5. Perdita e ritorno d’aura
Alessandro Simoncini
Per eliminare ogni retrogusto di “romanticismo politico” da quanto si è fin qui sostenuto, pur confermandone la sostanza e la tesi, alla fine di questo paragrafo occorrerà gettare un rapido ed allusivo sguardo alle attuali condizioni del mercato dell’arte. Non prima però di essere tornati, con l’aiuto di Walter Benjamin, su un fatto essenziale che già più volte abbiamo sottolineato: l’arte contemporanea esordisce sotto il segno della trasgressione e della potenziale sovversione dell’ordine sociale.
È quasi superfluo riportare qui la celebre la tesi di Walter Benjamin sulla “perdita d’aura”, una tesi secondo cui l’avvento della riproducibilità tecnica – che in ultima analisi affondava le proprie radici nella rivoluzione industriale – aveva eroso la stessa unicità dell’opera d’arte[166]. Il valore aggiunto auratico dell’arte si era così definitivamente perduto e la sfera estetica tradizionale – il cui pendant erano le forme di “devozione aristocratica” e alto-borghese dei fruitori – ne era risultata irrimediabilmente disgregata[167]. E’ così che, “democratizzandosi”, l’arte aveva potuto raggiungere il pubblico moltitudinario della metropoli moderna. E ciò proprio grazie alla nuova serialità delle opere, prime tra tutte quelle fotografiche e poi quelle cinematografiche. Il nuovo pubblico ne assorbiva gli stimoli; le donne e gli uomini che davano forma alla possibilità e alla presenza stessa di una soggettivazione globale definibile come “pubblico” si dotavano progressivamente di una individualità fondata su forme distratte di percezione. Così, il nuovo soggetto collettivo si manifestava al contempo come popolo e come pubblico; o se si vuole come un popolo-pubblico che – come accadrà con il fascismo e con il nazismo – potrà sempre cadere preda di un’abbagliante “estetizzazione della politica”. È a causa della sua fantasmagoria che, giungendo al massimo grado della propria auto estraniazione, l’umanità può vivere “il proprio annientamento come uno spettacolo estetico di primo ordine [168].
Tuttavia, per Benjamin, non si trattava di un esito scontato. Una battaglia era in corso e occorreva combatterla su ogni versante. I fascismi si configuravano ai suoi occhi come veri e propri “regimi pubblicitari”, che realizzavano la matrice spettacolare profondamente radicata nel codice genetico della modernità[169]. Sotto il loro martello, i popoli vivevano in una condizione di brutale assoggettamento e di passività mentale; sperimentavano, cioè, un “sonno profondo” dal quale avrebbero comunque pur sempre potuto destarsi[170]. La “politicizzazione dell’arte” avrebbe certamente dovuto avere un ruolo maggiore nel favorire questo risveglio. Fruendo di un arte senza aura, infatti, il popolo avrebbe forse potuto uscire dalla narcosi e giocare successivamente un ruolo attivo, e decisivo, nella necessaria ridefinizione del senso globale dell’esperienza artistica. Il soggetto collettivo avrebbe insomma potuto combattere il perverso uso politico che i regimi totalitari stavano facendo dell’arte ed assegnarle finalmente una funzione emancipatoria e comunista. Com’è noto, ragionando su quali fossero le forme artistiche maggiormente capaci di alludere a un simile esito, Benjamin pensava alle avanguardie e in primo luogo il suo sguardo si rivolgeva al surrealismo. Pur rimproverandogli di restare prigioniero della stessa fantasmagoria che aveva alimentato lo spirito del XIX secolo, Benjamin riteneva che il significato generale del movimento consistesse nell’aver dato vita alla prima idea radicale di libertà “dopo Bakunin”[171]. In questo senso – come scrisse in fondamentale testo del 1929 – il surrealismo gli appariva come l’esperienza artistica che più e meglio di altre avrebbe potuto “conquistare le forze dell’ebbrezza per la rivoluzione”[172]: quelle forze, cioè, che sono necessarie ad ogni vera rivoluzione. Solo un’arte senz’aura avrebbe ormai potuto procurarle alla soggettivazione politica dei popoli.
