Un corpo a Rodez
M. D.
Carlo Pasi, La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Bollati-Boringhieri, Torino 1998.
Secondo Michel Camus, la «dramaturgie intime» di Antonin Artaud ( Marsiglia, 1896 – Ivry-sur-Seine, 1948) risulterebbe già chiaramente delineata e leggibile nella sua corrispondenza giovanile con Jacques Rivière. [I]
Composta da undici lettere, di cui sei a firma di Artaud (allora ventisettenne) e cinque a firma di Rivière, che vanno dal 1 maggio 1923, all’8 giugno 1924, la correspondance nacque in occasione del rifiuto, da parte di Rivière, di pubblicare sulla rivista da lui diretta – La Nouvelle Revue Française– alcune poesie di Artaud.
Su questo rapporto s’interroga una parte (determinante) della raccolta di saggi La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett che Carlo Pasi (già autore, tra l’altro, di Sade, Artaud, Bulzoni, Roma 1979; Artaud e Van Gogh, in: Scritti in onore di Giovanni Macchia, Mondadori, Milano1983, pp. 913-932; Artaud attore, La casa Usher, Firenze 1989) ha dedicato ad una complessa ricerca sul sistema della «comunicazione a base di shock».
Nell’economia del rifiuto, sentirsi respinto, scrive Pasi, non riguarda il fatto di vedere o meno pubblicate le proprie poesie, ma «investe il problema più essenziale della propria esistenza stravolta da un male radicato che, dal piano personale, dovrebbe trasporsi su un piano più ampio, di coinvolgimento e di ascolto». [II] È in gioco, quindi, non tanto la velleità artistica di uno scrittore, ma la capacità di presentarsi -anche sul piano letterario- integralmente, in tutti quegli «squilibri (…) che inevitabilmente la scrittura avrebbe rivelato». «Je suis un homme qui a beaucoup soffert de l’esprit, et a ce titre j’ai le droit de parler» («Sono un uomo che ha molto sofferto dello spirito, a questo titolo ho diritto di parlare», post scriptum alla lettera di Artaud a Rivière del 29 gennaio 1924), è il dolore, commenta Pasi, «ad esigere che venga lasciata una traccia della sua esistenza»(p. 96), e l’uomo-Artaud, in lotta con questo dolore, deve vincere il rischio del silenzio, strappare al vuoto frammenti di esperienza sofferta, lembi di verità sconnesse,
cercando di mantenere quell’irrevocabilità della scrittura a cui la ricerca di sé lo costringe.
Il rifiuto iniziale di Rivière contribuisce, nell’interpretazione di Carlo Pasi, alla costruzione di quello spazio “dialogico-analitico” che permette ad Artaud di instaurare un dialogo “transferale” in almeno sue sensi. In primo luogo, operando in lui interiormente, nella direzione di uno “scavo” nella profondità della propria disconnessione tra pensiero e linguaggio. In secondo luogo, nel senso di «un’esposizione orizzontale delle proprie ricognizioni mentali all’ascolto altrui».
Alla proposta di Rivière, che suggeriva l’ipotesi di pubblicare le lettere corredandole di frammenti poetici o di prose, dando ai protagonisti dello scambio nomi inventati, Artaud replica con forza, ribadendo le ragioni stesse della sua ricerca poetica e della sua radicalità esistenziale: «pourquoi mentir, pourquoi chercher à mettre sur le plan littéraire une chose qui est le cri même de la vie, pourquoi donner des apparences de fiction à ce qui est fait de la substance indéracinable de l’âme, qui est comme le plainte de la réalité?» («Perché mentire, perché cercare di porre sul piano letterario una cosa che è il grido steso della vita, perché dare apparenze di finzione a ciò che è fatto della sostanza inestirpabile dell’anima, che è come il lamento della realtà ?», Artaud a Rivière, 25 maggio 1924). Non è, però, l’identificazione letteraria che interessa Artaud («non tengo a firmare le lettere col mio nome»), ma la registrazione fedele della crudeltà originaria del suo percorso, l’assoluta aderenza al vissuto, la chiara impossibilità di mistificare i fatti: «nous avons le droit de mentir, mais pas sur l’essence de la chose» («abbiamo diritto di mentire, ma non sull’essenza della cosa»).
