philosophy and social criticism

7.Marilyn come metafora

Alessandro Simoncini

In un bel libro di Mario Pezzella,  il volto di Marilyn acquisisce una straordinaria potenza esemplificativa, emblematica, metaforica. Il volto di Marilyn, lo si è detto, è quello epico di una diva che incarna perfettamente lo star system e ne decreta al contempo, con il proprio suicidio, l’irreversibile crisi. Una crisi che condurrà alla metamorfosi del sistema-Hollywood ed alla nascita della “nuova Hollywood” nera e critica, dura e cinica: quella di Coppola, Scorsese, Altman, De Niro, Hoffman. Ma Marilyn non è solo questo. E’ anche un’icona-simulacro la cui aura, originariamente prodotta all’interno dello star system hollywoodiano, viene riprodotta, amplificata e resa definitivamente immortale da quella vera e propria incarnazione della macchina artistica contemporanea – una macchina economica e sociale che non può esistere senza business, come si è visto – che è Andy Warhol. Ed è proprio Warhol a fare della diva Marilyn qualcosa di meno e qualcosa di più che un icona essenziale e segnalatrice della transizione da un mondo del cinema all’altro, da una stagione del divismo all’altra, da un universo dello spettacolo a un altro.

Qualcosa di meno dunque: la Marilyn di Warhol si abbassa. Come tutte le immagini serializzate riprodotte serigraficamente dall’artista newyorkese – immagini di minestre, sedie elettriche, leader politici, dive, coca-cola – “divenendo immagini spettacolari” anche quelle di Marilyn perdono ogni distinzione ontologica”, ogni identità[212]. Warhol mostra chiaramente come quelle immagini appartengano al regno dei simulacri fantasmagorici del mercato; e come, al pari di tute le altre, esse possano essere “ugualmente esposte come emblemi dell’universo della merce”[213]. Come tutte le immagini della merce, e come ogni merce prodotta dall’industria culturale, le immagini di Marilyn sono ottenute da una identica matrice “radicalmente immanente al mondo delle merci”[214].

La differenza che esiste tra quelle immagini, come a ben vedere tra tute le merci, è rinvenibile in variazioni formali realizzate a posteriori sul calco ripetuto: lo scopo di questa differenza – che nel postfordismo diviene il principio ormai egemone della personalizzazione delle merci – è quello di produrre un’apparenza di novità. Una novità “sempre uguale”, diceva Benjamin, ma necessaria ad ogni merce che viene prodotta in serie per essere venduta sul mercato[215]. Meglio di tanti saggi, le serigrafie di Warhol restituiscono un dato essenziale del nostro tempo: per garantirsi l’esistenza su un mercato che altrimenti ne decreterebbe rapidamente la morte – poiché si tratta del mercato estremamente competitivo del capitalismo avanzato – le immagini, come ogni merce, devono dotarsi di una potente carica estetizzante e spettacolare. Questa non può provenire dal loro valore d’uso o da quello di scambio, ma solo dall’effetto di differenza che esse sono capaci di incarnare.

Mario Pezzella ha definito questa carica “valore fantasmatico”[216]. Si tratta di un valore carico di “fantasmi modulatori del desiderio”; un valore che proviene dal modo in cui le merci – si tratti di un abito alla moda o della stessa diva, la star-merce per definizione – presentano la loro “figura fantasmatica […] sulla scena dello spettacolo”[217]. Insomma è l’apparenza di novità, la differenza, a sedurre il desiderio dello spettatore-consumatore. E poco importa che dietro quella differenza si celi la realtà del sempre uguale e della ripetizione, una realtà che ben rappresenta la verità della merce nel capitalismo. Poco importa, cioè, che nell’ultimo capitalismo differenza e ripetizione danzino al ritmo della merce, ovvero di un’ astrazione reale che si fa spettacolo, che asserve la comunicazione e che domina il sociale[218]. Quella differenza, infatti, ha comunque la forza di sedurre il desiderio del soggetto, che dentro di sé trasforma la merce in “potenza magica […] di un essere reale”[219]. L’ “apparenza di novità”, che si presenta come differenza, afferma così il “fantasma […] come presenza”[220]. Rafforzando la ripetizione, le permette di continuare a funzionare come principio di realtà della produzione di merci e di immagini nella società dello spettacolo. Così, mentre lo spettatore-consumatore acquista un’immagine-merce serialmente ri-prodotta ed omologata, questa gli viene offerta come un’affascinante singolarità (una differenza, appunto) contenente l’aura dell’unicità.

