philosophy and social criticism

“Son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”?

Beatrice Catini

La bestia! La bestia!”

Il cerchio diventò un ferro di cavallo. Qualcosa veniva fuori dalla foresta. Veniva avanti al buio, strisciando, non si capiva come. Gli strilli acuti che s’innalzavano davanti alla bestia erano pungenti come una ferita. La bestia andò barcollando nel ferro di cavallo.

Prendetelo! Ammazzatelo! Scannatelo!”

[…] La bestia era in ginocchio nel centro, le braccia piegate sul volto. […] La bestia si trascinò avanti, spezzò il cerchio e piombò giù dall’orlo della roccia, cadde sulla sabbia presso l’acqua. Subito la folla la inseguì, scese dalla roccia, balzò sulla bestia, strillò. Colpì, morse, strappò. Non ci furono parole, solo una furia di denti e di unghie che laceravano.

[…] Dopo un po’ il mucchio si ruppe e si risolse in figure barcollanti che se ne andavano. Solo la bestia restò ferma, a pochi metri dal mare. Anche nella pioggia essi poterono vedere che bestia piccola era, e già il suo sangue macchiava la sabbiai.

Introduzione

Quella dell’esergo è una scena tratta dal Signore delle mosche, romanzo in cui lo scrittore inglese William Gerald Golding descrive il comportamento di un gruppo di studenti britannici che, in seguito a un disastro aereo, si ritrovano abbandonati, senza la presenza di un adulto, in un’isola tropicale deserta durante un conflitto planetario.

In questo bellissimo e spietato romanzo Golding mostra, tramite le forme dell’utopia negativa, i tentativi di questi ragazzini di dare vita ad una società organizzata e democratica. Il progressivo fallimento di questo tentativo, dovuto all’emergere di egoismi, faziosità tra gruppetti interni, uso di poteri carismatici da parte dei due leader, suggestioni di gruppo, etc., e il drammatico epilogo mostrano tutto il pessimismo e la sfiducia di Golding nelle potenzialità e nella natura dell’uomo. Sfiducia ancora più profonda se si pensa che i protagonisti sono dei bambini di non più di dieci anni, i cui genitori sono anch’essi in guerra a loro voltaii.

Sebbene la stesura di quest’opera, pubblicata nel 1954, risente dell’esperienza delle atrocità commesse nel secondo conflitto mondialeiii, il movente più diretto sono le riflessioni compiute da Golding sui risultati di un esperimento didattico cui ha preso parte nella scuola in cui insegnava. L’esperimento, in poco o nulla dissimile da quelli di uno psicologo sociale odierno, era nato su iniziativa del preside e consisteva nel dividere le classi di quarta elementare in due gruppi di cui uno faceva da arbitro, con la presenza di un supervisore adulto, mentre l’altro era impegnato a dibattere una questione. Un giorno Golding decide di spingere oltre questo esperimento: esce dall’aula dando così alla classe piena libertà. Le sue previsioni pessimistiche trovano conferma: deve affrettarsi a rientrare in classe per impedire che la situazione degeneri nel caos e nella rissa apertaiv.

Questo esperimento, le riflessioni e tutta l’opera di Golding lanciano un monito ben circostanziato ad aver fiducia nella razionalità dell’uomo, nonché nella sua bontà.

Il romanzo di Golding è emblematico perché viene qui rappresentato un punto di vista ben preciso sui grandi temi dell’etica – intesa qui come studio della condotta, del comportamento dell’uomo (in gr. Ēthikós deriva da êthos, che significa “comportamento, costume”)v – che da sempre hanno impegnato teologi, filosofi, letterati e recentemente gli psicologi.

1. La riflessione filosofica sulla natura umana

La questione dell’intima costituzione della natura umana è antica e prima di occupare le ricerche degli psicologi sociali è stata scandagliata da numerosi rappresentanti del pensiero filosofico e teologico.

Questa distinzione tra ambiti disciplinari differenti lascia il tempo che trova visto che fino a metà del XIX secolo la psicologia e la teologia erano parte integrante della filosofia. La specializzazione e la settorializzazione delle discipline cosiddette umanistiche è cosa piuttosto recente e non manca di scoprire le sue falle.

Dai tempi di Socrate la riflessione politica dei filosofi coinvolgeva considerazioni, se non vere e proprie teorie, sulla natura dell’essere umano e sulla sua vita sociale e politica, nonché sulla sua governabilità.

Senza voler qui redigere una storia delle varie posizioni che i filosofi hanno assunto in merito nel corso dei secoli, mi basti dire che salvo alcune eccezioni regnava tra di essi una generale sfiducia nelle caratteristiche della natura umana. Anche il pensiero religioso cristiano, con alla base l’idea del peccato originale, contribuì in maniera decisiva ad accentuare, nel mondo occidentale, l’idea di un’umanità facilmente corrompibile dal desiderio e dai vizi terreni, totalmente perduta senza una guida divina. Come nota Giovanni Jervis:

A lungo era apparso spontaneo accettare la validità di un’ipotesi naturalistica ingenua, per la quale si dava per esistente e mai del tutto vinta una competitività selvaggia ferina, primordiale, ferocemente individualistica, che si immaginava precedente a qualsiasi ordine e a qualsiasi cultura. Seguendo questo mito, residuerebbero in noi inclinazioni tristemente solitarie e stolidamente negative, presociali: a voler scavare senza riguardi troveremmo dunque nel sottofondo della mente una solitudine spietata, un’indifferenza primaria agli altri. Homo homini lupusvi.

E’ in particolare il Settecento il secolo in cui si dibatte sulla moralità o meno dell’essere umano. La società europea della prima metà del Settecento conosce una crisi morale che è in primo luogo la crisi delle auctoritates storiche – il re, la nobiltà, le chiese – che avevano guidato politicamente ed eticamente l’Europa fino a quel momento. In questo secolo infatti la discussione sulla questione morale entra in un ambito prettamente laico, in linea con l’atteggiamento critico e antitradizionalista caratteristico dell’Illuminismo. La critica della Rivelazione, fattasi particolarmente acre ed esacerbata con le teorie dei deisti, degli illuministi e dei materialisti (Helvétius, il barone d’Holbach, l’abate Jean Meslier, etc.), spinge i filosofi ad un netto rifiuto della credenza dogmatica secondo cui morali sono solo le azioni comandate direttamente da Dio.

Il tentativo è quindi quello di costruire un’etica autonoma dai dogmi della religione rivelata e svincolata da qualsiasi fondamento trascendente e metafisico: la possibilità di una fondazione laica della moralevii. Senza l’autorità di Dio a guidarlo, l’uomo torna ad essere completamente responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte. Le azioni degli uomini cessando di essere eterodirette dalle norme morali divine e giudicate rispetto a queste. Ma se la morale deve fondarsi sulla libertà e sull’autonomia della vita umana, è necessario che la qualità morale delle azioni dei singoli sia giudicata in base alle situazioni reali in cui l’uomo attua le sue volizioniviii. Da qui l’importanza di comprendere se l’uomo sia autonomamente in grado di comportarsi moralmente, indagano i meccanismi di base che governano la sua condotta.

Nel Settecento il concetto di natura umana riceve interpretazioni molto diverse: egoismo e altruismo, edonismo e ascetismo vengono a seconda dei casi ritenuti naturali o innaturali ma si possono riassumere infine in due posizioni contrapposte.

Il pessimismo morale – per esempio quello di Hobbes – giudica la natura umana cattiva (o teologicamente corrotta): l’uomo abbandonato a se stesso non può che fare il male; ha bisogno quindi di un’autorità che lo obblighi al bene. La natura umana viene così guardata con paura: il compito della moralità consiste nel governarla e purificarla.

Viceversa nell’ottimismo morale – che trova in Shaftesbury e Hutcheson i suoi sostenitori più sinceri – la natura umana viene riabilitata, in quanto ritenuta in grado di governare le volizioni degli uomini, e la norma morale non viene più derivata da una impostazione esterna e artificiale, ma scaturita naturalmente dalla coscienza stessa dell’uomoix.

2. Le spiacevoli evidenze dell’esperimento di Stanley Milgram

Gli stessi interrogativi che animavano le ricerche dei filosofi settecenteschi permangono tutt’ora nei discorsi dell’uomo di strada come nelle riflessione di discipline come la psicologia sociale: gli esseri umani sono “naturalmente buoni o cattivi”? E’ necessaria l’autorità per avere ordine sociale? Da dove viene l’aggressività umana? Natura umana e civiltà sono in contrasto?

La storia, limitandoci anche solo a quella del secolo appena trascorso, è costellata da innumerevoli manifestazioni di atrocità collettive e individuali che creano disagio una volta che ci si soffermi a ragionare su di esse. Il disagio risulta dal constatare l’immutabilità di violenze efferate, di prevaricazioni scandalose e guerre irrazionali nonostante il continuo progresso civile e tecnologico che si va tanto declamando nelle nostre società occidentali (e oramai non solo). Quello del progresso della civiltà sembra così essere solo un mito, teso ad occultare la violenza e l’irrazionalità immutate negli uomini nel corso della storia.

Fa così capolino il sospetto che l’essere umano oltre che intimamente asociale ed egoista sia anche dotato di scarsa intelligenza e volontà. Come mai la storia non insegna?

«Il “mai più”, pronunciato dopo il genocidio degli ebrei, è oramai diventato un urlo soffocato dai recenti eventi dei Balcani e del Ruanda. La convinzione che la ragione potesse tenere al guinzaglio la crudeltà socialmente organizzata sembra tragicamente incrinata. Un congedo avvilente per un secolo che si era ripromesso di non filiare altre atrocità collettive!»x.

Attanagliati da questi inquietanti interrogativi, ci rivolgiamo al sapere della psicologia, sperando che con i suoi strumenti di analisi ci offra rassicurazioni, relegando questi aspetti devianti ad individui altrettanto devianti che nulla hanno a cui spartire con la nostra normalità di individui sani. «Il nostro pensiero desidera che la scienza sia in grado di tracciare una linea di demarcazione tra noi, persone comuni, e loro, i carnefici»xi.

Purtroppo per noi, però, le risposte della psicologia non assecondano il nostro bisogno di rassicurazione, bensì ci mettono in guardia dal tracciare linee nette tra individui e soprattutto dall’attribuire certi atteggiamenti estremamente violenti e antisociali alla personalità di singoli individui devianti.

In questo modo di valutare gli eventi compiamo infatti un errore, definito da Ross (1977) errore fondamentale di attribuzione, che consiste nel concentrare l’attenzione sull’individuo isolato, lasciando in ombra la situazione entro la quale agisce. In questo modo la causa prima del comportamento viene ascritta alla sfera individuale, negando di conseguenza ogni vincolo situazionalexii. «Una tale propensione, che potremmo definire all’internalità, relativamente alla spiegazione dei comportamenti, conduce spesso a delle spiegazioni causali inconsuete, se non evidentemente erronee»xiii. Ma non solo, «la credenza nelle cause caratteriali permette di mantenere il grande pubblico a distanza dal riconoscimento di una propria eventuale e potenziale predisposizione alla violenza»xiv e di continuare a mantenere un’immagine di sé positiva quando è chiamato a confrontarsi con la produzione sociale di atrocitàxv.

In contrasto con questo ingenuo ottimismo, «l’immagine che gli psicologi sociali ci consegnano non è quella rassicurante di un mondo diviso in persone crudeli che hanno inflitto indicibili sofferenze a vittime innocenti e impotenti, bensì quella di un mondo caratterizzato da processi psicologici ordinari che riducono la distanza rassicurante e illusoria tra “noi”, cittadini democratici di una società civile, e “loro”, i carnefici»xvi.

Senza essere una psicologa sociale, la filosofa ebrea Hanna Arendt, in uno scritto del 1963xvii, sosteneva che Eichmann, il principale organizzatore dello sterminio degli ebrei, non era né un folle né un mostro portatore di una mentalità sadica, bensì «un uomo banale, poco più di un burocrate di buon livello, un impiegato privo di immaginazione vestito con l’uniforme nazista, un uomo che come tanti aveva cercato di eseguire il proprio lavoro nel modo migliore»xviii.

La logica conclusione del discorso della Arendt era che «in circostanze favorevoli persone qualsiasi potrebbero organizzare nuovi stermini di massa»xix.

