philosophy and social criticism

Violenza (e forza)

Cesare Donati

La violenza appartiene al mondo del reale e sarebbe ipocrita ignorarla, ingenuo nasconderla, ascientifico valutarla prima di averne tentata una analisi. Analisi che può prendere avvio, nell’ambito che ci interessa, solo da una critica di metodo.

Il discorso giuridico, infatti, sembra estromettere la violenza proprio quando le attribuisce luce assiologica, incorporandola come “forza”; ma e proprio qui, nella definizione del crinale tra forza e violenza che si colloca, imperiosamente ora, il concreto contrapporsi di diritto e non diritto, di legalità e di non legalità, di giuridicamente qualificato e di inqualificato. È proprio questo tema del crinale, della separazione irriducibile che riconduce, passando ora per la durezza del reale, alla concezione del sistema giuridico come universo chiuso e, in qualche modo, “completo”.

Allora sembra utile riandare con la mente al grande teorico del mondo chiuso e finito, e ricordare che già nell’ambito della sua concezione della natura, Aristotele aveva distinto movimenti fisici secondo natura e contro natura ovvero per violenza. L’analogia, pur nei suoi limiti proprii, ci fa riflettere sul fatto che una teoria generale della completezza e della (auto) sufficienza di un sistema esige il riferimento a una sua specifica – e sottintesa  physis: la natura-sostanza in Aristotele (Metaf. 1015-a 19), la società-dover essere nel pensiero giuridico borghese. È con tale assoluto che s’ha da fare i conti per tracciare il confine tra violenza e forza.
«La concezione metafisica del diritto è assunta come presupposto» infatti «nel caso in cui si affermi che esso è “garantito” dalla forza»(K. Olivecrona), e tale concezione del diritto “garantito” dalla forza è propria – in generale – della cultura borghese che afferma pretesa monopolistica di “eticità”, delle sue leggi, intese   – e al proletariato imposte – come Legge. Norme morali e norme giuridiche si distinguerebbero, essenzialmente, attraverso la così detta coercibilità – le seconde – e per l’inscindibile alleanza di norma giuridica e forza. Ma tale punto di vista appare ingenuo e troppo politicamente scoperto (poco puro e sempre meno mistificabile) ad Hans Kelsen che lo critica per giungere ad asserire che se «… il diritto non può esistere senza forza però non si identifica con la forza» (e questa era viceversa l’inevitabile conclusione cui il trionfalismo teorico dei giuristi ottocenteschi conduceva). Kelsen ha ben chiaro che simile conclusione troppo immediata svela eccessivamente il volto del potere, e giunge ad affermare allora, modificando l’impostazione del problema, che il diritto “è un certo ordinamento (o una certa organizzazione) della forza”. Dunque avremo: forza che procede dall’azione, quella legale e forza semplicemente, atto illegale. In Kelsen il mito idealistico dell’ordine è chiaro nel 1934 («..le prigioni e le fortezze, le forche e le mitragliatrici, sono di per se oggetti inanimati. Si trasformano in strumenti della forza dello stato soltanto quando gli uomini sono determinati dalle rappresentazioni di questo ordinamento e dalla credenza di dover agire conformemente ad esso»), ma si fa progetto più realistico nel 1960 quando vede che «… fortezze e prigioni, cannoni e forche, uomini in uniforme di soldati e poliziotti… divengono strumento del potere statale soltanto nella misura in cui gli uomini ne fanno uso in conformità agli ordini loro impartiti dal governo, nella misura in cui i poliziotti e i soldati obbediscono alle norme che regolano il loro comportamento». Dunque forza “ordinata” è quella legale e forza non ordinata (usata come sinonimo – che non è – di “disordinata”) quella illegale. Equivalente di forza illegale (non governativa) vale allora “violenza”.

Ma il problema del rapporto tra diritto e forza sembra mal posto, i termini non sono omogenei; più corretto invece il problema del rapporto tra violenza e forza, e allora, in relazione a queste, il ruolo “trasformativo” che ordinamento e autorità svolgono. Se è vero che «in tutto il dominio del diritto le disposizioni legislative vengono, in ultima analisi, applicate per mezzo della forza fisica e della violenza» (K. Olivecrona) allora e lecito proporre un mutamento di prospettiva e chiedersi se non sarebbe più corretto – e se non darebbe luogo ad una lettura meno tautologica dei teorici – dire così: la violenza ordinata (sia nel senso normativo di preveduta da un ordinamento, sia nel senso descrittivo di sottoposta e attivata da ordini superiori) e perciò di una autorità  qualificata è detta “forza” e la violenza non ordinata (o ordinata da altri “ordinamenti” e/o altre “autorità” che non siano statali) è detta breviter “violenza”.