Insomma, la differenza del prodotto stimola la ripetizione della produzione e del consumo. Nel capitalismo, un po’ come nel capolavoro di Gilles Deleuze, differenza e ripetizione si tengono per mano: la ripetizione torna incessantemente allo scopo di affermare la differenza[221]. In questo senso, il sempre uguale della merce non si dà a vedere come eterna ripetizione dell’identico. Piuttosto, ad essere identico è il ripetersi della differenza. Tuttavia quest’ultima viene coniata dalla produzione capitalistica in qualità di “valore fantasmatico”, al fine di realizzare la massima vendita e il massimo profitto. Perciò si tratta di una differenza che non  permette di pensare alternative reali al modello, ma solo “varianti ridotte al minimo” come scriveva il Pasolini lettore di Warhol[222]. Nella sfera sociale si assiste così all’affermarsi di piccole differenze incapaci di fare la Differenza.

Sono le piccole differenze della merce che veicolano senso pubblicitario, incitando i soggetti a sposare forme di vita e ad aderire a nuovi mondi. Mondi costruiti dall’anima dell’impresa, che mette al lavoro l’intelligenza collettiva negli uffici marketing e sussume alla valorizzazione del capitale la “dinamica dell’evento e il processo di costituzione della differenza e della ripetizione”[223]. In questo modo vengono prodotti materialmente, secondo la logica di una modulazione continua, i molteplici mondi spettacolari del capitale che, mentre strutturano l’offerta ai clienti, mirano a governarne le azioni e la sensibilità. Non è data partecipazione possibile alla costruzione di quei mondi, dal momento che di fronte ad essi la nostra libertà è costretta a scegliere “tra possibili che altri hanno concepito e istituito”[224]. Lo spettacolo di quei mondi riflette allora “un’iterazione ossessiva” occultata dal feticcio fantasmatico della merce-immagine, dalla sua spettacolare parvenza di novità[225]. A ben vedere, proprio questo ci dice l’opera di Warhol, nella quale ogni differenza ed ogni valore fantasmatico dell’immagine – anche di quella appartenente a Marilyn -, sono mostrati nel nulla della loro equivalenza. E, d’altra parte, quel nulla è tutto, poiché l’equivalenza delle immagini-merce – lo si è visto – non è affatto in-differenza, dal momento che proprio dalla differenza esse attingono la propria forza-di-merce.

Come si diceva, però, Warhol a fa di Marilyn anche qualcosa di più che l’icona di una nuova stagione del dispositivo spettacolare. Qualcosa di più dunque: la Marilyn di Warhol si eleva a emblema del nulla. Quel nulla, che l’arte del newyorchese indaga “dietro l’apparenza piena e feticistica del fantasma”, si dà a vedere come la “pura spettralità dello scambio”[226]. Il volto di Marilyn incarna la fantasmagoria più desiderata tra quelle prodotte dall’industria culturale; si offre al pubblico come l’immagine spettacolare per definizione, quella che meglio riesce a catturare lo sguardo dello spettatore. Marilyn, la diva, è la sintesi perfetta della merce ideale, capace cioè più di ogni altra di “«mettere in scena» la propria desiderabilità e [di] mobilitare a questo fine ogni risorsa della comunicazione”[227]. Nella sua ripetizione indefinita di icone equivalenti ma sempre differenti, l’immagine warholiana di Marilyn mostra paradigmaticamente che la realtà e il cuore del processo produttivo dell’industria culturale – la potenza ammaliante del nulla – vanno debitamente occultati alla vista dello spettatore-consumatore. E infatti nel volto di Marilyn “l’immagine spettacolare si configura […] come una «realtà auratica», dotata di magia e immediata potenza”[228]. Ed è così che, grazie al suo apparire abbagliante e seduttivo, “scompare ogni traccia dell’artificio che la compone”[229]. Un artificio che è l’aura stessa – l’aura della merce appunto – e che punta essenzialmente a vendere o a comprare l’immagine stessa.

Più semplicemente, nella società dello spettacolo diviene cruciale la produzione di fantasmagorie e di bellezza apparente. Il fantasmagorico e il bello hanno infatti la capacità di affascinare e conquistare il consumatore e lo spettatore, conquistando così l’ “egemonia sul mondo della percezione e dell’immaginario”[230]. Il feticcio dell’immagine-merce (il divo, la modella, l’abito o il prodotto all’ultima moda) “occupa e nasconde un vuoto, con la sua illusoria e totalitaria pienezza”[231]. Al contempo, però – ed è la lezione sul feticismo contenuta ne Il perturbante di Freud -, il feticcio mantiene un costante richiamo a quello che tenta di celare alla vista: il nulla della “trasformazione in merce”; il nulla dell’annientamento di ogni corpo e di tutte le qualità “nella pura spettralità dello scambio”[232].