A riprova di ciò, nello stesso anno della pubblicazione del libro della Arendt, Stanley Milgram, dell’Università di Yale, dà una delle dimostrazioni più sconcertanti circa il ruolo di determinate caratteristiche situazionali nella genesi dei comportamenti aggressivixx.

Tramite un annuncio su un giornale locale Milgram e i suoi collaboratori reclutarono volontari che, dietro un piccolo compenso, avrebbero dovuto collaborare ad uno studio sull’apprendimento e la memoria. Queste persone venivano accolte da un signore in camice bianco il quale spiegava loro il loro ruolo: avrebbero dovuto fare da “docenti” ad altri volontari ( in realtà membri del gruppo di sperimentatori) che dovevano ricordare banali coppie di parole. Il finto volontario si presentava come un tipo comune, un uomo dall’aspetto tranquillo sulla cinquantina. Il compito del partecipante ingenuo consisteva nel somministrargli scosse elettriche di intensità crescente ogni volta che quello non rispondeva a dovere: nascosto da una partia non poteva vederlo ma lo sentiva perfettamente. Naturalmente non c’era nessuna corrente elettrica e il falso volontario era addestrato a reagire alle pretese scosse prima con lamenti moderati poi, mano a mano, con urla e pianti. Sotto le manopole relative ai vari voltaggi – da 15 a 450 Volts – c’erano etichette ben visibili che andavano da “Shock lieve” a “ Pericolo! Grave shock”, fino a un minaccioso “XXX”. Lo sperimentatore in camice bianco aveva il compito di incoraggiare bonariamente ma fermamente il volontario ignaro a continuare la sua escalation di somministrazioni dolorose malgrado resistenze, ansie e perplessità,dicendogli tra l’altro che le scosse potevano essere sì pericolose ma non causavano mai danni permanentixxi.

I risultati di questa ricerca hanno suscitato notevoli controversie e dibattitixxii, soprattutto se si pensa che ne vennero fatte successive repliche in vari continentixxiii, tra cui l’Europa, utilizzando persone della più diverse condizioni sociali, sia uomini che donne:

l’80% dei partecipanti continuò al di là dei (finti) 150 Volts, un punto in cui regolarmente la vittima gridava “fatemi uscire!” e rivelava di soffrire di cuore; più della metà, ossia bel il 62,5%, arrivò fino al massimo di 450 Volts (il massimo del voltaggio: “XXX”), cioè dopo che la vittima aveva già urlato disperata e sembrava aver perso il controllo di sé dal dolorexxiv.

Ricerche come queste però non bastano a scoraggiare il bisogno di rassicurazione e difesa delle persone. A riprova di ciò c’è l’entusiasmo con cui è stata accolta, negli anni Novanta del secolo scorso, l’opera dello storico Daniel Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitlerxxv. Il libro è costruito attorno all’affermazione centrale «che i carnefici nazisti erano impregnati di un profondo odio antisemita, culturalmente votati alla violenza, pienamente responsabili delle proprie azioni, impegnati consapevolmente e intenzionalmente nella produzione di atrocità»xxvi. L’analisi di Goldhagen, priva di qualsiasi probante prospettiva sociopsicologica, accontenta però i lettori affermando che solo le persone malvagie – nella fattispecie i tedeschi antisemiti – scelgono di fare il male: «il genocidio cessa di essere un progetto mostruoso eseguito in gran parte da “uomini comuni” e diventa un’impresa realizzata da “tedeschi comuni”»xxvii.

Gli stessi psicologi sociali hanno tentato attraverso le loro teorie di sostenere che i comportamenti sono in primo luogo il frutto dell’intenzione di metterli in atto. Mi riferisco in particolare alla teoria dell’azione ragionata di Fishbein e Ajzen volta a dare una risposta alla constatazione della scarsa prevedibilità del comportamento di un individuo pur conoscendo bene i suoi atteggiamenti: non era infatti pensabile per gli psicologi sociali sostenere che le basse correlazioni rilevate nelle ricerche condotte fino agli anni ’60 tra atteggiamenti e comportamenti, indicassero effettivamente che le persone si comportano in modo del tutto indipendente da come la pensanoxxviii. Così Fishbein e Ajzen, ponendo l’accento sul ruolo dell’intenzionalità nel mettere in atto un determinato comportamento, rivalutano l’essere umano nelle sue funzioni volitiva e razionale.

Sebbene la teoria dell’azione ragionata non trascuri il ruolo dell’ambiente sociale e il condizionamento delle norme sociali nell’orientare l’intenzione individuale, propone un’ottica in cui la messa in atto del comportamento finale sembra totalmente sotto il controllo personale. La maggior parte dei comportamenti messi in atto dalle persone quotidianamente, osservano i critici di questa teoria, non presuppongono un’elaborazione intenzionale così impegnativaxxix; la maggior parte dei comportamenti dell’individuo sfuggono al suo controllo proprio perché originati dall’abitudine, dalle dipendenze, da stati emotivi intensi, da situazioni inaspettate, etcxxx.

Come rileva lo psicologo clinico Milton Erikson l’atteggiamento di parte della comunità scientifica non si discosta di molto dalle opinione del senso comune:

Il fatto che i lavori pionieristici [di Milgram] in questo campo siano stati accusati di essere immorali, ingiustificabili, o siano stati tacciati di altre infamie, era prevedibile per il semplice fatto che la gente preferisce chiudere gli occhi di fronte a dei comportamenti sgradevoli e dedicarsi a ricerche sulla memoria e la dimenticanza di sillabe insignificanti…

Milgram fornisce un contributo importante e significativo alla nostra conoscenza del comportamento umano… Quando sono apparsi i primi studi di Milgram, egli si rendeva già conto che parte della comunità scientifica si sarebbe schierata contro di lui…Per dedicarsi ad una ricerca come quella di Milgram occorrono uomini forti con una forte fede scientifica e un grande desiderio di scoprire che la responsabilità e il controllo delle azioni disumane spetta all’uomo e non al “diavolo”xxxi.

3. La personalità autoritaria

La tendenza ad individuare l’esistenza di qualche cosa di personale che preceda l’azione e la informi è presente nella maggior parte degli studi sulla personalità, apparsi negli anni ’50 e tesi ad individuare le caratteristiche della personalità predisposte ad attuare determinati comportamenti anziché altri. Tra questi studi, particolarmente importante ai fini del nostro discorso, è il libro pubblicato nel 1950 da Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson e Sanford, La personalità autoritaria. Secondo questi autori l’autoritarismo è una vera e propria sindromexxxii presente in determinate strutture di personalità e di cui i tratti salienti sono l’aggressività, la rigidità, la crudeltà, l’obbedienza all’autorità, il rifiuto della debolezza, un pensiero stereotipato, la proiezione verso l’esterno degli impulsi emotivi inconsci, l’aderenza ai valori convenzionali e un’eccessiva preoccupazione circa le abitudini sessualixxxiii.

Simili rilevazioni venivano fatte già negli anni ’40 del secolo scorso da altri esponenti del pensiero psicologico: nel 1941 lo psicoanalista Erich Fromm, in Fuga dalla libertà, descrive gli autoritari come individui con un Io debole, completamente succube di un Super-Io dispotico ed eccessivamente repressivo nel confronti dell’Esxxxiv; lo psicoanalista americano Erik Erikson, in un articolo del 1942, istituisce uno stretto legame tra il tipo di allevamento estremamente duro e autoritario dei genitori tedeschi – a sua volta inserito un uno specifico retroterra storico-culturale – e la mancanza di autorità interna dei figli, compensata da un’inclinazione al sadismo e alla crudeltà verso se stessi; sulla stessa linea è la posizione a riguardo di Abrham Maslow, fondatore della psicologia umanistica (in seguito transpersonale)xxxv, che ritiene tratti fondamentali della personalità autoritaria il pensare per stereotipi e la ricerca di sicurezza nella disciplina e nell’ordinexxxvi.

Per questi autori la formazione di una personalità di questo tipo è da ascrivere originariamente al retroterra familiare nonché culturale dell’autoritario. Dalla descrizione della personalità autoritaria si passa quindi alla descrizione della famiglia generatrice di individui potenzialmente autoritari: famiglie in cui l’educazione dei figli è rigida, severa e punitiva. Un intero testo di Erik Erikson del 1950, Infanzia e societàxxxvii, è dedicato all’analisi dell’interazione reciproca che sussiste tra modalità di allevamento infantile e struttura della società: ogni gruppo umano, per Erikson, cerca di realizzare nelle giovani generazioni il tipo di personalità che valuta più idoneo all’adattamento con l’ambiente fisico e storico-socialexxxviii.

La rilevanza e i pregi degli studi sulla personalità autoritaria sono stati ampiamente dibattuti dalla psicologia sociale, sebbene nessuno possa negare la presenza di gravi limiti metodologici e un impianto teorico-esplicativo parziale. Come fa notare Zygmund Bauman, Adorno e i suoi colleghi «evitano accuratamente l’analisi di tutti gli eventuali fattori sovraindividuali o extraindividuali che potessero produrre la personalità autoritaria; né si preoccupano della possibilità che tali fattori possano provocare un comportamento autoritario in individui altrimenti privi di una personalità autoritaria»xxxix.

Ecco che nuovamente siamo di fronte all’errore fondamentale di attribuzione – seppur a livello di studiosi di indubbio valore – che porta a sottovalutare l’importanza dei fenomeni di influenza sociale che accompagnano costantemente l’esistenza di ogni individuo. «L’assunzione individualista», implicita in questi studi, «non solo rappresenta il semplice ricalco di una catena di considerazioni del senso comune […], ma anche rispecchia quello che Lewin definisce “modo di pensare aristotelico”, consistente nel collocare il “perché” del comportamento di un organismo all’interno di esso, tesi unilaterale che, ad esempio, favorisce scorrette inferenze causali nell’attribuzione ingenua, portando a sopravvalutare le cause personali di un evento a scapito di quelle situazionali»xl.

4. Guardie e prigionieri: dinamiche di violenza intergruppi

A meno di dieci anni dall’esperimento di Stanley Milgram, nel 1972, lo psicologo Philip Zimbardo con alcuni collaboratori compie un esperimento sulle dinamiche di gruppo presso la stessa università di psicologia di Stanford:

tra gli studenti dell’università vengono scelti in base al buon carattere e ad un solido equilibrio mentale 24 ragazzi di sesso maschile; questa volta, a differenza dell’esperimento di Milgram, i ragazzi sono coinvolti nell’esperimento senza trucchi e con accordi leali. L’esperimento riguardava lo studio delle dinamiche di gruppo all’interno di una prigione simulata. Per fare ciò, tirando a sorte, venne stabilito chi avrebbe incarnato il ruolo della guardia, indossando occhiali a specchio e tute grigioverde, e chi quello del prigioniero, portando una lunga tunica e una catena legata alla caviglia. Gli studenti vennero relegati nel seminterrato del Dipartimento di psicologia ma non gli vennero date altre prescrizioni sul come comportarsi. La durata dell’esperimento era stata prevista per due settimane. Dovette però essere interrotto dopo soli 6 giorni perché alcuni dei prigionieri avevano cominciato a mostrare seri disturbi da stress. Le “guardie” infatti avevano cominciato a sottoporre i prigionieri ad umilianti e feroci vessazioni, chiedendo loro ad esempio di indossare sacchi scuri sulla testa, denudandoli, e imponendo loro di mimare atti sessualixli.

Il risultato dell’esperimento è stupefacente, quasi paradossale, ed ha trovato impreparati gli stessi psicologi sociali. Questa volta, infatti, i partecipanti conoscevano gli scopi dell’esperimento e non avevano ricevuto nessuna prescrizione autorevole sul modo in cui comportarsi. Inoltre erano stati scelti tra gli studenti di una disciplina come la psicologia e in base alle loro caratteristiche di stabilità emotiva e comportamentale.

Le teorie sull’influenza dell’autorità non servono qui a render conto dei risultati dell’esperimento, che richiama in modo inquietante alcune scene svoltesi presso la prigione di Abu Grahib nel 2004.

Per spiegare queste dinamiche ci vengono in aiuto gli studi fatti negli anni ’60 sulle relazioni intergruppi da Tajfel, Rabbie, Horwitz e collaboratori.

Come per gli autori legati alla scuola di Francoforte, anche per questi autori, che possiamo ascrivere alla scuola lewiniana, l’esperienza appena trascorsa della guerra, del fascismo, dell’antisemitismo e del razzismo aveva insegnato che forme apparentemente innocenti di pregiudizio possono facilmente trasformarsi in forme esplicite e crudeli di ostilità.