Allora rileggendo Kelsen potremmo dire che “il diritto è un certo ordinamento e una certa organizzazione della violenza”, e aggiungere che attraverso la mediazione (normatività) di tale ordinamento e la sintesi di tale organizzazione (autorità) viene elevata – non stiamo qui a cercar di comprendere quanto metafisicamente o magicamente – a dignità di “forza”.

Un approccio teorico al problema tale da evidenziarne la fondamentalità della violenza è fornito da K. Olivecrona che sulla violenza scrive: «Quanto più è nascosta, tanto meglio la macchina della giustizia riesce a funzionare, dolcemente e senza scosse. Molti Stati moderni sono riusciti ad ottenere risultati che hanno del prodigioso… l’uso manifesto della violenza è così ridotto da passare quasi inosservato. Un simile stato di cose tende a creare la convinzione che il diritto rifugga dalla violenza… Ma si tratta di un’illusione fatale». La presunta non violenza del potere, che può essere mistificata come sua “forza morale”, è possibile solo come eccesso di violenza, ridondanza costitutiva di un rumore di fondo così elevato da parere silenzio.

Anche un teorico avveduto come Alf Ross («il diritto nel suo insieme determina non solo, nelle norme di condotta, sotto quali condizioni sarà predisposto l’esercizio della forza, ma anche le pubbliche autorità… competenti ad ordinare l’esercizio della forza») accetta di partire da “forza” – e ne assume così sin dall’origine la valenza giuridica – anziché farne il punto di arrivo del processo
di legalizzazione della violenza.

Elemento comune a tale tipo di impianto teorico è che il passaggio da violenza a forza è fatto apparire come “progresso” conseguito attraverso un processo di razionalizzazione; ma tale “progresso” concreta un modello di società concorrenziale pura ove la “doverosità” indotta dal meccanismo è quella dell’accumulazione di capitale e di potere. La Ragione che procede alla razionalizzazione della violenza non è distinguibile dal modo di produzione e dalle sue crisi; ispirata al modello delle matematiche e delle geometrie, della retribuzione e del reticolo, alla coercizione del discreto calata sul continuo e sul fluire. È essa stessa ragione violenta, finalizzata alla costrizione e al dominio. Dal dominio sulla natura al dominio sugli uomini, il modello galileano e assunto da Hobbes; e infatti «il fondatore del moderno concetto di violenza è Hobbes, la sintesi da lui determinata qualifica per un mondo avvenire intero (il mondo borghese e capitalistico) la violenza come organizzazione della rinuncia e del sacrificio, come organizzazione dell’approvazione regolata della ricchezza ai fini dell’accumulazione. La violenza è la mediazione tra la rinuncia di tutti e l’appropriazione di pochi». {A. Negri).

La legge illuministica non potrà non recare seco aspetti di inumanità, avversione nei confronti del piacere, ideologie comunitario-popolari, idolatria della produttività economica. Così è di poi sufficiente che una fase di crisi si manifesti perché la forza-violenza legalizzata regredisca immediatamente a violenza legale, «applicazione burocratica di mezzi violenti o brutali, legislativamente prestabiliti e istituzionalizzati… ideologicamente giustificati con ‘ragioni’ di Stato, di religione, di ordine pubblico e sociale». (I. Mereu).

La ragione profonda della tendenza alla trasformazione negativa della “forza” del diritto è proprio da ricercare nella sua inestricabile – e valorizzata – connessione con la violenza, e non solo quella delle fortezze e delle forche tranquillamente citate da Kelsen, ma anche, e ancor prima, quella degli “ergastoli mitigati”, delle fabbriche e dello sfruttamento. Non è quando la sua razionalità decresce che ritorna alle origini, ma quando, nello sforzo di dominare gli uomini, si perfeziona. E quanto sottile ed effimera sia la mediazione normativa tra violenza e forza appare anche come «discredito della ragione», come svelamento della sua applicazione alla repressione di bisogni e speranze di libertà.

Per questo appare ben poco attendibile l’enunciato soreliano («il socialismo deve alla violenza gli alti valori morali con i quali porge la salvezza al mondo moderno») quanto il socialismo così detto reale ove l’ordinamento giuridico come mediazione tra forza e violenza ha acquisito nuova forza e dove il problema della violenza legale si ripropone come problema. «Ancora una volta però il ricorso della violenza legale non è che il ripercorrere la vecchia strada, usando – con differenti motivazioni ideologiche – gli stessi strumenti che, sempre impiegati, sempre hanno fallito, e che hanno trasformato la storia in una danza omicida fra opposte violenze (legali e illegali), e hanno sempre dato una risposta ‘deviante’ e ‘impropria’ alle questioni sociali e politiche insolute, e alle molte speranze deluse». (Italo Mereu)

[Tratto da: Cesare Donati, a cura di, Dizionario critico del diritto,  Savelli, Perugia 1981]