La correspondence fu effettivamente pubblicata, nel settembre 1924, sul numero 132 della Nouvelle Revue Française, siglata con le iniziali di Rivière e con il nome per esteso di Antonin Artaud. Pare, in questo modo, chiudersi il percorso rivendicativo della propria «recevabilitè absolue», l’accettabilità assoluta (Antonin Artaud, lettera a Jacques Rivière del 5 giugno 1923), alla quale Artaud guarda – pretendendola – come ad una «peculiarità della propria persona (…), per cui la rivendicazione ad un’esistenza letteraria significa il poter manifestarsi nella sua verità davanti all’altro» (Carlo Pasi, pp. 91-92) Come segnalava Maurice Blanchot, l’anomalia è a questo punto formalmente completa: poesie inizialmente ritenute indegne di pubblicazione, diventano pubblicabili nel momento in cui ad esse si aggiunge un elemento destabilizzante extratestuale. E lo stesso Artaud, nel Préambule, redatto nel 1946 per la pubblicazione delle Œuvres complètes presso l’editore Gallimard, scrive: «Jacques Rivière me refusa dont mes poèmes, mais il ne me refusa pas les lettres par lesquelles je les détruisais» («Jacques Rivière rifutò le mie poesie, ma non rifiutò le lettere con cui le distruggevo»).
«Là où d’autres proposent des œuvres je ne prétends pas autre chose que de montrer mon esprit. La vie est de brûler des questions. Je ne conçois pas d’ œuvre comme détachée de la vie. Je n’aime pas la création détachée» («Là dove altri propongono opere io pretendo solamente di svelare il mio spirito. La vita è un bruciare di domande. Non concepisco un’opera staccata dalla vita. Non amo la creazione distaccata»). Così, in apertura di L’Ombilic des limbes, testo immediatamente successivo alla pubblicazione dell’epistolario, Antonin Artaud pone un programma per la propria opera. Un programma che inizia con una liquidazione, con la sottrazione dell’opera alla sua autonomia, al linguaggio della completezza e del superamento, nel segno deciso della crudeltà.
Dalla struttura quanto mai complessa, stratificata attorno a frammenti, lettere, descrizioni laceranti, L’Ombilic des limbes rimanda, fin dal titolo, ad una polisemia caotica, difficilmente afferrabile: l’ombelico inoltre -scrive Pasi- affonda nella dimensione dell’ignoto se lo si allaccia all’immagine freudiana de «l’ombelico del sogno» «che è il punto più buio della nostra psiche dove l’inconscio permane come tale, precludendosi a ulteriori interpretazioni». E l’ombelico è inteso come «cicatrice della nascita che segna il tempo della separazione, del distacco» e che conduce a quel «nodo conflittuale per cui l’affermazione di una soggettività autonoma nasce come uno strappo che reca il segno permanente della sua ferita» (Carlo Pasi, p. 115). La poesia di Artaud nasce e si sviluppa seguendo l’imperativo crudele di una mancanza, di una carenza ontologica, è come un calco sull’esistenza, di cui, però, non rimangono che tratti deformi e sfregi nella carne. Un grido «che è il grido stesso della realtà». Un centro senza centro, un’incompletezza originaria.
Scritto nell’agosto del 1946, il Préambule è un documento straordinario per ricostruire il
percorso della crudeltà in Artaud. Dal teatro, ai corpi: «le théâtre -scrive – c’est l’échafaud, la potence, les trancheées. Le four crématoire ou l’asile d’aliénés. La cruauté: les corps massacrés» («Il teatro è il patibolo, la forca, le trincee. Il forno crematorio o l’istituto per alienati. La crudeltà: i corpi massacrati»). Da una parte, il patibolo, la forca, le trincee, sistemi di soppressione dell’uomo regolati dal diritto, dal formalismo egemonico della costrizione; dall’altro, il forno crematorio e l’istituto per alienati, strumenti di morte che -nell’illuminante rilettura di Pasi- simboleggiano l’eccedenza tecnologica dell’afflizione, in cui, alla pura sofferenza del martirio, si aggiunge la sottrazione fisica, la dissoluzione silenziosa dei corpi suppliziati che non devono lasciare traccia al mondo, con un supplemento inaudito di pena e di orrore.