Già negli anni ’50, Sherif sosteneva che i problemi di personalità o le frustrazioni individuali non possono essere invocati per spiegare i fenomeni intergruppi: bisogna invece considerare sia le proprietà dei gruppi stessi, sia le conseguenze che ha l’appartenenza di gruppo sugli individuixlii. Dai suoi esperimenti svolti in campi d’estate per ragazzi tra il 1948 e il 1952 emergevano risultati molto simili a quelli riscontrati da Zimbardo e collaboratori negli anni ’70: classificando le persone in due gruppi distinti si sperimentavano reazioni discriminatorie tra il gruppo di appartenenza (ingroup) e quello da cui quest’ultimo si distingue (outgroup). La causa di questa conflittualità veniva individuata da Sherif nel conflitto di interessi che si crea tra due gruppi; per ricomporre il conflitto bastava, secondo Sherif, che i due gruppi trovassero in uno scopo sovraordinato un motivo di collaborazione.

Queste spiegazioni però lasciavano insoddisfatti autori successivi come Tajfel, Rabbie e Horwitz, i quali pensavano che le condizioni che portavano all’ostilità intergruppi erano più banali e comuni, nonché frequenti, di quelle riportate nei lavori di Sherif. Si adoprarono così nell’individuare le condizioni minime sufficienti a generare atteggiamenti discriminatori tra ingroup e outgroupxliii.

Rabbie e Horwitz, sulla scorta della nozione lewiniana di “destino comune” come criterio principale di appartenenza ad un gruppoxliv, individuano proprio nella percezione da parte dei membri del gruppo della condivisione di una stessa sorte – positiva o negativa che sia – la condizione sufficiente a suscitare un bias ingroup-outgroup, ovvero una discriminazione valutativa a favore del proprio ingroup.

Per Tajfel invece alla base del bias ingroup-outgroup vi è il meccanismo della categorizzazione sociale:

una rete di categorizzazioni intergruppi è onnipresente nell’ambiente sociale […]. Una conseguenza cognitiva importante di ciò è che l’articolazione del mondo sociale di un individuo, nei termini della sua categorizzazione in gruppi, diventa una guida per la sua condotta in situazioni a cui alcuni criteri di divisione intergruppi possono essere applicati in modo significativo (significativo non è necessariamente razionale). Un ambiente sociale indifferenziato ha poco senso, non fornisce linee guida per l’azione. Quando tali orientamenti sono carenti, confusi o poco chiari, ma una qualche categorizzazione intergruppi può essere usata, sarà questa a dare ordine e coerenza alla situazione sociale rendendo capace l’individuo, nel contempo, ad agire in modo percepito come “appropriato” in molte altre situazionixlv.

Il bisogno di affermare la specificità positiva del proprio gruppo a scapito del gruppo “altro” è una diretta conseguenza di questo comportamento sociale intergruppi, che ha alla sua base il fenomeno comune della categorizzazione sociale. Negli esperimenti da lui effettuati insieme a Billig, la semplice induzione da parte loro di una categorizzazione in gruppi dei soggetti della ricerca, bastava a creare una dinamica di discriminazione intergruppixlvi.

Sulla base di questa teoria Henri Tajfel, nel suo Gruppi umani e categorie sociali del 1981, individuò nel Ruanda un tipico esempio in cui era evidente il bisogno di differenziazione psicologica tra gruppi sociali. Quindici anni dopo avvenne il terribile genocidio dei tutsi da parte degli hutuxlvii.

La differenziazione intergruppi agisce a livello cognitivo, comportamentale e valutativo e, nel corso del tempo, genera diverse rappresentazioni sociali che riguardano se stessi, il proprio gruppo di appartenenza e gli altri. In particolari contesti, come quello ruandese citato, la manipolazione politica delle rappresentazioni sociali avvia processi di categorizzazione stereotipata che portano, nei casi peggiori, all’istituzionalizzazione del pregiudizioxlviii. Una volta istituzionalizzato il pregiudizio verso un gruppo è molto più facile per le autorità fare leva sui sentimenti di frustrazione di parte della comunità e dare inizio ad un movimento di massa genocidaxlix. Esplicativi di questo processo sono sia il caso ruandese, sia quello del genocidio degli ebrei.

5. Il processo di delegittimazione

Negli anni Novanta del secolo scorso Daniel Bar-Tal ha introdotto il termine delegittimazione per riassumere gran parte dei processi in atto in questi fenomeni sociali. La delegittimazione è la categorizzazione di uno o più gruppi all’interno di categorie sociali gravemente negative, permettendo così l’esclusione moralel: «un progetto che si realizza quando individui e gruppi sono percepiti al di là dei confini entro i quali si applicano valori, norme e attenzioni informate da criteri di giustizia ed equità»li. La posizione che il soggetto o il gruppo occupa rispetto al perimetro della morale della comunità condiziona gli atteggiamenti e le opinioni di quest’ultima: la violenza e la prevaricazione può infatti colpire sia chi si trova all’esterno che all’interno della comunità, ma quando il danno è inflitto agli interni è più facile che sia considerato un fatto ingiusto e che si attivino sentimenti di colpa e richieste di riparazione; mentre se il danneggiato è un esterno la tendenza è quella di non percepire alcuna violazione e la reazione è l’indifferenza emotivalii.

Tra i fattori che favoriscono l’insorgere del processi di delegittimazione, lo psicologo Adriano Zamperini individua la disumanizzazione (i membri del gruppo “inumano” vengono ascritti ad una diversità della razza umana); la caratterizzazione per tratti (il gruppo escluso è caratterizzato da una serie di tratti particolarmente negativi e perciò non tollerabili); l’uso di etichette politiche e in generale l’uso di uno specifico vocabolario culturale per identificare quei gruppi che rappresentano il male. «Secondo i teorici dell’etichettamento, quando la reputazione di cui un individuo gode ha una connotazione negativa diventa una forma di etichettamento morale da parte della comunità, che produce una sorta di circolo vizioso»liii.

In tutte queste dinamiche, che partecipano al meccanismo di delegittimazione, vi sono degli elementi caratteristici dello stereotipo e del pregiudizio socialiliv.

Nella loro forma più estrema gli stereotipi sociali sono immagini mentali semplificate al massimo e ricche di caratteristiche negative salienti. Nei casi di discriminazione intergruppi gli stereotipi si accompagnano sempre ad un pregiudizio, cioè ad un «giudizio negativo a priori mantenuto a dispetto dei fatti che lo contraddicono»lv. Inoltre, Gordon Allport specifica come questo sentimento di antipatia sia quasi sempre «fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile»lvi.

Ancora una volta le disfunzioni del ragionamento sociale finiscono per distorcere la percezione della realtà e fomentare settarismo, violenze e conflitti. Ma non solo. Sembra che alla base di tutti questi processi ci sia l’esigenza di salvaguardare la propria identità che è sempre, come dice Tajfel, un’identità sociale, che scaturisce e si rafforza dal confronto con gli altrilvii: il radicamento in una collettività sociale permette all’individuo di trovare la sua differenza e unicità all’interno di un contesto che la contiene e la rafforza.

La comunità a sua volta «definisce l’appartenenza attraverso l’esclusione. Separa coloro che si sentono uniti da chi viene espulso o non viene nemmeno accolto». Dividendo e isolando le persone in gruppi sociali, la comunità li connota anche moralmente, attraverso il meccanismo della delegittimazione: «il gruppo delegittimato è un nemico pericoloso che non merita alcun trattamento morale e perciò l’aggressività nei suoi confronti è più che legittimata»lviii. In questo modo i confini della morale diventano i confini stessi della comunitàlix.

Come fa notare Zamperini, ciò che rende davvero efficace i meccanismi della delegittimazione estrema e dell’esclusione morale è che si giocano su diversi piani: cognitivo, emotivo e comportamentale. A livello cognitivo vengono predisposti degli strumenti – categorie sociali, schemi, euristiche, rappresentazioni sociali, etc. – che organizzano la realtà «affinché sia disponibile ed evidente un apposito set di spiegazioni e previsioni per padroneggiare la condotta del gruppo di appartenenza e del gruppo esterno»lx. La costruzione di una rappresentazione sociale legata ad un gruppo ha però anche una connotazione emotiva molto forte: il gruppo delegittimato attiva sentimenti di paura, pericolo e disprezzo in un circolo vizioso che amplifica e innesca nuovi sentimenti negativilxi. Per quanto concerne la sfera delle azioni, «si sviluppano comportamenti violenti volti a preservare l’integrità e la purezza del proprio gruppo rispetto alla minaccia percepita»lxii.

Nello sviluppo di un comportamento aggressivo e violento un ruolo forte è quello del distanziamento emotivo verso i membri del gruppo delegittimato e quindi amorale: percepire gli altri come moralmente irrilevanti è «uno degli stratagemmi relazionali maggiormente incoraggiati e praticati»lxiii per perseverare in azioni violente sentendosi moralmente nel giusto. Siamo agli antipodi della relazione di empatia: «se l’altro non innesca nessun processo di immedesimazione, le primarie risposte della pietà e della compassione difficilmente riescono a trovare uno spazio di espressione»lxiv.

Questa riflessione di Zamperini è in linea con uno dei risultati del già citato esperimento di Milgram e così descritto da Bauman: «il rapporto inversamente proporzionale tra la disponibilità a esercitare la crudeltà e la prossimità della vittima. E’ difficile fare male ad una persona tanto vicina da poterla toccare»lxv. Inoltre, specifica Bauman, «la solitudine della vittima non è soltanto una questione di» maggiore o minore vicinanza, nonché di separazione fisica, ma «è una funzione dell’unione tra coloro che la tormentano, e del suo essere esclusa da tale unione. […] L’effetto della distanza fisica e psicologica, pertanto, viene ulteriormente accentuato dalla natura collettiva dell’azione lesiva»lxvi.

6. La deritualizzazione dell’aggressività

Tutte queste ricerche spiegano in modo più o meno dettagliato da cosa origina e come si evolve la dinamica di discriminazione integruppi ma non analizza il modo in cui da una dinamica di discriminazione si passa alla tappa più avanzata della violenza verso i componenti dell’outgroup: le atrocità collettive e individuali. A parte gli esperimenti di Milgram e Zimbrado la psicologia sociale non ha approfondito granché questa inquietante tematicalxvii.

In merito a ciò il sociologo tedesco Wolfgang Sofsky constata come «il tema della violenza è stato stralciato dal nucleo della ricerca empirica e confinato alle discipline marginali della sociologia criminale e militare e allo studio internazionale dei conflitti. L’improvviso interesse per la violenza giovanile è solo un passeggero tributo all’attualità ed è ben lontano dal raggiungere la dimensione del problema»lxviii.

A supplire alla penuria di ricerche sulla violenza estrema da parte della psicologia sociale, ci viene in aiuto la storia con la sua costellazione di guerre e conflitti e con tutto ciò che queste si portano dietro: «una quantità impressionante di pratiche efferate messe in atto da uomini nei confronti di quelli che avevano appena cessato di essere uomini»lxix.

Come fa notare Giovanni De Luna l’analisi delle guerre pone lo storico in una dimensione paradossale proprio perché lo mette innanzi ad una immutabilità poco conciliabile con la progressione temporale della storia: «le guerre, con le violenze e le crudeltà che scatenano, sembrano avere un fondo comune (uccidere e farsi uccidere), sempre uguale a se stesso, ribelle alla cronologia; una sfida alla diacronia e alla spiegazione dei fatti basata sulla successione, sulla linearità evolutiva del tempo»lxx.

Anche qui è interessante constatare come gli uomini si proteggono da questa cruda evidenza grazie a delle rappresentazioni distorte della realtà, che permettono di ristabilire un ordine a livello cognitivo assente a livello storico. Così, ad esempio, «l’ossessivo moltiplicarsi dei conflitti che hanno accompagnato l’alba del nuovo Millennio ha reso quasi indispensabile “la finzione della negazione della guerra”, un artificio lessicale che consente di metabolizzarne l’impatto distruttivo, attenuando traumi e lacerazioni, proteggendo gli uomini dalla cruda evidenza degli scempi provocati da altri uomini»lxxi. Il meccanismo di questa finzione consiste nel legittimare ogni guerra chiamandola con nomi bizzarri, che mistificano la natura della guerra: si pensi ad esempio a “guerra umanitaria”, alle “operazioni di pace-keeping” o alla recente “opzione zero morti”lxxii; espressioni quasi ossimoriche se rapportate alla realtà che portano con sé e che è principalmente morte violenta e sofferenza.