Come ha osservato Alberto Abruzzese, Benjamin è stato il primo a “suggerire esplicitamente che l’aura sottratta alle opere d’arte tradizionali si riproduce sui prodotti della tecnica”[173]. Questi sono funzionali all’ attribuzione sociale di senso necessaria a saturare, con il re-incanto, lo spazio disincantato del moderno. Per Benjamin, questo accade grazie all’obiettivo fotografico e allo schermo cinematografico. Proprio in quanto artificio tecnico, il primo possiede anche un nuovo “valore magico che un dipinto per noi non possiede più”, un valore residente nel modo straniante e straniato in cui ora può essere rappresentata quella natura che nell’arte figurativa appariva ormai sterilizzata; il secondo è capace di “far saltare questo mondo simile a un carcere” con la “dinamite dei decimi di secondo”[174]. Fotografia e cinema – soprattutto il cinema – possono così produrre nuovi affascinanti spazi-tempo, grazie alla potenza dell’immaginazione ora applicata all’artificio tecnico dell’immagine in movimento e dei simulacri che essa produce. L’autore di Parigi capitale del XIX secolo aveva saputo vedere tanto il senso politico dell’innovazione tecnica, ponendolo in relazione alla metamorfosi del campo estetico, quanto “l’esperienza vissuta che ne emergeva”[175]. A questo risultato Benjamin era giunto attraverso un’analisi che affrontava direttamente il grande tema del rapporto tra innovazione tecnica e forme di vita, tra mezzi di comunicazione di massa – con la nuova aura a cui essi davano forma – e processi di soggettivazione[176]. A ben vedere, poi, Benjamin ci consegna un suggerimento prezioso: con l’aggiornamento tecnologico delle arti, nel contemporaneo l’aura non scompare. Piuttosto, mutano i luoghi in cui la ritroviamo, le sue forme e la sua anima.
Sono Alessandro Dal Lago e Serena Giordano ad aver recentemente proposto un aggiornamento critico, chiaro e radicale, della celebre tesi di Walter Benjamin. Sulla scia delle sue stesse profonde intuizioni hanno infatti sostenuto che “l’aura è viva e vende bene”[177]. Al tempo del divenire globale del capitalismo e della forma-merce, infatti, l’arte recupera l’aura perduta. Ma lo fa completamente al di fuori di ogni progetto emancipativo di una sua politicizzazione. E’ infatti il mercato, con le sue strategie promozionali e di packaging, a dotare gli oggetti artistici di una nuova aura direttamente dipendente dal loro valore di scambio; dal fatto cioè che quegli oggetti possono essere scambiati, e dunque posseduti, come un feticcio. Un feticcio dotato, appunto, di un’aura che consumiamo e che ci domina come uno spettro (esattamente come l’aura di tante altre merci).
L’aura in questione dipende dunque dal mercato: un mercato da 60 miliardi di euro all’anno che, come si diceva, non ha pregiudizi. È quel mercato ad attribuire valore di merce sia alla Gioconda di Leonardo sia a quella deliberatamente riprodotta da Duchamp con corredo di baffi: “qualsiasi cosa può diventare arte, e quindi essere dotata d’aura”[178]. In altri termini, l’aura dipende direttamente dall’effetto che l’opera-feticcio produce sui devoti del mercato dell’arte grazie alla sua valorizzazione economica e finanziaria. L’aura dell’opera d’arte è allora un “rapporto sociale”- ripetiamolo – prodotto e ri-prodotto dalle strategie di mercato, che rendono opera un feticcio come tutte le merci. Quell’aura – l’aura della merce – è certamente uno spettro, ma è uno spettro dotato di una dimensione oggettiva “che è insieme reale (perché esiste), immaginaria (perché esiste per noi grazie al suo packaging pubblicitario) e simbolica (perché ci offre gran parte dei simboli con cui crediamo di dar senso alla nostra vita)”[179]. In altri termini, l’aura – come la merce – è un’astrazione reale. Appare chiaro, allora, che quello spettro e quell’astrazione acquisiscono oggettività e realtà proprio a partire dagli “effetti di verità” attribuiti loro da quello che Marx considerava essere l’equivalente generale universale: il denaro[180].
[166] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit.
[167] A. Abruzzese, P. Mancini, Sociologie della comunicazione, cit., p. 145.
[168] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit. Si tratta della famosa chiusa del testo, che vale qui la pena di riportare per intero: “Fiat ars-pereat mundus, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. E’ questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come uno spettacolo estetico di primo ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte»”
[169] W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, cit., p. 955.
[170] Ivi, p. 508. Per Benjamin è in quella vera e propria “epoca onirica” corrispondente al XIX secolo che, con il consolidarsi della fantasmagoria della merce, “la coscienza collettiva cade in un sonno sempre più profondo” (Ibidem).
[171] W. Benjamin, Il surrealismo, cit., p. 22. Sul tema, cfr. G. Carchia, Il “Passagenwerk” di Walter Benjamin, in “Aut Aut”, 197-198, 1983.
[172] W. Benjamin, Il surrealismo, cit., p. Sul tema cfr. M. Löwy, La stella del mattino, Bolsena, Massari Editore 2000, p. 42.
[173] A. Abruzzese, P. Mancini, Sociologie della comunicazione, cit., p. 145.
[174] W. Benjamin, L’opera d’arte, cit., p. 41.
[175] A. Abruzzese, P. Mancini, Sociologie della comunicazione, cit., p. 146.
[176] Cfr. W. Benjamin, Note inedite a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Forma di vita, 2-3, 2004, pp. 146-149. Sul tema, cfr. V. Cuomo, Estetica della folla e dispositivo cinematografico, in Fata Morgana, 0, 2006.
[177] A. Dal Lago, S. Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 129 e ss.
[178] Ivi, pp. 140-141.
[179] Ivi, p. 143.
[180] Cfr. K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1974-77, Libro I, sezione I, cap. II, pp. 127 e ss.
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