È qui che la crudeltà, sottolinea Pasi, oltrepassa la “dimensione visionaria” legata al teatro, si supera, allargandosi, rendendo «il suo corpo…elettricamente ricettivo al male dell’epoca (p. 122). Il corpo di Artaud «si è fatto dolore radicale», incarnando «l’eccesso del dolore, la messa in questione della norma, la rivolta» (pp. 123 e 146). La ferita originaria si è estesa, l’ulcerazione aggravata, l’artista riceve e tramuta l’evento – pur nel rischio “sofferto”, costante, del silenzio- in testimonianza crudele, brandello di verità strappato al filo spinato della norma. Egli si mette, così, in gioco, scaraventando sul palcoscenico della vita le tensioni radicali e le pulsioni soppresse da un mondo di delirio e indifferenza.
La crudeltà è la missione del testimone, nell’ora più grave del pericolo. Essa è, finalmente e definitivamente, «uscita dal libro, dal mondo delle idee», e, ormai, «non potrà che proiettarsi su scene di eccidi e di mutilazioni. Il suo doppio, ora, sono i corpi massacrati» (p. 127). Nasce -in un’irradiazione catartica che assume su di sé umori e drammi del secolo-, rielaborando «il lutto della storia” e facendosi carico della doppia posizione di testimone/custode di terribili verità, la “dimensione poetico-profetica di Artaud».
In questa fase del proprio percorso, il martirio del corpo di Artaud diventa tutt’uno con i drammi del secolo. Così come nell’identificazione con Sonia Mossé (proprio lei è «il nervo più fragile della sua passione», p. 125), l’amica ebrea uccisa in un campo di sterminio, «le immagini dei mutilati per le strade delle città in rovine, le figure fratturate di coloro che hanno patito nel corpo la ferocia della guerra, suscitano una visionarietà ostinata che tocca il cuore della crudeltà. (…) tutta la violenza sui corpi che il mondo impazzito ha prodotto si ripercuote sulla sua sensibilità scorticata che reagisce allo spasimo, si ribella contro la fragilità indifesa dell’anatomia umana». (p. 163)
Esilio, deportazione, internamento, ritornano in una lettera scritta, poco prima della
dimissione dall’Ospedale di Rodez, a Pierre Bousquet, un amico vittima del governo Vichy. La lettera è ancora occasione di denuncia della potenzialità virale, della dimensione sottocutanea del potere, capace di inserirsi nel corpo degli uomini, impadronendosene fin dalla nascita (nella costrizione di essere al mondo), poiché: «il conquistatore non distrugge il vinto, non ha interesse a sbarazzarsi del vinto, ma a PENETRARLO con un proprio veleno fino al punto che il simile si integri al simile in lui, e che il vinto non sia più là ma il suo corpo solo con la coscienza del solo vincitore» (Lettera a Pierre Bousquet, Rodez, 16 maggio 1946).
Un’usurpazione dei corpi che ha luogo giorno dopo giorno, in forme d’esilio e d’internamento che svelano, al testimone della crudeltà, quale forza demonica, imponderabile, guidi la mano degli uomini: «voi vi siete visto un giorno TRASCINATO VIA dal vostro domicilio, non dalla forza della tempesta, del mistral, dei tornadi, della burrasca, di una tempesta ELETTRICA o degli altani, ma da questa specie di forza senza nome, che non ebbe mai che i piccoli visi degli indifferenti che la rappresentano e che marciano soltanto perché sono comandati o salariati per farlo. (…) Il giorno della vostra deportazione in Germania, nel bel mezzo di quella piccola angoscia che vi coglie per esser condotto non sapete dove, e trascinato fuori di casa vostra, vi siete trovato INQUADRATO. Passato, si può dire, di mano in mano da uomini che per la parte che in quel momento là gli toccava, rappresentavano quell’indefinibile potere» (Lettera a Pierre Bousquet).