È proprio quel nulla, a ben vedere, che l’arte di Warhol offre allo sguardo di chi dietro il feticcio ammaliante dell’immagine-merce (ad esempio, dietro il valore fantasmatico del volto di Marilyn) voglia scorgere la fredda spettralità dell’industria culturale, o se si vuole di quella presente nella razionalità complessiva dello scambio capitalistico. Wahrol mostra che l’immagine mitica, positiva e splendente di Marilyn – sia essa singolarmente presa o ripetuta serialmente dagli schermi – non è che un “simulacro tecnologico”[233]. E’ cioè essenzialmente un artificio industrialmente costruito secondo le logiche della differenza e della sua continua ripetizione (la ripetizione di un “sempre diverso” che proprio in questo è un “sempre uguale”); è un artificio il cui fine ultimo è quello di catturare il desiderio dello spettatore e metterlo al lavoro nella fucina del capitale. Nell’arte di Warhol, che quella fucina contribuisce ad alimentare,  lo sguardo catturato dall’immagine-merce può tuttavia smettere di guardare e cominciare a vedere. Vedere il carattere artificiale della costruzione dell’aura (quella dei feticci del cinema o della moda, per citare solo due esempi). Vedere il nulla dietro “il flusso corrente delle immagini spettacolari” in cui è lo sguardo stesso è abituato ad immergersi[234]. Vedere la potenza spettrale e reale dello spettacolo – la potenza della sua “«bassa attrazione»” – dietro “l’euforico splendore dell’immagine spettacolare”[235].

È soprattutto l’ultimo Warhol – ad esempio quello del ciclo Skulls (1976) – a immortalare ciò che sta dietro ogni immagine spettacolare: “la fissità mortale latente nel flusso delle merci”[236]. Dopo aver mostrato ossessivamente nelle sue opere la ripetizione differente delle merci e lo spettrale principio di realtà del mercato, ora Warhol indaga direttamente lo spettro componendo “ripetutamente l’immagine di un teschio, con lo stesso gioco di varianti coloristiche, che in composizioni precedenti evocavano l’alternarsi del nuovo e del sempre uguale nella moda”[237]. Ad emergere sulla scena dell’opera d’arte, della sua riproducibilità, è ormai “unicamente ed esplicitamente la morte, vero referente dell’eterna ripetizione delle merci” e potenziale punto cieco di ogni consumo individuale di massa[238].

Lo aveva già intuito il Leopardi delle Operette Morali, che convocando a dialogo la moda e la morte nel lontano 1824, fa dire a quest’ultima: “generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente per l’amore che mi portano. Io non vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto co quei di tela, e di fare ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno»”[239]. Si tratta di una capacità di strutturare l’azione dei soggetti – quella della moda – che agli inizi del XX secolo coglierà acutamente anche George Simmel. Sulla scia di Leopardi, infatti, il grande sociologo analizza  il rapporto tra l’abbigliamento alla moda e i suoi consumatori, mostrando  che nonostante “i vestiti siano creati dai soggetti innanzitutto perché questi possano utilizzarli”, non sono gli abiti ad adattarsi ai soggetti, bensì “questi ultimi a doversi adattare agli oggetti, cioè ai vestiti”[240]. Così, come ha osservato L. F. H. Svendsen, già ai suoi inizi la dinamica capitalistica delle merci lascia emergere un dato di lungo periodo: “ciò che è creato dal soggetto e per il soggetto diventa un oggetto che si svincola dalla sua origine e comincia a seguire una logica propria”[241]. La cultura moderna contiene in sé un approdo perverso che Simmel definisce “la tragedia della cultura”: le merci, la conoscenza e la tecnologia possono dominare l’uomo. La vita della metropoli può condurre all’estraneazione dell’esperienza quando l’ossessiva ricerca del nuovo viene svolta all’insegna dell’opprimente libertà del denaro e del ciclo della moda, che riproducono entrambe senza posa la medesima maschera mortuaria[242].

Venato da un disincanto radicale che sconfina nel cinismo, è quello stesso tragico a riapparire nelle immagini delle armi da fuoco warholiane. Pistole serializzate, come le merci, icone della morte e della guerra che – come ben sapeva Jean Jaurès – il capitalismo porta in sé come le nubi la pioggia[243]. Come se indagasse il lato oscuro della società dello spettacolo – e ciò che essa lascia in deposito nelle pieghe intime della soggettività contemporanea -, qui l’ironia warholiana lascia spazio all’emergenza del tragico. Come accade anche in The shadows (1981), dove il volto viene catturato dall’immagine fantasmagorica di qualcosa che prima lo ammaliava con il suo portato felicista,  e che ora lo inquieta e lo addolora. Tragicamente, appunto, ormai il volto non corrisponde più alla propria ombra, altrettanto tragica e inquieta. E neppure gli somiglia. L’ombra dura e cupa del soggetto getta una luce nera sulle forme di vita segnate dalla luccicanza delle immagini-merce e dei volti spettacolarizzati.

