cosa può incuriosire): e con questo pedigree difficilmente si prendono grandi cantonate.
Resta il fatto che questa strada, che è quella della comunità come appartenenza, sembra ormai portare in un vicolo cieco: è diventata appannaggio o di una nostalgia dell’origine oppure di orientamenti neo-comunitari che, pur di salvare la solidità del legame sociale, non disdegnano approcci venati di differenzialismo etnico e di simpatie nativistiche non sempre al di sopra di ogni sospetto. Per spezzare questa condizione di inerzia è necessario ricorrere alla famiglia concettuale che si costruisce attorno al termine munus. Quando si raccolgono tutti gli elementi direttamente o allusivamente presenti in questo termine – ufficio, impegno, carica, onere, gravame fiscale, dono -, al tirar delle somme ciò che si è dissolto è proprio quel vincolo di appartenenza che sembrava indissociabile dalla comunità. Si scopre allora che l’origine non è in un pieno, ma in un vuoto: non solo non è possibile identificare una socialità primigenia, una solidarietà arcaica poi liquefatta dall’avvento della proprietà privata e dal disfacimento di piccole entità a forte base collettiva, ma emerge il veleno del munus. Che è poi la ragione per la quale esso produce conflitti invece che ordine sociale: infatti il munus non è un dono qualsiasi, ma quel dono irrifiutabile che viene sempre dall’alto e che non può mai liberarsi di una componente autoritativa e impositiva. La grande popolarità che arride oggi alla dialettica del dono non vede questo contraccolpo capace di rovesciare le cose.
All’origine vi è quindi un debito – una colpa -, una condizione deficitaria, un peso che la modernità si ingegna di neutralizzare con dispositivi di annullamento del munus. Scatta così un immenso processo di immunizzazione che coincide con la formazione della libertà dei moderni. Ad una patologia segue un’altra patologia: nel primo caso avevamo una comunità vincolante e tutt’altro che innocente, con effetti espropriativi ed estranianti, nel secondo caso abbiamo una piramide sacrificale che non esita ad infrangere tutte le forme relazionali pur di eliminare quello stare-insieme degli uomini segnato da quel vaso di Pandora che è il munus. Paradossale, per di più, è che a fronte di un’origine così spuria e maledetta si cerchi ostinatamente – e sanguinosamente, perché la comunità, a cominciare dalla weberiana “comunità di guerra”, è spesso sporca di sangue – la benedizione catartica dell’unicità etnica, della compagine mitica di tradizioni e costumi immemoriali e unificanti, dell’autenticità profilatticamente intatta. Laddove la comunità è, sin dall’inizio, contagio e contaminazione.
Il plurisecolare conflitto tra Aristotele e Hobbes, tra il codice genetico della socialità e quello della dissocialità, tra l’amicizia e la guerra, tra la convivenza armonico-“repubblicana” e la mera coesistenza di individui reciprocamente ostili, esce con un volto rinnovato dall’impostazione di Esposito. A partire da queste acquisizioni preliminari prende le mosse un viaggio che abbina ad alcune parole-chiave altrettanti nomi: la paura (Hobbes), la colpa (Rousseau), la legge (Kant), l’estasi (Heidegger), l’esperienza (Bataille). Accade così, per esempio, che i due avversari storici per eccellenza, Hobbes e Rousseau, l’uno fondatore della linea continentale della rappresentanza politica centralizzata e unificata, l’altro teorico dell’impossibilità di rappresentare la sovranità, si trovino invischiati a tratti nella stessa logica di partenza. In un certo senso la proposta unitaria che affiora dal libro è questa: applichiamo alla comunità quella stessa griglia immunitaria che la modernità ha usato per le sue zone a rischio, sgraviamola dei troppi e disparati significati valoriali che abbiamo voluto attribuirle. Riprendiamola sul versante della sua ultimità ontologica. C’è una porta stretta, dice Esposito, che ci allontana dalle soluzioni più comode e corrive ma che potrebbe superare la condizione di stallo teoretico nella quale ci troviamo: è l’accettazione della prossimità di comunità e morte, al di fuori di una linea abbarbicata alla sopravvivenza e all’autoconservazione. Smettiamola di cercare un proprium smarrito del quale dovremmo riappropriarci: questa pia intenzione non è compatibile nemmeno con i percorsi archeologicamente ricostruibili della comunità, figuriamoci con quelli oggi praticabili. Accettiamo la nostra finitezza di esseri identitariamente esangui. Se il punto di partenza fosse non l’uomo come essere difettivo, secondo un prototipo antropologico che arriva fino a Gehlen e che sollecita la progettazione di strategie artificialistiche che consentano almeno di stare-insieme senza uccidersi l’un l’altro, ma l’esuberanza energetica, il dispendio gratuito, l’inoperosità spermatica intravista da Bataille e dopo di lui da Jean-Luc Nancy, la scena muterebbe.
Tornerò in altra sede su alcuni passaggi analitici passibili di sviluppi. Qui mi consentirò un solo accenno: quando Heidegger accetta la bocciatura agostiniana della curiosità – acido corrosivo per ogni assetto comunitario -, non c’è in lui la grandezza, sia pure tragicamente deforme, di chi cede ad una tentazione mitologica accingendosi a piegarsi alla comunità nazista di “sangue e suolo”, ma, più malinconicamente, l’avarizia e la pavidità del conservatore puro. Ma queste sono sottigliezze. Più vistoso, quando si riconduce la communitas ai suoi termini ontologici, è un altro interrogativo: qual è l’interesse materiale – che può essere anche un interesse culturalmente determinato – che ci spinge a ripensare la comunità? Possiamo prescinderne?
Farò due esempi opposti, il primo filo-comunitario e il secondo anti-comunitario. Una sensibilità femminista americana e multiculturalista può avere interesse per la comunità perché sospetta che tutto ciò che nella modernità si è organizzato contro la comunità si strutturi nel segno di una cancellazione delle differenze: soggetto atomizzato perché astratto e astratto perché atomizzato, ma tutt’altro che privo di un segno riconoscibile di potere. L’esempio opposto è in una domanda provocatoria: e se Pietro Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri fossero andati in galera per un eccesso di comunitarismo? Se cioè si fosse determinato – nella “normale” divisione di poteri autonomi – uno squilibrio a favore degli aspetti extragiuridici e metagiuridici e a discapito degli aspetti giuridico-formali dell’intera vicenda giudiziaria? Se si fosse innescata una dinamica in forza della quale la magistratura si è sentita come un corpus o come qualcosa di simile ad un body politic? Quante volte la comunità ha recuperato una compattezza sia pur fasulla, e ritrovato un’identità sia pur evanescente, mettendo a punto un meccanismo vittimario?
Non voglio addurre argomenti a favore né dell’uno né dell’altro pregiudizio, anche se ho sempre pensato che chi sta contro Hobbes ha buone possibilità di – prima o poi – travailler pour le fascisme, come ebbe a dire una volta, ad altro proposito, Walter Benjamin. Ma diciamo la verità: quando si parla di comunità, è difficile che la carne non si senta coinvolta e che venga rispettato quel canone di sobrietà, di freddezza e di impregiudicata radicalità filosofica a cui ci invita Esposito. Come se non bastasse, la fruibilità politica di una riflessione sulla comunità – con uno Stato sociale che cade a pezzi giorno per giorno – è fatta di tempi molto nervosi. Temo che il sapere filosofico dovrà accontentarsi, ancora una volta, della nottola di Minerva.
[tratto da la Talpa libri, 14 maggio 1998]