La cifre al contrario parlano chiaro: tra il 1900 e il 1993 sono state censite 54 guerre, mentre sul numero di vittime le cifre sono controverse (si va dai 185 milioni di Brenzinski ai 100 milioni di Meier). Ma forse il dato che maggiormente ribadisce il «carattere patologicamente cruento del Novecento»lxxiii è «l’indice di 44 vittime di eventi bellici ogni 100 appartenenti alla popolazione totale interessata»lxxiv: una percentuale quindici volte superiore a quella delle vittime delle guerre di religione del XVI secolo; quattro volte superiore a quella delle guerra dei Trent’anni e tre volte superiore rispetto al secolo delle guerre napoleoniche e d’indipendenzalxxv.

Queste cifre delineano un caos mal sopportato dalla coscienza umana che preferisce rifugiarsi in quella che Melvin Lerner ha denominato “la credenza in un mondo giusto”: nonostante gli eventi storici continuamente le contraddicano, le persone tendono a rappresentarsi l’ambiente in un modo ordinato e razionale, dove la casualità e l’irrazionalità hanno un ruolo limitato e di certo non normativolxxvi.

Di fronte a queste informazioni non ci resta che constatare l’imponente aggressività intra-specifica dell’uomo e analizzare la guerra come uno dei fenomeni più eclatanti di questa caratteristica specificatamente umanalxxvii.

Non vi è infatti nulla di più sbagliato che la diffusa abitudine a considerare la violenza come un istinto animale, un retaggio che l’oramai evoluto e civilizzato essere umano si porta dietro dalle sue origini primitive. Questa consuetudine linguistica ha alle spalle un pregiudizio pericoloso e fuorviante, cioè che l’aggressività attiene alla natura animale dalla quale quella umana nettamente si distingue.

L’etologialxxviii ci mette però in guardia e lancia, con i suoi studi, delle violente provocazioni a questa pretesa sopra-naturalità dell’uomo: «l’aggressione intra-specifica è rara nel mondo animale e […] difficilmente ha esiti mortali»lxxix. Gli animali appartenenti alla medesima specie combattono tra loro per il territorio, la gerarchia o le femmine ma questi combattimenti hanno una caratteristica comune a tutte le specie e che ne limita enormemente la pericolosità: sono ritualizzatilxxx. Un comportamento aggressivo ritualizzato è caratterizzato da una serie di elementi stereotipati e convenzionalizzati come l’esibizione di parti del corpo e grida per terrificare l’avversario, sequenze di spostamenti che prevedono l’alternanza di movimenti di avvicinamento, fuga, accerchiamento; ma in tutto questo ben difficilmente le armi dei combattenti (zanne, corna, artigli, etc.), che potrebbero ferire mortalmente, vengono usate per questo scopo. Ne sono un esempio i lupi: lo sconfitto al termine del combattimento offre come atto di sottomissione la gola al vincitore, che potrebbe azzannarla e porre fine alla vita dell’avversario sconfitto. Questo però non accade e il lupo vincitore permette al lupo vinto di andersene incolumelxxxi:

sembra che parallelamente al formarsi di strutture morfologiche ad alto potenziale offensivo […] siano comparse nell’evoluzione delle inibizioni che ne “regolamentano” l’uso. L’atteggiamento di sottomissione del lupo sconfitto, che offre la gola, scatena nel vincitore un correlativo meccanismo inibitorio che gli “impedisce” di mordere a morte lo sfortunato avversario. Queste inibizioni hanno […] un valore enorme per la conservazione della specielxxxii.

L’evoluzione ha quindi “inventato” dei meccanismi – per l’appunto, i riti – per dirigere l’aggressività su binari inoffensivi, che ne riducono la pericolosità: «il rito compie la funzione quasi impossibile di ostacolare quegli effetti dell’aggressività intrapecifica che sono seriamente dannosi alla vita comunitaria, senza per questo impedire quelle sue funzioni indispensabili alla conservazione della specie»lxxxiii.

Nell’essere umano però le cose sono andate diversamente e nei suoi movimenti di aggressività si assiste ad una sempre maggior deritualizzazzione, rendendo così l’uomo l’essere più pericoloso per la sua stessa specie. L’evoluzione del modo di condurre la guerra è tristemente esplicativo delle differenza del comportamento aggressivo tra gli uomini e gli altri animali. Centrale in questo processo di deritualizzazione è la velocità dell’evoluzione della tecnica rispetto a quella degli istinti sociali e delle inibizioni sociali dell’uomo. Gli arnesi e le armi si sono ben presto presentate come quelle protesi organiche atte a supplire alla vulnerabilità fisica dell’essere umano, che si è trovato così a gestire lo squilibrio tra capacità omicidiarie sempre più potenti e meccanismi inibitori appena abbozzatilxxxiv.

A tal proposito lo psicoanalista Franco Fornari mette in luce l’aspetto regressivo dell’evoluzione delle armi: da oggetti penetranti, da corpo-a-corpo, si è passati a oggetti che si staccano dall’operatore per andare a colpire il nemico a distanza, e infine a ordigni dissolventi e apocalittici, come le armi che oggi minacciano l’umanitàlxxxv. Le armi odierne poi si usano a distanza, talvolta a distanze enormi, rendendo così totalmente impersonale l’atto di uccidere. In questo modo «l’uccisore non viene a trovarsi nella situazione-stimolo che altrimenti attiverebbe le sue inibizioni a uccidere»lxxxvi. La deritualizzazione della guerra contemporanea è stata possibile grazie all’invenzione di potentissime armi che funzionano a distanza.

La facilità di perpetuare violenze andrebbe quindi di pari passo con l’evoluzione tecnologica e culturale, caratteristica degli esseri umani. Sui rapporti tra civiltà e violenza sono state date molteplici interpretazioni ma nessuna di questa riesce a cancellare la sensazione di disorientamento di fronte alla violenza assoluta che la guerra porta con sé.

Sofsky individua quattro principali posizioni degli studiosi di fronte al fenomeno della violenza delle guerre.

La prima è quella di considerarla una regressione passeggera in un’altrimenti ininterrotto progresso della civiltà.

La seconda è la tesi diametralmente opposta alla prima che vede nella modernità il presupposto per lo scatenarsi della violenza: «la civiltà in sé è la condizione sufficiente per la frattura della civiltà. […] La scienza moderna doveva produrre la bomba, la burocrazia statale doveva tramutarsi nel servizio pubblico del genocidio, il carattere sociale autoritario doveva diventare un omicida di massa»lxxxvii.

Queste sembrano essere le conseguenze estreme del discorso di Adorno e Horhkeimer a cui fa da contraltare però la terza tesi, sostenuta principalmente da Zygmunt Bauman per il quale «la modernità non è una condizione sufficiente per il terrore, ma una condizione necessaria»lxxxviii.

La quarta posizione, infine, è la più provocatoria per l’ottimismo sociologico: «non esiste alcun rapporto tra civiltà e violenza assoluta perché non c’è stato nessun mirato processo della civiltà, nessuna evoluzione dell’aspetto umano»lxxxix. Decisive in questa direzione sono state le scoperte di Hans Peter Duerr sull’inalterabilità delle strutture emotive e razionali dell’uomo; al cambiamento sociale e tecnico non è corrisposto, lungo l’arco dei secoli, un cambiamento morale. Questo spiega come la violenza e la crudeltà siano delle presenze costanti della storia della cultura così come i tentativi di arginarle attraverso norme sociali e controllixc.

Per Sofsky «la guerra offre la rara occasione di poter uccidere una grande quantità di persone: ciò che viene negato nella società civile, in guerra è permesso, anzi è offerto»xci. Entro la cornice istituzionalizzata della guerra le azioni di violenza, anche efferata, perdono quel carattere di devianza che avrebbero se compiute all’interno del contesto sociale normale. Basti pensare alla furia omicida degli incensati eroi delle battaglie dell’antichità: questa furia presentava tutte le caratteristiche presenti negli omicidi della cronaca nera (desiderio di annientamento, presenza di spirito, sprezzo del pericolo, libertà di eccedere)xcii.

Ciò rimanda ancora una volta all’intima costituzione dell’essere umano al cui centro per Sofsky non vi è la violenza bensì la paura, il terrore della sofferenza fisica. Riprendendo il racconto che Hobbes fa nel Leviatano, Sofsky spiega come sia la consapevolezza della propria vulerabilità a rendere l’uomo aggressivo e non un istinto innato: «la guerra di ogni singolo contro l’altro non consiste in un infinito bagno di sangue, ma nella costante paura che esso avvenga. Origine e fondamento della socializzazione risiedono nella paura reciproca degli esseri umani. […] Tutti gli esseri umani sono uguali perché tutti sono corpi. Si stringono l’uno all’altro per difendersi l’uno dall’altro. Si mantengono in vita stabilendo come sopportarsi a vicenda»xciii.

«L’umanità è certo riuscita a sopravvivere, ma non ha mai acquistato la certezza di essere al sicuro dal pericolo dell’autodistruzione»xciv.

7. I vizi del ragionamento umano e il bisogno di rassicurazione

Critico verso la posizione di Sofsky e di tutti quanti sostengono la naturale propensione dell’uomo alla crudeltà, Adriano Zamperini fa notare come la suddetta propensione sia tutt’altro che naturale. Oltre agli studi di psicologia sono infatti innumerevoli le testimonianze dirette che smentiscono il supposto piacere naturale di uccidere. Basti pensare, ad esempio, alla «difficoltà riscontrata nel rendere i soldati pronti a far fuoco sul nemico; una ritrosia non facilmente superabile nemmeno dall’esigenza di perseguire scopi militari legittimati dal consenso sociale»xcv. Svariate sono le ricerche volte a dimostrare che «è probabile che veniamo al mondo con inclinazioni non solo all’autoaffermazione, alla competizione e all’aggressione ma anche alla cooperazione all’altruismo e alla sensibilità verso gli altri»xcvi.

Alcuni studiosi, come il biologo Marc Hauser, si spingono addirittura a sostenere l’esistenza di un innato senso morale nell’essere umano, «un’unica, universale grammatica morale assai più dipendente dal nostro DNA che dall’educazione»xcvii. Senza arrivare alle posizioni estreme di Hauser, tra gli studiosi vi è un buon livello di accordo sul ritenere la propensione al comportamento morale qualcosa di non ascrivibile solo all’educazione e alle necessità della vita associativa, ma riferibile alla presenza di fattori inconsci legati alla vita emozionale e a predisposizioni ereditariexcviii.

Per rigor di completezza specifichiamo che le persone intrinsecamente pericolose, antisociali e – se proprio vogliamo usare questo termine – cattive, a scapito del contesto in cui operano, esistono: si tratta di soggetti affetti da un particolari disturbi di personalità che consistono nella quasi assente sensibilità verso l’altro ed eventualmente in una tendenza all’impulsività aggressiva. Ma è importante sottolineare che si tratta di un disturbo cronico (il DSM-IV lo fa rientrare nella diagnosi del Disturbo Antisociale della personalità – APD-) che coinvolge il 3% della popolazione maschile e meno dell’ 1% di quella femminilexcix. Non è quindi sicuramente a questi individui, che generalmente sono rinchiusi in reparti psichiatrici o in prigione, che sono ascrivibili le atrocità della cronaca nera, della guerra o in generale dei conflitti tra gruppi, istituzionalizzati o meno che siano.

Il centro dell’analisi della violenza dovrebbe stare altrove.

Non porta a nessuna conclusione soddisfacente il disquisire o meno sulla presunta cattiveria o bontà dell’essere umano: le categorie morali di “buono” e “cattivo”, di “bene” e “male” con le loro incarnazioni simboliche, hanno una loro utilità per l’essere umano, in quanto gli permetto di orientarsi nel mondo senza dover troppo riflettere, ma sono altresì di ostacolo alla comprensione dei problemi sociali e psicologici effettivamente in giococ.

Il vizio di questo modo di vedere le cose risiede nel funzionamento stesso del ragionamento umano. Tra questi vizi di fondo che ci portano a credere in una natura umana violenta o intimamente morale ve ne sono quattro principali.