Anche in  Marilyn Black on blue Green (ciclo 1979-1986) il cuore di tenebra del feticcio-merce viene ormai fissato in volto. E si tratta del volto oscurato di Marilyn, che riflette “l’annichilimento completo dell’immagine mitica con cui Warhol aveva sadicamente «giocato»”[244]. La fisicità di Marilyn scompare con la sua fantasmagoria. Oltre tutte le apparenze ammalianti, il negativo assoluto mostra ormai solamente la “materia prima del feticcio, nero coagulo da cui verrà distillato il suo fantasma”[245]. Non esiste, né viene mostrata, alcuna persona dietro la diva. Warhol non apre però al senso del possibile. Mai nella sua opera intuiamo l’allusione ad una potenziale conflittualità capace di contrastare quell’ineludibilità del feticismo che è il tema cardine della sua opera. Tuttavia, Warhol comprende che il gioco della continua ri-produzione e scambio di immagini spettacolari dal valore fantasmatico reca in sé la morte: alla fine, infatti, ritrae la macchina che produce il carnevalesco spettacolo dell’eterna ripetizione del differente con il lutto in corpo. Però, nella poetica dell’artista newyorkese che “assume senza riscatto la spettralità del moderno”, il mondo dei simulacri e del capitale non ammettono alcuna redenzione possibile[246]. E all’interno di un universo sclerotizzato e privo di possibili – per dirla ancora con Pasolini – “l’unica libertà è quella dell’artista, che, sostanzialmente disprezzandolo”, gioca proprio con quell’universo[247]. L’artista, allora, dice certamente al potere una terribile verità. Ma quest’ultima è sostanzialmente inoffensiva, perché è priva della capacità e della volontà di attivare ogni conflitto.

 …parte 8



[212] M. Pezzella, Il volto di Marilyn, Roma, Manifestolibri 1999, p. 70.

[213] Ibidem.

[214] Ivi, p. 71

[215] Sul rapporto tra Benjamin e Warhol e sul tema del “sempre uguale”, cfr. A. Mecacci,  Impercetibilmente pop. La “second-hand reality” estetica di Warhol, in F. Desideri, G. Matteucci, Firenze, Firenze University Press, 2007, pp. 195 e ss.

[216] M. Pezzella, Il volto di Marilyn, cit., p. 72.

[217] Ibidem. Sulla figura del divo come merce, oltre alle considerazioni pioneristiche di Benjamin contenute in L’opera d’arte, cit., cfr. E. Morin, I Divi, Milano, Mondadori, 1963

[218] Per un approccio al tema ispirato al pensiero di Guy Debord, cfr. A. Jappe, Le sottigliezze metafisiche della merce, in Agalma, 1, 2000. Sul concetto di “astrazione reale” il riferimento va ovviamente a K. Marx, Il capitale, cit. Libro I. Per un originale rilettura del tema, cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.

[219] M. Pezzella, Il volto di Marilyn, cit., p. 72.

[220] Ibidem.

[221] Cfr. G. DeleuzeDifferenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina1997.

[222] P. P. Pasolini, Warhol, Ladies and Gentlemen, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, II, Milano, Mondadori, 1999, leggibile in http://www.pasolini.net.

[223] M. Lazzarato, La politica dell’evento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 58.

[224] Ibidem.

[225] P. P. Pasolini, Warhol, Ladies and Gentlemen, cit.

[226] M. Pezzella, Il volto di Marilyn, cit., p. 73 e 75.

[227] Ivi, p. 75.

[228] Ibidem.

[229] Ibidem.

[230] Ivi, p. 74.

[231] Ibidem.

[232] Ivi, p. 75.

[233] Ivi, p. 77.

[234] Ibidem.

[235] Ivi, p. 77-78.

[236] Ivi, p. 79.

[237] Ibidem.

[238] Ivi, p. 80.

[239] G. Leopardi, Dialogo della moda e della morte, in Operette morali, Milano, Feltrinelli, 1999.

[240] L. Fr. H. Svendsen, Filosofia della moda, Parma, Guanda, 2004, p. 131.

[241] Ivi, p. 132.

[242] Su questi temi, di Simmel cfr. almeno Filosofia del denaro, Torino, Utet, 1984; La metropoli e la vita dello spiritoRoma, Armando, 1998; La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano, Longanesi, 1985. Per un eccellente commento, cfr. A. Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di George Simmel, Bologna, Il Mulino, 1994.

[243] Secondo il celebre aforisma di Jaurès “il capitalismo porta con sé la guerra, come il nembo il temporale”.

[244] M. Pezzella, Il volto di Marilyn, cit., p. 82.

[245] Ibidem.

[246] Ivi, p. 83.

[247] P. P. Pasolini, Warhol, Ladies and Gentlemen, cit.

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ISSN:2037-0857