Viaggio nell’irrealtà
Marco Dotti
Eloy Urroz, Las Rémoras, traduzione di Grazia Bruttocao, postfazione di Jorge Volpi, Monboso edizioni, Pavia 2005.
Anche quel primo lunedì di agosto Ricardo Urrutia si nascose nell’armadio. Da tre mesi – tanti ne erano passati dalla morte del padre – aveva preso l’abitudine di spiare sua madre da una piccola fessura tra le pareti e il legno. Ogni sera, con le stesse modalità, senza eccezioni, Urrutia dava corpo a quel suo bizzarro, forse insensato, di certo ambiguo rituale. La donna, seduta sul letto, veniva osservata in ogni suo movimento. Piangere, leggere, ridere, uscire dalla stanza e farvi ritorno, stringere a sé gli abiti del marito, cercare il suo profumo tra indumenti sempre lindi e coperte desolatamente vuote erano gesti che Urrutia conosceva a memoria e, come un suggeritore durante una recita senza colpi di scena, ogni volta ne anticipava mentalmente o sottovoce la successione. Dopo averla osservata a lungo, dedusse che anche sua madre doveva essere vittima di una passione perduta, qualcosa, in altri termini, sempre sul punto di tramutarsi in ossessione e che, soprattutto, la sconvolgeva al punto tale da rubarle, più che la dignità, ogni ordinaria nozione della realtà e del tempo. Nascosto fra camicie mal stirate e le pagine dattiloscritte del suo ultimo lavoro abbandonato tra le mensole, lo scrittore Urrutia capiva allora che il piccolo guardaroba di legno erano diventato la sua unica finestra sul mondo, e quel diorama domestico si sarebbe, col tempo, comodamente trasformato nel «rifugio accogliente, chiuso all’esterno» da cui rubare attimi di dolore alla madre e in cui proteggersi dai suoi, dai loro, ricordi.
Proteggersi dai ricordi, come ci si protegge dai rumori che possano turbare l’equilibrio irreale di questa messinscena involontaria, di questa altra realtà, diventa, allora, la sua principale preoccupazione. Proteggersi, soprattutto, dalla «tentazione del pudore» o dall’idea, parimenti malsana, di ritrarre lo sguardo, proprio come sua madre «si proteggeva dalla sua paura con il sudore di mio padre». Io, confessa Urrutia, «non avevo il ricordo di quell’odore; non lo distinguevo, potevo invece riconoscere solamente quello di lei. Il resto non mi importava». La scena indiretta, paradossale e crudele, attraverso la quale Urrutia riattiva la memoria fisica del padre, assume man mano un risvolto «cinico e teatrale», soprattutto quando, con un solo gesto, improvviso e «ironico», immotivato ma prevedibile, come una mano passata tra i capelli, la donna «riusciva ad annullare la realtà o almeno a mascherarla». Eppure anche questa «nuova realtà sovrapposta risultava impossibile da accettare e del tutto assurda», come assurda era «l’esibizione che faceva per se stessa e per nessun altro». Prende avvio dai piani molteplici di questa ossessione quotidiana Las Rémoras, romanzo complesso e strutturato a incastri con cui, nel 1996, il messicano Eloy Urroz si è fatto conoscere come uno dei migliori esponenti del movimento del Crack, movimento in cui figurano anche autori già noti e tradotti in Italia, come Jorge Volpi e Ignacio Padilla. Corrente di un’avanguardia tesa a valorizzare lati oscuri e misconosciuti della letteratura ispano americana, al pari di altri giovani autori latinoamericani gli esponenti del Crack contestano l’«eccessiva invadenza del cosiddetto realismo magico». Movimento di rottura – da qui il nome – il Crack tende a privilegiare un rapporto di «participación activa» tra lettore e autore, piuttosto che lo stupore davanti a opere mirabili ma scarsamente “fruibili”, attraverso una sperimentazione tutta interna al genere e alla forma del romanzo, avendo come obiettivo una scrittura che coltivi e persegua una concreta «leggerezza», nell’accezione data da Calvino a quest’ultimo termine. Lavoro sperimentale, dunque, ma di gradevolissima lettura, il romanzo di Urroz tratta di irrealtà possibili, di sentimenti ambivalenti, di «impossibilità credibili» e, soprattutto, di donne, delle loro solitudini e dei loro tutt’altro che magici salti nel vuoto. Sono molte, infatti, le figure e i ruoli – dalla madre alla moglie, dalla balia alla prostituta – che lo scrittore declina al femminile sulla scena del villaggio immaginario, idealmente collocato tra il Messico e la Bassa California, che dà il titolo al libro. Più che a Macondo, las Remoras appare vicino alla Santa María descritta negli anni Sessanta da Juan Carlos Onetti, vero e proprio «nume tutelare del romanzo». «Paese più o meno vicino, più o meno lontano», città ombra e doppio di un luogo parimente irreale posto chissà dove, forse «un giorno Las Remoras apparirà da qualche parte». E da qualche parte apparirà pure il protagonista, Ricardo Urrutia, uno scrittore – rassomigliante più a un complesso doppio di Urroz, che al suo banale alter ego – che all’improvviso scopre di aver smarrito per strada la propria giovinezza e la propria innocenza e si accorge che, nella sua stessa città, un altro romanziere, Elías, sta scrivendo le stesse cose, pensando alle stesse pagine, progettando lo stesso libro improbabile sul medesimo argomento su cui egli si stava arrovellando. Ma, perdendosi nel gorgo delle sue manie, Urrutia scopre che la realtà di Las Remoras è fatta di una sostanza diversa, apparentemente sconosciuta al mondo fisico, la stessa sostanza poetica di cui sono fatte e si nutrono le sue storie. Storie fatte – a loro volta – di molte altre storie e di una congerie infinita di figuranti che le compenetrano, vi si confondono, mischiano le proprie passioni, creano legami affettivi o grovigli di parole e infine svelano i tanti volti – non necessariamente esotici – di una realtà che, per essere tale, non può che sfuggire continuamente di mano.