Il primo è il famoso errore fondamentale di attribuzione i cui effetti abbiamo avuto modo di vedere nei paragrafi precedenti e che qui richiamo brevemente nelle sue caratteristiche principali: si tratta di una deformazione sistematica del modo di interpretare i comportamenti altrui e che porta a sottovalutare l’influenza del contesto e a sopravvalutare le caratteristiche dell’attore sociale. La tendenza a classificare le persone e preferibilmente in termini morali è una propensione che si può trovare fin dalla più tenera età: è tipico dei bambini di due o tre anni dividere gli esseri animati in modo manicheo, in buoni e cattivici. Svariate ricerche hanno dimostrato come questo modo di interpretare gli eventi si riveli il più delle volte erroneo.

In secondo luogo vi è l’attitudine, riscontrabile fin dal primissimo anno di vita, di leggere i comportamenti come intenzionati, diretti ad uno scopo. Siamo di fronte a ciò che viene chiamata la teoria ingenua della mente: una predisposizione ad interpretare le menti (mind reading), a vedere una progettualità consapevole dietro ogni azione umana o evento. In realtà «è raro che le nostre azioni siano frutto di una vera deliberazione progettuale»cii. Nel nostro modo di leggere la realtà è inusuale che riconosciamo il ruolo del caos, del caso e dell’inconsapevolezza nel determinare l’andamento degli eventi; la tendenza prevalente è quella di generalizzare l’attribuzione di intenzione non solo alle persone, ma anche agli animali e persino alle cose inanimate: in particolar modo di fronte agli eventi impressionanti e insoliti «il modo più semplice di dar loro un senso consiste nel presupporre intenzioni identificabili, magari in Dio stesso»ciii o in un nemico o colpevole (e in questo discorso rientrano le descrizioni fatte sopra riguardo le dinamiche intergruppi).

Così arriviamo al terzo punto. La possibilità di sviluppare credenze rassicuranti riguardo la moralità, la razionalità e la prevedibilità della realtà nella quale siamo immersi è possibile grazie ad una generale tendenza alla semplificazione della nostra mente. L’organizzazione della realtà percepita avviene per mezzo di schemi e categorie sociali che, se hanno il vantaggio di accorciare il lavoro cognitivo del percipiente, hanno altresì lo svantaggio di farlo incorrere spesso e volentieri in una serie di errori, determinati dal fatto che «le persone basano il prodotto finale della conoscenza sui concetti che già possiedono, negando talvolta l’evidenza della realtà per conservare le proprie opinioni e credenze»civ. La complessità della realtà, con la miriade di variabili che in ogni momento sono in gioco per determinarla, è difficilmente coglibile nella quotidianità e, per dirla tutta, anche poco sopportabile psicologicamente senza avere grossi contraccolpi in termini di stress e sovraccarico mentale. Il più delle volte, nella vita quotidiana, le persone sono in situazioni in cui la stanchezza, la mancanza di tempo e il sovraccarico cognitivo impediscono di elaborare accuratamente le informazioni prima di emettere un giudizio sociale; per questo motivo le persone usano strategie di pensiero semplificate per emettere gran parte delle inferenze e dei giudizi sulle situazioni che li circondano, nonché per operare delle scelte.

Tutte le ricerche della psicologia sociale condotte nell’ambito della social cognition mostrano – se analizzate da questo punto di vista – come le strategie di conoscenza della realtà dell’essere umano siamo guidate da un bisogno originario di rassicurazione e non da un desiderio intellettuale di cogliere la realtà nella sua complessità con la maggior accuratezza possibile.

Mai, infatti, è in gioco una sola causa isolabile nel determinare gli eventi della realtàcv.

Tutte queste considerazioni ci riportano alla già citata teoria del mondo giusto di Marvin Lerner che lega il concetto di giustizia a quello di merito: «nel mondo le persone ottengono quello che si meritano o, meglio, si meritano quello che ottengono»cvi. Da questa credenza discende logicamente la credenza in un mondo giusto, razionale e controllabile. «Siamo così al riparo dal pensiero di poter diventare vittime innocenti delle circostanze»cvii. Grazie a questa logica il genitore che legge l’ennesimo articolo di cronaca nera in cui un adolescente uccide la madre, «è sicuro che suo figlio non farebbe mai una cosa del genere. In più, pensa che quell’altro ragazzo, l’assassino, di cui legge sul giornale, sia necessariamente una specie di mostro che vive in un ambiente di mostri»; e se invece viene a sapere che proveniva da una famiglia rispettabile, benestante e timorata di Dio, subito pensa ad un raptus, un fortuito caso di follia, «un’anomalia che non fa storia e non fa testo»cviii. Ogniqualvolta un individuo avverte una dissonanza tra le sue credenze, che in un certo senso gli permettono la sopravvivenza, ed eventi inaspettati e contraddittori, fa ricorso a tutta una serie di meccanismi di distorsione percettivacix: «piuttosto che avere un reale e traumatico rapporto con gli avvenimenti, è motivato a perseverare e difendere una credenza rassicurante, aiutato da un apparato di razionalizzazione difensivo»cx.

Dulcis in fundo non si può certo sottovalutare il ruolo della comunicazione di massa e i meccanismi su cui fa leva. Le immagini e le notizie che siamo soliti vedere e sentire durante i telegiornali sono scelte secondo criteri ben precisi volti a sortire negli spettatori determinati effetti e che hanno la loro origine nella vecchia legge di Parck: l’informazione deve sorprendere. «Discende da questa legge, e possiamo osservarlo, che la televisione seleziona dei casi estremi e soprattutto dei casi estremi negativi poiché […] le informazioni dissonanti e negative hanno degli effetti cognitivi più marcati»cxi. Proprio in forza di ciò questi eventi negativi diventano facilmente reperibili nella nostra memoria. Così da essere disponibili con maggior frequenza nelle associazioni che facciamo nel formulare i nostri giudizi; detto in altri termini i media, facendo perno sui vizi del ragionamento umano – in questo caso su quella che viene chiamata euristica della disponibilità -, possono contribuire alla formazione dell’opinione pubblica rispetto a una persona o a un gruppocxii. In questo modo le persone fanno spesso delle inferenze poco razionali: concludono con una fretta pericolosa oppure si lasciano guidare dai casi estremi, confondendo così delle impressioni interiori con dei fatti esternicxiii.

Detto tutto ciò possiamo affrontare il discorso sulla violenza in tutt’altri termini.

Da un lato «basta un piccolo slittamento nelle regole implicite in un dato ambiente, basta una minima deviazione di percorso»cxiv perché quella che fino a poco prima era una “brava persona” si trasformi in un individuo capace di comportamenti inumani, sia verso sconosciuti, come ha dimostrato l’esperimento di Milgram, sia verso un altro gruppo, come ha dimostrato Zimabardo. Dall’altro lato però «il 99% di quegli assassini e torturatori in pectore che noi siamo, per quanto costeggi per tutta la vita situazioni in cui può diventare l’eccitato autore di pratiche ripugnanti, di fatto non uccide né tortura mai nessuno»cxv.

Ciò che una persona sceglie di fare non è determinato da disposizioni genetiche o da una personalità particolare, bensì da una combinazione di fattori: il ruolo preponderante l’hanno, in contrasto con il senso comune, le circostanze ambientali ma non va tralasciato nemmeno il ruolo del bagaglio di esperienze personali e non per ultimo il modo in cui è strutturato il nostro cervello. Pare infatti che «ogni esemplare della specie umana disponga delle risorse potenziali per fare con una certa efficienza ciò che desidera in circostanze diversissime, ma che non disponga nel proprio animo di segnali di allarme altrettanto efficaci, capaci di bloccare le sue imprese più distruttive»cxvi. Una volta tolto da un contesto quotidiano e abituale, in cui vigono comportamenti socialmente accettabili, l’essere umano può «fare, in pratica, quasi qualsiasi cosa, anche cose molto cattive, soprattutto se vi sono persone che condividono in quel momento»cxvii le sue iniziative.

«La grande fortuna, insomma, è che non veniamo mai collocati in situazioni come quelle escogitate da Milgram e Zimbardo»cxviii.

8. Responsabilità e vicinanza

Lo stesso Milgram arriva a conclusioni analoghe al termine del suo oramai famoso esperimento: «benchè le tendenze aggressive siano parte della natura umana – spiega Milgram in uno dei capitoli finali del suo libro – esse hanno ben poco a che vedere con il comportamento osservato nel corso dell’esperimento. Non servono neppure a spiegare le tendenze distruttrici di un soldato di guerra […]. Il tipico soldato uccide perché così gli è stato ordinato e considera suo dovere eseguire gli ordini»cxix. Non sono tendenze distruttive represse che fanno inviare le scosse elettriche, «ma il fatto che i soggetti si trovano integrati in una struttura sociale dalla quale sono incapaci di uscire»cxx.

Ne consegue che la crudeltà risulta scarsamente correlata con le caratteristiche personali di chi la commette, mentre lo è fortemente con le strutture di potere e la dinamica dell’obbedienzacxxi. La crudeltà non viene commessa da persone crudeli, «ma da uomini e donne comuni che cercano di assolvere nel modo migliore i loro normali compiti»cxxii. A riprova di ciò vi è una delle varianti dell’esperimento di Milgram, in cui i soggetti erano liberi di infliggere un voltaggio qualsiasi alla vittima, senza alcun intervento da parte dello sperimentatore in camice bianco. Pur disponendo della massima libertà, quasi tutti i soggetti si sono serviti delle scosse a basso voltaggiocxxiii. Nell’esperimento base, inoltre, i soggetti portavano a termine la prova con refrattarietà perché la trovavano sgradevole, ma si sentivano obbligati a compierla fino in fondo. Molti di loro protestavano durante la somministrazione delle scosse alla vittime, ma erano incapaci di sottrarsi all’autorità dello sperimentatore. I soggetti che mostravano un certo gusto nel far urlare di dolore la vittima erano una vera raritàcxxiv.

Tra gli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso sono stati fatti numerosi esperimenti sul fenomeno della sottomissione liberamente scelta: nel 1959 l’esperimento di Festinger e Carlsmith, nel 1962 quello di Cohen e quello di Brehm e Crocker, nel 1963 quello di Aronson e Carlsmith. In tutti questi esperimenti «lo sperimentatore è riuscito a influire sulle idee o sulla sensazione dei soggetti, utilizzando alla fin fine la medesima strategia»cxxv, che consiste nell’ottenere dal soggetto un atto di sottomissione forzata, decisamente contrario alle sue idee (come nell’esperimento di Festinger e Carlsmith o in quello di Cohen) o ai suoi interessi e motivazioni (come nell’esperimento di Aronson e Carlsmith o di Brehm e collaboratori). Le principali teorie di riferimento per spiegare questo riaggiustamento di idee e sensazioni (chiamato razionalizzazione), sono quella di Festinger e quella di Bem.

La teoria della dissonanza cognitiva di Festinger, già citata precedentemente, sostiene che i soggetti, una volta compiuta una scelta o un atto in netto contrasto o disaccordo con le proprie cognizioni, non riuscendo a reggere il disagio provocato da questa dissonanza, modificano o la propria cognizione o i propri atti o scelte per ridurre questa dissonanza e ritrovare coerenza nei propri comportamenti. In particolare, riprendendo i risultati degli esperimenti, più le minacce e le ingiunzioni da parte dell’autorità sono forti minore è la dissonanza che l’individuo provacxxvi.

Anche secondo la teoria dell’autopercezione di Bem «se il soggetto […] è stato sottoposto a una severa minaccia affinchè si comporti nel tale o talaltro modo, potrà facilmente inferire che il suo comportamento si spiega grazie alle circostanze e non riflette quindi per nulla le sue opinioni o sentimenti»cxxvii. Il comando autoritario deresponsabilizza e consente all’individuo di non sentirsi coinvolto nelle proprie azioni.

Ciò che consente agli esseri umani di comportarsi crudelmente non è quindi l’emergere di una recondita natura ferina, ma l’inibizione morale. Vengono a mancare quei segnali di allarme, di cui parla Jervis, che ci permettono di astenerci dal portare avanti azioni decisamente incivili, asociali, se non addirittura atroci e violente. Secondo Zamperini sono tre i fattori che, agendo congiuntamente o singolarmente, consentono l’inibizione morale nell’esercizio di crudeltà: l’autorizzazione, la routine e la disumanizzazionecxxviii.

