philosophy and social criticism

Antichi e moderni, il primato spetta a Cartesio

Marco d’Eramo

Non c’è ricerca sulla storia del concetto di “progresso” che non consideri un momento decisivo e di snodo quel brevissimo testo che è la Digression sur les anciens et les modernes scritta da Bernard de Fontenelle nel 1688. Tale la considerano per esempio Reinhart Koselleck e Christian Meier nel loro libro Il progresso (trad. it. IlMulino, 1995). E già nel 1932 John Bury, nella sua classica Storia dell’idea di progresso (trad. it. Feltrinelli 1964) dedicava un intero capitolo a Fontenelle affermando che egli “aveva formulato, in un breve trattatello, i tratti essenziali della dottrina del progresso della conoscenza”.

E si capisce bene il perché, a rileggerlo oggi nella traduzione italiana con il testo a fronte curata e introdotta da Alfonso M. Iacono (B. de Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, manifestolibri, Roma 1996). Vi appaiono molti temi che saranno ricorrenti nei secoli successivi. Compare per esempio l’idea secondo cui le differenze tra i popoli sono dovute alle differenze climatiche, un’idea che conoscerà un radioso futuro, da Buffon a Herder ad Alexander von Humboldt nella variante per cui i selvaggi sono tali perché ai tropici la natura è tanto abbondante da spingerli alla pigrizia impedendogli così di progredire.

In Fontenelle l’influenza del clima viene tirata in ballo in una forma molto più arguta: gli antichi erano migliori di noi solo se gli alberi antichi erano più grandi di quelli moderni, solo cioè se c’era qualcosa nell’aria e nel clima che faceva crecere meglio i cervelli e le loro capacità.

Forse non ci soffermiamo abbastanza sulle date e sull’enormità del fatto: solo tre secoli fa (1688) era necessario polemizzare per sostenere che gli antichi non erano più grandi dei moderni! Vuole dire che 300 anni fa c’erano ancora molte persone sinceramente convinte della superiorità degli uomini antichi sui moderni e quindi della civiltà classica sulla nostra. La cosa diventa ancora più paradossale se si pensa che è proprio questa fede nella superiorità degli antichi, da parte degli umanisti e nel rinascimento, a innescare, scatenare quel progresso rapido che ha reso la nostra civiltà e le nostre conoscenze infinitamente superiori a quelle classiche.

Un altro tema ricorrente che appare nella Digressione è il paragone tra la storia di un popolo e la vita di un solo uomo, un paragone già formulato da Bacone, ma a cui Fontenelle impone un limite fondamentale: “E’ un peccato non poter spingere fino in fondo un paragone così suggestivo, ma sono costretto a confessare che quell’uomo non avrà mai vecchiaia”, cioè, “per abbandonare l’analogia, gli uomini non degenereranno mai e le opinioni sane di tutti gli spiriti arguti che si succederanno, si aggiungeranno le une alle altre”. Ecco formulata l’idea di un progresso indefinito basato sull’accumulo delle conoscenze. Un progresso di cui, dice perfidamente Fontenelle, bisogna essere grati agli antichi: “noi siamo in debito con loro perché hanno esaurito la maggior parte delle idee false che si potevano pensare”, “così, rischiarati dalle opinioni degli antichi, e anche dai loro errori, non soprende se li sorpassiamo”.

Con grande acutezza Fontenelle individua nella matematica e nelle scienze naturali il nucleo duro della superiorità moderna sugli antichi e l’eroe di questo sorpasso è per lui Cartesio di cui però apprezza il metodo più della filosofia: è Cartesio “che ha portato questo nuovo metodo di ragionare, molto più apprezzabile della sua stessa filosofia, di cui una buona parte risulta falsa, o assai incerta, proprio in base alle regole lui che ci ha insegnato”.

Ma dove si esprime meglio l’ironia e la capacità di scrittura di Fontenelle è nell’imprevista conseguenza che l’idea di progresso indefinito produce, e che cioè un giorno, dopo un numero sufficiente di secoli, saremo noi gli antichi di quei moderni. E allora, dice Fontenelle, prendendo in giro chi sostiene la superiorità degli antichi sui moderni di oggi, “possiamo sperare che nei secoli a venire saremo ammirati all’eccesso, per ripagarci della poca stima che si ha di noi nel nostro. S’ingegneranno allora a trovare nelle nostre opere delle bellezze che non ci erano passate neanche per la testa; e quel tale errore imperdonabile, e che oggi l’autore riconoscerebbe, troverà dei difensori d’un coraggio incredibile, e Dio sa con quale disprezzo saranno trattati le grandi menti di quei tempi là, che potranno ben essere degli Americani”. Che spirito profetico!

Ma, scherzi a parte, c’è una lezione di Fontenelle che non andrebbe mai dimenticata, e cioè che non bisogna aspettare che la patina della storia ricopra di polvere le opere dei contemporanei per scoprire i geni e i grandi del nostro tempo, mentre invece dobbiamo guardare i nostri coetanei con quell’occhio pronto all’ammirazione con cui scrutiamo nel passato: “sono persuaso che noi siamo come i gran signori, che non sempre si danno la pena di tenere registri esatti dei loro beni e ne ignorano una buona parte”.

[da la Talpa libri, 13 marzo 1997]