Il virus dell’internamento e dell’esilio accomuna la parabola di Artaud a quella dell’amico deportato, in un processo che vede la società selezionare e disfarsi dei soggetti che hanno colto i drammi del tempo. Annichilire la memoria, sottrarre la traccia del crimine svelatosi -in momenti di dolore e sofferenza quasi iniziatica- dinanzi agli occhi impietosi dei testimoni della comunicazione crudele è il compito degli strumenti paralleli del lager e del manicomio. Ma il poeta, seppure nel registro di una comunicazione interrotta, mantiene salda la sua capacità di resistenza: «non ho mai smesso per tutta la mia vita di vedere attorno a me la sarabanda di tutti i corpi liberati dalla coscienza di tutti gli istanti ad ogni istante, ma è a Le Havre, nel settembre 1937, dopo l’orribile battaglia del Washington, ascoltando sotto le mura dell’ospedale generale di Le Havre le mitragliatrici della polizia tirare sulla folla, che i miei occhi per la prima volta si sono aperti, definitivamente aperti su questo rovescio delle cose reputato occulto e che per me non è che l’estensione visibile di un diritto indecente che ha sempre voluto farsi passare per altro da quello che era».[III]
È il 28 novembre 1947, Artaud compie il passo definitivo lungo il percorso della diserzione dalla metafisica, aprendo spazi ad una nuova ontologia e all’inorganico. È dichiarando guerra agli organi -come, lucidamente, hanno intuito Gilles Deleuze e Félix Guattari, nel Capitolo 6 dei loro Mille Plateaux– che la metafisica viene completamente capovolta, estremizzata, in un collasso critico che rivela la capacità catartica e soggettivamente produttiva dell’esperienza del dolore. “«Perché non c’è nulla di più inutile di un organo» («il n’y a rien de plus inutile qu’un organe»): il corpo senza organi (corps sans organes), “descritto” in Pour en finir avec le jugement de dieu -testo redatto e recitato per la radio, ma mai passato oltre il Diktat della censura-, svela la propria concretezza biopolitica.
«Voglio che le poesie di François Villon, Charles Baudelaire, Edgar Poe e Gérerd de Nerval diventino vere, e che la vita esca fuori dai libri, dalle riviste, dai teatri o dalle messe che la trattengono e la crocifiggono per captarla, e passi sul piano di questa interna magia di corpi, di questo travasamento uterino dall’anima all’anima» (Rodez, 6 ottobre 1945). In questo modo, il martirio poetico ha compiuto la sua radicale alchimia, cambiando l’inchiostro in sangue, e viceversa (i lettori ritroveranno, in questo, suggestioni con l’esperienza -certo differenziata- del martirio estetico di Raymond Roussel). È la poesia che entrerà in scena, in un spazio rimodellato dell’intensità, il luogo proprio del corpo senza organi.
In questo modo, Artaud s’inserisce in un orizzonte in cui l’urto e lo shock del linguaggio artistico non rientrano nei canoni della semplice provocazione, ma sono – come frammenti strappati alla verità dei corpi- strumenti di sovversione radicale, ontologica, segnata dal dolore, nell’attesa di quella rivolta integrale che, quando avverrà – come scrive in una lettera ad André Breton -«non avverrà in un teatro (…). / Ma avverrà per qualcosa che richiama il teatro: la vita in ciò che ha di più palpitante e febbrile». [IV]
[Articolo già pubblicato in “Annuario di Itinerari Filosofici”, n. 4 (2000)]
Note
[I] Michel Camus, Antonin Artaud. Une autre langue du corps, Opales/Comtoir d’éditios, Bordeaux 1996.
[II] Carlo Pasi, Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud, in: Id., La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, p. 91.
[III] Antonin Artaud, Storia vissuta di Artaud-Mômo, a cura di Giorgia Bongiorno, l’Obliquo, Brescia 1995, p. 38.
[IV] Antonin Artaud, Lettera ad André Breton, Parigi, 14 gennaio 1947, traduzione di Carlo Pasi, in: Antonin Artaud, Sei lettere a Andre Breton, a cura di C. Pasi, con quattro tavole di Sol LeWitt, L’Obliquo, Brescia 1992, p. 14.