Tramite l’autorizzazione all’individuo è possibile scaricare la propria responsabilità riconoscendo al superiore – l’autorità per l’appunto – il diritto di impartire ordinicxxix. Assolto così dalla responsabilità di operare scelte secondo criteri morali, l’individuo non si cura più delle conseguenze delle sue azioni: precipita in uno stato eteronomico, in cui il sentire personale cede il passo agli obblighi di ruolo.

La routine permette di trasformare le azioni in procedure meccanizzate e super-organizzate; il ruolo della decisione e della scelta è completamente azzerato nel meccanismo della routine e evitando di scegliere, si evita l’emergere di dissonanze cognitive e dilemmi morali.

Attraverso la disumanizzazione, come abbiamo visto nel paragrafo 5, la vittima o il gruppo antagonista viene privato di tutti quegli attributi che lo renderebbero degno di compassione, pietà ed aiuto. La disumanizzazione permette l’atrofia emotiva dell’attore sociale – in questo caso sarebbe meglio chiamarlo “esecutore sociale” – di fronte alle conseguenze dei propri comportamenticxxx.

Un ruolo imprescindibile in tutti e tre questi processi che concorrono all’inibizione morale è quello della distanza, intesa come psicologica e fisica.

Riprendiamo l’esperimento di Milgram. Una delle varianti (variante 4, “Touch Proximity”)cxxxi prevedeva che il soggetto premesse la mano della vittima su una piastra attraverso cui veniva somministrata l’ipotetica scossa elettrica. In questo caso la percentuale dei soggetti che continuarono a infliggere scosse fino alla fine dell’esperimento scese al 30%, cioè meno della metà dei soggetti che hanno inflitto le scosse di potenza massima nella versione iniziale dell’esperimento (62,5%). Ricordiamo che nella versione iniziale le supposte vittime erano nascoste dietro una parete e i soggetti infliggevano le scosse tramite un pannello di controllo, di modo che potessero sentirne solo le grida. Eliminando il sonoro (variante 1, “Remote Feedback”) la percentuale dei soggetti disposti ad arrivare fino in fondo salì solo fino al 65%.

«Sembra dunque che i nostri sentimenti passino per lo più attraverso gli occhi. Quanto maggiore era la distanza fisica e psicologica dalla vittima, tanto più facile risultava essere crudeli»cxxxii.

È noto che il distanziamento della vittima era il perno su cui poggiava il buon funzionamento dei campi di sterminio nazisti. La distanza sociale rende insensibili alla sofferenza della vittima, difende come uno schermo da qualsiasi scrupolo derivante dalla compassione e dal senso di colpacxxxiii. Nelle condizioni di vicinanza le azioni del soggetto cadono sotto lo sguardo della vittima e questo può provocare sensi di colpa che tendono a loro volta a bloccare l’azionecxxxiv. «In breve, nelle condizioni di vicinanza, il soggetto può sentire di essere esposto al campo percettivo della vittima, e questo gli crea imbarazzo, vergogna e inibizioni a punirla»cxxxv. Basti pensare alla pratica abituale di bendare la vittima di fronte al plotone di esecuzione; o, di contro, ai sintomi d’angoscia manifestati dai soldati americani in Vietnam che bombardavano i villaggi dagli elicotteri, volando a bassa quota. Tutto ciò mostra con evidenza il legame sussistente tra distanza e coinvolgimento emotivo: per produrre violenza bisogna che sia annullato ogni coinvolgimento emotivo, ogni sorta di empatia con l’altro designato a vittima delle nostre azioni.

La distanza è dunque un fattore decisivo nel far vacillare la moralità. Moralità che nell’uomo si rivela così essere più che mai fragile e costantemente minacciata dalla stigmatizzazione stereotipata, dall’ideologia dell’odio, dalla burocrazia e dalla tecnologia.

La crudeltà quindi non risiede in personalità malate ma si sviluppa all’interno di determinati modelli di interazione sociale. Di contro anche la responsabilità non può più essere considerata la virtù di un singolo, bensì una «categoria di relazione [che] si declina […] all’interno di determinati ambiti d’interazione, una dimensione che mette in gioco emozioni, interessi, dominio, cultura. […] La responsabilità tende ad essere empatica e quindi in grado, almeno potenzialmente, di superare le barriere fisiche, la distanza e il tempo che agiscono contro il senso morale»cxxxvi.

Questo tipo di responsabilità – che Zamperini chiama “relazionale”-, governata da sollecitudine e comprensione verso l’altro, si sviluppa generalmente all’interno delle relazioni di attaccamento personale che vigono in ambienti familiari e ristretticxxxvii. «Viceversa, nei contesti allargati prevale l’assenza fisica, una cortesia formale e l neutralità morale»cxxxviii; vige una responsabilità “di ruolo” verso un altro che è generalizzato ed estraneo, circoscritta agli interessi personali e/o societaricxxxix.

L’etologo Ebil-Eibesfeldt, allievo di Lorenzcxl, sostiene che «siamo preparati a vivere in armonia in gruppi ristretti, mentre siamo meno inclini a comportarci da amici, onestamente e altruisticamente, verso persone che non conosciamo»cxli. Secondo l’etologo tedesco, vi sono delle caratteristiche tipiche nell’organizzazione e nel funzionamento dei piccoli gruppi che compaiono molto presto durante l’infanzia: le relazioni con i membri del proprio gruppo sono regolate da una generale fiducia e collaborazione e i leader sono scelti, liberamente e consensualmente, in base alla maggior competenza sociale di tipo affilliativo. Di contro i membri esterni al proprio gruppo sono guardati con sospettocxlii.

La capacità di formare legami stretti individualizzati ha la propria origine filogenetica nello sviluppo dei comportamenti di cura diretti ai piccoli: «i comportamenti di cura quali dar da mangiare, pulire, riscaldare e difendere, si sono evoluti insieme alla motivazione ad allevare. Contemporaneamente, si è evoluta nei piccoli la motivazione a cercare protezione e cura, mentre sono emerse risposte in grado di elicitare comportamenti di accudimento da parte dei genitori»cxliii. Queste strategie di comportamento si sono poi estese nei legami tra adulti; basti pensare ai rituali di corteggiamento ove i segnali infantili servono a inibire l’aggressione e a suscitare comportamenti di cura, nonché l’instaurazione e il mantenimento di un legame.

Anche tra gli esseri umani la capacità di instaurare legami affettivi individualizzai ha la sua origine all’interno della famiglia: «i modelli comportamentali che esprmono affetto derivano chiaramente da comportamenti materni come abbracciare, baciare […] e far ricorso ad un linguaggio infantilizzato (baby talkcxliv .

In egual modo la non familiarità suscita immediati sentimenti di sfiducia, che si manifestano fin dai primi mesi di vita: la cosiddetta paura dell’estraneo dei bambini piccolicxlv è un pattern universale che non dipende da precedenti esperienze negative con estranei. «Tale reazione può essere vista come la prima manifestazione di un “noi” (la madre e il bambino) contrapposta agli “altri”. L’evoluzione di questo atteggiamento […] costituisce […] un potenziale nuovo per la formazione di gruppi più ampi», rivelandosi «efficiente a tal punto che i membri di ciascun gruppo, anche se non appartenevano ad un’unica famiglia, erano in grado di legarsi l’un l’altro in maniera tale che il gruppo, in alcune situazioni ( ad esempio in caso di guerra), poteva agire come un’unica unità e poteva diventare così un’unità di selezione»cxlvi.

Le dinamiche di comportamento intergruppi viste precedentemente (paragrafo 4) originano da questa distinzione primaria tra “noi” e “altri”, evolutasi poi nella distinzione tra amici e nemici all’interno della stessa specie.

9. Sovraffollamento e altruismo

Tenuto conto di questa predisposizione filogenetica dell’uomo all’etica del piccolo gruppo, possiamo meglio comprendere come «l’aumento del numero di individui appartenenti alla stessa comunità è di per sé sufficiente a sconvolgere l’equilibrio tra vincoli personali e pulsione aggressiva. […] L’affollamento di molti individui in uno spazio ristretto provoca un rilassamento di tutte le relazioni sociali»cxlvii.

Il boom demografico e la densità di popolazione delle città odierne ci costringono a vere e proprie «indigestioni di rapporti sociali»cxlviii, anonimi e standardizzati, entro i quali però dobbiamo cercare di comportarci eticamente: «a differenza del passato ci dobbiamo oggi confrontare con il comando etico di amare persone che non conosciamo, che sono unicamente nostri concittadini, connazionali, o, addirittura, che fanno semplicemente parte dell’”umanità”»cxlix. Tra le norme sociali presenti in una cultura pluralista e complessa come la nostra ve ne sono molte che prescrivono aiuto e solidarietà verso chi si trova in difficoltà: la norma della reciprocità, la norma della responsabilità sociale e la norma che protegge la privacy familiarecl. Si tratta però di norme che regolamentano quella “responsabilità di ruolo” di cui parlavamo del paragrafo precedente, «incline a esiliare l’altro in un mondo regolato da principi astratti e norme procedurali»cli.

A questo punto viene spontaneo porsi nuovamente degli interrogativi. E’ così difficile aiutare il prossimo? Come mai nelle nostre società regna l’indifferenza e l’egoismo? Esiste l’altruismo puro?

Il percorso fatto nei paragrafi precedenti ci ha messo in guardia dal confidare nell’esistenza di personalità dalle caratteristiche stabili, nonché dal sopravvalutare le cause interne nella spiegazione dei comportamenti altrui. Così come non esiste una personalità autoritaria non esiste una personalità altruista, sebbene anche in questo caso vi sono stati vari tentativi di trovarne i tratti salienticlii.

Non è un caso che l’attenzione riservata ai temi dell’altruismo, non solo all’interno della psicologia, sia caratteristica degli ultimi cinquant’anni del Novecento: «un secolo che sembra averci consegnato, nel passaggio al nuovo millennio, una società di massa globalizzata, dominata dall’interesse personale e dall’indifferenza nei confronti degli altri»cliii. Moltre delle ricerche sui temi dell’altruismo sono «legate alla vita che caratterizza quegli immensi agglomerati di individui che sono le metropoli contemporanee»cliv.

Tra queste particolarmente interessanti sono quelle sull’apatia degli spettatoriclv, che confermano la mancanza di sollecitudine verso gli stranieri in difficoltà nel contesto degli spazi urbani contemporanei. Famoso, per aver scosso l’opinione pubblica negli anni Sessanta, è il caso dell’aggressione a Catherine Genovese, avvenuta sotto gli sguardi di trentotto cittadini newyorkesi (del quartiere di Queens), che sono rimasti ad osservare la scena dietro i vetri delle loro finestre per ben trenta minuti senza intervenireclvi. O ancora, senza andare troppo lontano nel tempo, basta pensare alle «frequenti aggressioni sessuali subite da donne in treno o in metropolitana mentre dozzine di persone distolgono gli sguardi senza muovere un dito per intervenire»clvii. Anche in questi casi è bene riferirsi alla situazione per spigare i fenomeni.

Numerosi esperimenti e ricerche sul campo – fatti nell’arco di dieci anni – confermano l’ipotesi secondo la quale «in un contesto collettivo il senso di responsabilità che connette gli individui come soggetti di relazioni sociali tende a diffondersi tra più persone, diminuendo l’entità del coinvolgimento personale»clviii. Questo fenomeno, che va sotto il nome di “diffusione della responsabilità”, spiega la bassa probabilità che un individuo presti aiuto in una situazione affollata, ove sono presenti più persone che potenzialmente possono soccorrere la vittima: «la conoscenza che altri individui sono presenti e disponibili a rispondere alle esigenze, persino se la persona non può vederli o non può essere vista, permette di dislocare verso di loro una parte della responsabilità inerente all’aiuto»clix. L’inerzia dello spettatore è quindi guidata principalmente dalla credenza nell’intervento altrui, nonché influenzata da altri fattori come l’“inibizione da pubblico” (la presenza di altri può inibire l’azione di aiuto perché si teme la loro valutazione negativa o una cattiva interpretazione di nostri atti) o varie forme di influenza sociale.

Nuovamente ciò che dev’essere chiamato in causa non è il fondo cattivo ed egoistico degli esseri umani, bensì una costellazione di fattori tra i quali la situazione in cui l’attore sociale si trova o meno ad agire è fondamentale. Per comprendere il fenomeno dell’altruismo è bene considerarlo «come una relazione tra gli individui e soprattutto come una relazione tra individuo e società»clx. Come osservano Rushton, Futz e Cialdini, si soccorrono gli altri in situazioni ben determinate, mentre pressoché nessuno si mostra caritatevole in altre situazioni: «non abbiamo […] ragione di dire che qualcuno è altruista o di prevedere che, perché si è comportato in maniera altruista in un contesto, lo farà ancora in una altro»clxi.

