L’ampolla di Bossi, ovvero l’invenzione di un cerimoniale
Alfonso M. di Nola
Bossi, molto fantasiosamente, ha tentato di ritualizza re la pretesa scissione ricorrendo a un cerimoniale inventato, quello delle ampolle o caraffe di acqua del Po. Avrebbe voluto così stabilire sacralmente la divisione della cosiddetta Padania dalle altre regioni del Paese. Indipendentemente dalla sua inconsistenza storica, questo atto, destinato a sancire dei confini, è presente invece, in forme consolidate in tutta la storia antica e in quella etnologica ogni volta che l’esigenza di tutelare dagli estranei il proprio territorio diviene una vera e propria solennità religiosamente fondata. Già presso le popolazioni cosiddette primitive, dove molto intenso è il sentimento di protezione del proprio territorio, in assenza di mura che lo difendano, si provvede a circondare il centro abitato del villaggio da una zona forestale il cui ingresso è rigorosamente vietato. Le sanzioni contro i violatori delle norme sono spesso molto dure e originano vere e proprie battaglie fra gli abitanti del villaggio e gli invasori. Questo comportamento accompagna e ha accompagnato nei secoli la colonizzazione, nella quale gli indigeni si sono spietatamente opposti all’ingresso dei coloni bianchi.
Ma il fenomeno assume forme decisamente ritualizzate dove città e villaggi sono circondati da mura, le cui porte restano invalicabili. Forse la forma più arcaica è quella che accompagna la collocazione dei cosiddetti termini nelle campagne coltivate. Fin dall’antichità gli Etruschi ponevano, a divisione delle zone possedute, termini in forma di erme, quasi sempre accompagnate da un fallo che era venerato e adornato di ghirlande in occasione di alcune feste annuali. Gli antichi agrimensori, i cui testi sono stati raccolti in un’opera pubblicata nel secolo scorso, riferiscono riti e leggende che accompagnavano nei territori etruschi l’apposizione dei termini e trascrivono minutamente la formula maledittoria contro i violatori di essi. Il contesto arcaico residua nell’attuale cultura folklorica italiana nella quale si ritiene che chi abbia spostato un termine, appropriandosi di terreno altrui, sarà assoggettato a un’agonia lunga che cesserà solo quando un termine sarà portato accanto al suo letto.
La storia di Roma, così come è narrata nei classici, riferisce che la città quadrata apparve completa solo quando intorno ad essa, al di là delle mura venne tracciato il pomerio, un tratto di terreno formato a mezzo di aratro che veniva sollevato a mano nel punto corrispondente alle porte: onde l’etimologia popolare secondo la quale tale spazio non arato assunse il nome di “porta” perché per ottenerlo “portavano” o sollevavano a mano l’aratro. L’intero pomerio, forse significante “al di là delle mura”, era luogo fortemente sacrale, non vi si potevano gettare immondizie né vi si poteva camminare. Gli stessi usi erano presenti nella Grecia antica: i cadaveri e le cose impure erano gettate al di là delle mura.
Tuttavia i Romani e altre popolazioni italiche ebbero dagli Etruschi un altro sistema per definire e chiudere il proprio spazio cittadino. Antichissimo è il collegio di venti sacerdoti detti feziali preposti alle procedure di guerra e di pace e alla definizione dei confini, presente ancora all’epoca di Augusto. Quando occorreva entrare in un villaggio o una città italica, durante il lungo processo di unificazione del periodo più antico della storia romana, due feziali si portavano presso la porta della città da sottomettere, uno con un’asta insanguinata, l’altro con un fascio di verbena raccolto sull’arce capitolina. Entrati nella città chiedevano ai capi di essa se intendessero accettare il dominio di Roma e concedevano 30 giorni per la risposta. Trascorsi i quali i due feziali, in caso di risposta negativa, gettavano la lancia nel territorio estraneo iniziando così la guerra; ma, quando la risposta era positiva, tracciavano i nuovi confini del territorio romano uccidendo una porca e apponendo la verbena sulla testa del capo che si era sottomesso. Così Roma assoggettò tutte le etnie italiche, inserendole nel territorio della repubblica e consacrandone lo spazio di divisione.
Quando la conquista così gestita riguardava un popolo molto lontano e non era possibile mandarvi i feziali, questa cerimonia era compiuta a Roma in uno spazio considerato non appartenente alla città. Presso le popolazioni italiche, per esempio ad Alatri e Ferentino, la sacralizzazione delle mura, dette ciclopiche, era affidata a un diverso espediente: lungo i grandi massi che le costituivano erano inseriti falli di pietra che, per il loro potere fecondante e apotropaico, non solo allontanavano siccità e disastri naturali, ma difendevano la popolazione dagli attacchi nemici.
Presso i Germani le credenze relative ai confini sono molto ricche e le zone confinarie, specialmente se rappresentate da ponti, erano luoghi di feste annuali, cui partecipavano i bambini. Nel Medioevo, nell’influenza di questi precedenti antichi, i confini furono rappresentati dalle mura dei castelli. Solo l’abbattimento dei castelli o la loro conquista comportavano la necessità di tracciare nuovi spazi confinari che includevano le fortezze conquistate, dando così origine ai vasti territori nazionali e alle zone di frontiera che hanno perso ogni aspetto sacrale e cerimoniale.
[da il manifesto, 31 ottobre 1996]