L’altruismo ideale, inteso come «un comportamento che si esercita a beneficio di altri senza che ci si aspetti la benchè minima ricompensa da una fonte esterna»clxii, è una rappresentazione sociale della nostra cultura ma non rispecchia la reale dinamica delle cose: «le sole regolarità osservate sono regolarità di situazione o, più esattamente, di relazione»clxiii e non di personalità.

Tutte le società e le culture infatti possiedono un sistema di classificazione delle relazioni che le distingue in relazioni altruiste ed egoiste, unito a un repertorio di situazioni in cui occorre aiutare o meno chi si trova in difficoltà. In altri termini vi sono, in seno alle varie società, rappresentazioni sociali complete che definiscono chi le situazioni nelle quali è consono comportarsi altruisticamente e i soggetti che possono avvantaggiarsi del nostro aiuto, nonché i mezzi con cui attuarloclxiv.

Come fa notare Serge Moscovici, sono le rappresentazioni sociali che danno senso ai comportamenti individuali, per questo è fuorviante descrivere – come del resto fanno molti studiosi – l’altruismo come una virtù o una superiorità morale. Filosofi e psicoanalisti ci hanno da tempo messo in guardia dall’aderire a quest’opinione assai diffusa e semplificatoria della natura umana. Ma questa non è la sede per addentrarci nelle teorie di questi pensatori. Basti qui ricordare il principio economico secondo il quale “non si ha niente per niente”. Sulla base di questo principio Moscovici descrive due forme miste di altruismo all’interno delle relazioni interpersonali: l’altruismo egoistico e l’egoismo altruistico.

L’altruismo egoistico è tipico di chi incita e presuppone negli altri atteggiamenti di sacrificio e generosità per potersene avvantaggiare ed è «una delle vie inconsapevoli per lo sfruttamento psichico e sociale degli altri»clxv. Come riassume Nietzsche in un passo folgorante: «il vostro vicino loda l’assenza di egoismo perché ne trae vantaggio».

Per quanto riguarda invece l’egoismo altruistico, esso designa tutte quelle situazioni in cui l’entusiasmo e l’empatia per la miseria altrui non nascono da una generosità disinteressata ma da timori e bisogni egoistici: diversi studi dimostrano il senso di colpa e di tristezza accrescano la volontà di aiuto. «Così quando un individuo si sente colpevole, depresso o di cattivo umore, il compiere un atto caritatevole gli permette di superare il suo stato psicologico negativo»clxvi.

Con ciò non si vuole sostenere l’inutilità degli atteggiamenti altruistici ma far luce sulle reali dinamiche in gioco nelle relazioni sociali. Come abbiamo visto dagli studi di etologia comprata la collaborazione, il sostegno reciproco, il prendersi cura reciprocamente, sono comportamenti che si sono rivelati indispensabili alla sopravvivenza delle specie e alla loro evoluzione. Questo vale ancor di più per la specie homo sapiens sapiens: «se non fosse per una ricca dotazione di istinti sociali l’uomo non avrebbe mai potuto elevarsi al di sopra del mondo animale. Tutte le facoltà specificamente umane […] si potevano evolvere soltanto in un essere che ancor prima degli albori del pensiero concettuale vivesse vivesse in comunità ben organizzate»clxvii.

Sulle basi di questi profondissimi strati della costituzione degli esseri umani è andata sviluppandosi tutta quella enorme sovrastruttura di norme sociali, riti, rappresentazioni, che formano oggi la cultura e la società umana e che, tra le altre cose, contribuiscono a generare tutta una serie di illusioni e credenze. Tra queste vi è appunto anche quella dell’esistenza della qualità morale e individuale dell’altruismo.

10. Conclusioni

Non posso purtroppo dilungarmi oltre nella trattazione di questi argomenti che richiederebbero – me ne rendo conto – ben altri spazi per essere scandagliati.

Per questo motivo ho tralasciato di utilizzare qui parte della sterminata letteratura psicanalitica che esiste sul tema. L’approccio disciplinare cui ho tentato di tener fede è quello della psicologia sociale cui ho aggiunto spunti tratti dall’etologia comparata, dalla filosofia e dalla letteratura.

Obiettivo che ha mosso la mia ricerca è quello di far luce su una serie di illusioni sociali grazie alle quali ci difendiamo dal fatto che quella che amiamo chiamare «la natura umana […] non solo è irragionevole ma […] si rifiuta di ragionare»clxviii. Per esemplificare ciò mi sono concentrata su due difetti morali considerati dagli uomini particolarmente disdicevoli e degradanti, tanto da venir considerati inumani. Mi riferisco alla cattiveria, intesa sia come violenza e aggressività sia come indifferenza all’altro, e alla stupidità, intesa come cattivo uso delle capacità razionali e di ragionamento.

Citando ancora Konrad Lorenz volevo far notare come «troppo volentieri l’uomo si vede ancora centro dell’universo, qualcosa di non appartenente al resto della natura, un essere essenzialmente diverso e superiore. Persistere in questo errore è per molti uomini un bisogno, restano sordi al più intelligente dei precetti che mai saggio abbia dato loro, al famoso […] “conosci te stesso” detto da Chilone ma generosamente attribuito a Socrate. Che cosa impedisce agli uomini di obbedirgli?»clxix.

La loro superbia e la loro stupidità risponderei io, precisando che con stupidità del genere umano non intendo un carenza generica «di raziocinio […], ma […] una serie di disfunzioni individuali e sociali che dipendono […] da guasti e storture della mente di tutti noi, dai difetti tipici del cervello della nostra specie, da errori sistematici inerenti al modo stesso di pensare di tutti, veramente tutti, gli esseri umani»clxx.

Concluderei a questo punto con toni meno gravi, riportando qui le “leggi fondamentali della stupidità umana” individuate da Carlo Maria Cipolla in un suo piacevolissimo divertissement del 1988. Prima di esporle bisogna tratteggiare brevemente lo schema quadripartito in cui Cipolla inquadra la sua analisi della stupidità. Anzitutto Cipolla separa gli stupidi dai malandrini, o banditi, che daneggiano gli altri per trarne vantaggio personale; in secondo luogo separa gli stupidi dai semplici sprovveduti, cioè da coloro che “si danno la zappa sui piedi”, danneggiando con le loro azioni solo se stessi e suscitando al massimo compatimento negli altri; e naturalmente Cipolla separa gli stupidi dagli intelligenti ossia di coloro che assumono atteggiamenti che producono vantaggi sia per sé e nel contempo per gli altri. Inutile dire che per Cipolla gli individui intelligenti sono rarissimi, mente gli stupidi sono i più numerosi e anche i più pericolosi, visto che con le loro azioni danneggiano, in modo assolutamente irrazionale, sia sé che gli altri. Ed ora ecco le quattro leggi della stupidità umana:

  1. «sempre e comunque ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione»clxxi;

  2. «la probabilità che una persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona»clxxii;

  3. «una persona stupida è una persona che causa danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita»clxxiii;

  4. «le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore»clxxiv;

  5. «la persona stupida è il tipo di persona più pericolosa che esista»clxxv.

Il problema è che – chi più chi meno – un po’ tutti gli esseri umani sono stupidi, cioè hanno degli strumenti cognitivi fragilissimi verso i quali hanno però aspettative altissime, e sono di conseguenza potenzialmente pericolosi. «Perché la minaccia che pesa sull’umanità attuale non è tanto la sua potenza nel governare fenomeni naturali quanto la sua impotenza nel dirigere ragionevolmente processi sociali»clxxvi.

iGolding, W., Il signore delle mosche (1966), Arnoldo Mondadori, Milano, 1992, pp. 179-180.

iiCfr. «Introduzione», in Golding, W., Il signore delle mosche, op. cit., p. VIII.

iiiGolding ha un’esperienza di partecipazione diretta alla Seconda Guerra Mondiale: viene arruolato in marina e si distingue partecipando all’affondamento della corazzata tedesca Bismark e allo sbarco in Normandia (Cfr. ivi, pp. V-VI).

ivCfr. ivi, p. VI.

vCfr. la voce “etica” nell’Enciclopedia di filosofia, Garzanti, Milano, 2001, p. 346.

viJervis, G., Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 37.

viiCfr. Cioffi, F., «La discussione sul sentimento morale: il problema dell’etica nella filosofia inglese e scozzese del Settecento», in Cioffi, F, Luppi, G., Vigorelli, A., Zanette, E., Il testo filosofico. L’età moderna, vol. 2 (1992), Bruno Mondadori, Milano, 1998, pp. 978.

viiiCfr. ibidem

ixCfr. ivi, p. 979.

xZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Il ruolo degli spettatori nelle atrocità collettive, Einaudi, Torino, 2001, p. 3.

xiIvi, p. 4.

xiiCfr., Beauvois, J.-L., Dubois, N., «Credenze interne e credenze esterne», in Moscovici, S. (a cura di), La relazione con l’altro, Raffaello Cortina, Milano, 1997, pp. 203-205.

xiiiIvi, p. 203.

xivZamperini, A., Psicologia dell’’inerzia e della solidarietà. Il ruolo degli spettatori nelle atrocità collettive, op. cit., p. 5.

xvCfr. ibidem

xviIvi, p. 40.

xviiArendt, H., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano, 1964.

xviiiJervis, G., Pensare dritto, pensare storto, op. cit., p. 13.

xixIbidem

xxCfr., «L’aggressività e l’altruismo», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 183.

xxiCfr., Jervis, G., Pensare dritto, pensare storto, op. cit., p. 14.

xxiiCfr. Milgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale (1963), Einaudi, Torino, 2003, p. 158 e p. 181 e sgg.. Tra le critiche più feroci all’esperimento di Milgram vi sono quelle della dottoressa Diana Baumrind e quelle presenti nella commedia di Dannie Abse I cani di Pavlov, rappresentata a Londra nel 1971 e nella quale si utilizza come tema drammatico centrale l’esperimento sullìobbedienza.

xxiii«Per di più, quando gli esperimenti sono stati ripetuti a Princeton, a Monaco, a Roma, in Sudafrica e in Australia, poiché i metodi per reclutare i soggetti variavano da una situazione all’altra, i campioni avevano delle caratteristiche diverse e il livello d’obbedienza era regolarmente un po’ più alto di quello riscontrato a Yale». (Cfr. ivi, p. 159)

xxivCfr. Milgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, op. cit.

xxvGoldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano, 1997.

xxviZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà, op. cit., p. 6.

xxviiIvi, p. 6

xxviiiCfr. «Il giudizio sociale», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 51.

xxixPer i due autori infatti l’intenzione è il prodotto delle credenze personali circa le conseguenze dei propri comportamenti e delle credenze circa il ruolo dell’ambiente sociale che fornisce norme condivise sui comportamenti adeguati in determinate situazioni. (Cfr., ivi, p. 52).

xxxCfr., ibidem.

xxxiErikson, M., International journal of psychiatry, ottobre 1968, pp. 278-279, citato in Milgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, op. cit., pp. 188-189.

xxxiiCon il termine “sindrome” si intende qui una particolare associazione di atteggiamenti presenti in una persona. (Cfr., Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà, op. cit., nota 3, pag. 43).

xxxiiiCfr., Adorno et alii, La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1973. Opera citata anche da Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà, op. cit, pp. 42-48.

xxxivFromm, E., Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, Milano, 1963

xxxvAbraham Maslow è stato il fondatore, insieme a Carl Rogers, Fritz Perls, Charlotte Bühler e altri, di un approccio psicologico che, in netto contrasto con il comportamentismo, mette al centro lo sforzo attivo dell’uomo verso la propria autorealizzazione, verso una vita piena. Dalla metà degli anni Sessanta dalla psicologia umanistica si sviluppa ad opera in particolare di Maslow e Stanislav Grof la psicologia transpersonale, che intende applicarsi allo studio della coscienza, comprendendo anche i processi di modificazione ampliamento della stessa. (Cfr., Lück, H.E., Breve storia della psicologia, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 176- 179).

xxxviCfr., Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà, op. cit., p. 44.

xxxviiErikson, E., Infanzia e società, Armando, Roma, 1960.

xxxviiiVegetti Finzi, S., Storia della psicoanalisi. Autori, opere, teorie 1895-1990 (1986), Mondadori, Milano, 2004, p. 289

xxxixBauman, Z., Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 213.

xlDe Grada, E., Bonaiuto, M., «Qualche considerazione sulla psicologia sociale discorsiva», in Sensales, G. (a cura di), Percorsi teorico-critici in psicologia sociale, FrancoAngeli, Milano, 2003, p. 73.

xliCfr., Jervis, G., Pensare dritto, pensare storto, op. cit., p. 15. Jervis trae a sua volta il racconto dell’esperimento dall’articolo scritto da Haney, C., Banks, C. e Zimbardo, P.G., Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison apparso nel 1973 sulla rivista «International Journal of Criminology and Penology».

xliiCfr., «Le relazioni fra i gruppi sociali», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 236. Qui il riferimento è a Sherif. M., Group conflict and cooperation: their social psychology, London, Routledge and Kegan Paul, 1966, p. 62.

xliiiCfr., ivi, p. 240.

xlivPer Kurt Lewin «non è la somiglianza o la diversità che decide se due individui appartengono a uno stesso gruppo o a due gruppi diversi, ma l’interazione sociale o altri tipi di interdipendenza. Un gruppo è definito al meglio come una totalità dinamica basata sull’interdipendenza invece che sulla somiglianza». (Lewin, K., I conflitti sociali, Angeli, Milano, 1972, p. 184)

xlvTajfel, H., Flament, C., Billig, M., Bundy, R.P., Social categorization and intergroup behaviour, in «European journal of social psychology», n.1, 1971, pp. 149-178. Citato in «Le relazioni fra i gruppi sociali», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 241.

xlviCfr., ivi, p. 245.

xlviiCfr. Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Il ruolo degli spettatori nelle atrocità collettive, op. cit., pp. 88-89.

xlviiiCfr. ivi, pp. 89-90

xlixCfr. ivi, p. 90.

lCfr. ivi, pp. 135-136. Corsivo mio.

liIvi, p. 136.

liiCfr. ibidem

liii«Il giudizio sociale», in Palomonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 70.

livCfr. Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Il ruolo degli spettatori nelle atrocità collettive, op. cit., pp. 136-137. Corsivo mio.

lvJones, E.E. e Nisbett, R.E., «The actor and the observer: divergent perceptions of the causes of behaviour», in AA.VV., Attribution. Perceiving the causes of behaviour, General Learning Press, Morristown, 1972. Citato in «Le relazioni fra i gruppi sociali», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 261.

lviAllport, G., La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze, 1973. Citato in «Le relazioni fra i gruppi sociali», in Palomonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 261.

lviiCfr. «Il sé e l’identità», in ivi, pp. 139-140.

lviiiZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Il ruolo degli spettatori nelle atrocità collettive, op. cit., p. 137.

lixCfr. Sofsky, W., Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, Einaudi, Torino, 2001, p. 112.

lxZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Il ruolo degli spettatori nella atrocità collettive, op. cit., p. 137.

lxiCfr. ivi, pp. 137-138.

lxiiIvi, p. 138.

lxiiiIbidem

lxivIbidem

lxvBauman, Z., Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 215.

lxviIvi, p. 217.

lxviiCfr. «Le relazioni fra i gruppi sociali», in Palomonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 262.

lxviiiSofsky, W., Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, op. cit., p. 63.

lxixDe Luna, G., Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino, 2006, p. XIII.

lxxIvi, pp. XIV-XV.

lxxiIvi, p. XV.

lxxiiCfr., ivi, p. 36.

lxxiiiIvi, p. XVIII.

lxxivIbidem

lxxvCfr. ibidem

lxxviCfr. «L’aggressività e l’altruismo», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 196.

lxxviiCfr. Celli, G., «Introduzione», in Lorenz, K., L’aggressività, Net, Milano, 2005, p. 17.

lxxviiiSull’importanza del contributo dell’etologia negli studi di psicologia sociale cfr. Attili, G., «La psicologia sociale evoluzionistica e i contributi della scuola tedesca e della scuola inglese dell’etologia», in Sensales, G., Percorsi teorico-critici in psicologia sociale, op. cit.

lxxixCelli, G., «Introduzione», in Lorenz, K., L’aggressività, p. 11.

lxxxCfr. ivi, p.16.

lxxxiCfr. ivi, p. 17.

lxxxiiIbidem

lxxxiiiLorenz, K., L’aggressività, op. cit., p. 155.

lxxxivCfr. ivi, p. 304.

lxxxvCfr. Fornari, F., Psicoanalisi della guerra atomica, Edizioni di Comunità, Milano, 1964.

lxxxviLorenz, K., L’aggressività, op. cit., p. 305.

lxxxviiSofsky, W., Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, op. cit., p. 64.

lxxxviiiIvi, p. 65.

lxxxixIvi, p. 66.

xcIbidem

xciIvi, p. 42.

xciiCfr. ibidem

xciiiSofsky, W., Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino, 1998, p. 6.

xcivLorenz, K., L’aggressività, op. cit., p. 305.

xcvZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, op. cit., p. 140.

xcviJervis, G., Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, op. cit., p. 26.

xcviiIbidem. Il riferimento di Jervis è al libro di Hauser, M.D., Moral Minds. How Nature Designed Our Universal Sense of Right and Wrong, Harper Collins, New York, 2006.

xcviiiCfr. ibidem

xcixCfr. ivi, p. 28.

cCfr. ivi, pp. 28-29.

ciCfr. ivi, pp. 18-19.

ciiIvi, p. 20.

ciiiIbidem

civ«La cognizione sociale», in Palmonari, A., Cavazza, N., Rubini, M., Psicologia sociale, p. 23.

cvCfr. Jervis, G., Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, op. cit., pp. 23-24.

cviZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, op. cit., p. 80.

cviiIbidem

cviiiIbidem

cixQuesta teoria viene chiamata la “teoria della dissonanza cognitiva” di Leon Festinger.

cxIvi, p. 82.

cxiMoscovici, S., «La mentalità prelogica dei popoli primitivi e la mentalità prelogica dei popoli civilizzati», in AA.VV., La relazione con l’altro, op. cit., p. 276.

cxiiCfr. ibidem

cxiiiCfr. ivi, p. 277.

cxivJervis, G., Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, op. cit., pp. 22-23

cxvIvi, p. 23.

cxviIvi, p. 27.

cxviiIbidem

cxviiiIvi, p. 23.

cxixMilgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, op. cit., p. 156.

cxxIbidem

cxxiCfr. Bauman, Z., Modernità e Olocausto, op. cit., p. 214.

cxxiiIbidem

cxxiiiCfr., Milgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, op. cit, p. 156.

cxxivCfr. ivi, p. 157.

cxxvJoule, R.V., «La sottomissione liberamente scelta: il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti sociali», in AA.VV., La relazione con l’altro, op. cit., pp.289-290.

cxxviCfr. ivi, pp. 294-295.

cxxviiIvi, p. 295.

cxxviiiCfr. Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, op. cit., p. 98.

cxxixCfr. Bauman, Z., Olocausto e modernità, op. cit., p.225.

cxxxCfr. Zamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, op. cit., pp. 98-99.

cxxxiPer la descrizione dettagliata della variante “Touch Proximity” vedi Milgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, op. cit., pp. 32 e sgg.

cxxxiiBauman, Z., Olocausto e modernità, op. cit., p. 216.

cxxxiiiCfr. Sofsky, W., L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 346.347.

cxxxivCfr. Milgram, S., Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, op. cit., p. 37.

cxxxvIbidem

cxxxviZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, op. cit., p. 105.

cxxxviiCfr. ibidem

cxxxviiiIbidem

cxxxixCfr. ibidem

cxlQuella che fa capo a Konrad Lorenz e che ha in Eibl-Eibesfeldt il suo attuale rappresentante è chiamata la “scuola tedesca dell’etologia”, che si contrappone nell’interpretazione dei principi basilare dell’opera di Darwin, alla scuola inglese dell’etologia, che ha in Tinbergen e Hinde i suoi più noti rappresentanti. (Cfr. Attili, G., «La psicologia sociale evoluzionistica e i contributi della scuola tedesca e della scuola inglese dell’etologia», in Sensales, G., Percorsi teorico-critici in psicologia sociale, op. cit., p. 146).

cxliEibl-Eibesfeldt, I., «Amore e odio. Basi innate ed elaborazione culturale», in Attili, G. Farabollini, F., Messeri, P., Il nemico ha la coda. Psicologia e biologia della violenza, Giunti, Firenze 1996, p. 4.

cxliiCfr., ivi, pp. 4-5.

cxliiiIvi, p. 5.

cxlivIvi, p. 7.

cxlvE’ noto come dall’età di 6 mesi il bambino comincia a distinguere le persone conosciute da quelle estranee, verso le quali inizia ad indirizzare risposte ambivalenti: accade che il bambino che fino ad un attimo primo sorrideva all’estraneo di colpo nasconda il viso riparandosi con il corpo della madre; oppure, se l’estraneo si mostra indifferente alla sua paura, il bambino accuserà un forte spavento, aggrappandosi alla madre e dando segni di forte evitamento. (Cfr. ibidem)

cxlviIvi, pp. 7-8.

cxlviiLorenz, K., L’aggressività, op. cit., p. 314.

cxlviiiIvi, p. 315.

cxlixEibl-Eibesfeldt, I., «Amore e odio. Basi innate ed elaborazione culturale», in Attili, G. Farabollini, F., Messeri, P., Il nemico ha la coda. Psicologia e biologia della violenza, p. 3.

clCfr. «L’aggressività e l’altruismo», in Palmonari, A., Cavazza, N, Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., pp. 194-195.

cliZamperini, A., Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, op. cit., p.105.

cliiPiliavin e Charng, nel 1990, hanno trovato i seguenti come tratti fondamentali della personalità altruista: alta stima di sé, alta competenza morale, tendenza ad attribuire le cause degli eventi di cui l’individuo è protagonista a fattori interni (locus of control), basso bisogno di approvazione esterna e forte senso di responsabilità sociale. (Cfr. «L’aggressività e l’altruismo», in Palmonari, A., Cavazza, N, Rubini, M., Psicologia sociale, op. cit., p. 190)

cliiiIvi, p. 22, nota 6. Corsivo mio.

clivIbidem

clvTermine coniato da Latané e Darley e ripreso da Zamperini in ivi, pp. 22 e sgg.

clviCfr. ivi, p. 19. Ho scelto di citare qui il caso di Catherine Genovese ma, purtroppo, potrei citarne molti altri; ad esempio l’omicidio di James Bulger, di soli due anni, da parte di altri due bambini di dieci anni, avvento per le strade di Londra.

clviiIvi, p. 21.

clviiiIvi, p. 22.

clixIvi, pp. 24-25.

clxMoscovici, S., «Le forme elementari dell’altruismo», in La relazione con l’altro, op. cit., p. 87.

clxiIvi, p. 91.

clxiiLa definizione è stata coniata da Macaulay, M. e Berkowitz, L., Altruism and helping behaviour, Avademic Press, New York, 1970 e ripresa da Serge Moscovici per criticarne i presupposti ingenui: «questa definizione include sia in comportamenti sia le intenzioni dell’altruista. Esclude, in maniera implicita, pure le ricompense interne quali la stima di sé e il senso di colpa che nasce dalla preoccupazione primaria. Una tale esclusione presenta il vantaggio pratico di non dire troppo, di eludere il problema di sapere se esiste un atto veramente non egoista». (Moscovici, S., «Le forme elementari dell’altruismo», in La relazione con l’altro, op. cit., p. 90)

clxiiiIvi, p. 91.

clxivCfr. ivi, pp. 97-98.

clxvIvi, p. 101.

clxviIvi, p. 96.

clxviiLorenz, K., L’aggressività, op. cit., p. 309.

clxviiiIvi, p. 299.

clxixIvi, p. 281.

clxxJervis, G., Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, op. cit, p. 49.

clxxiCipolla, C., Allegro ma non troppo (1988), Il Mulino, Bologna, 2007, p. 61.

clxxiiIvi, p. 66.

clxxiiiIvi, p. 79.

clxxivIvi, p. 96.

clxxvIvi, p. 99.

clxxviLorenz, K., L’aggressività, op. cit, p. 284.

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