philosophy and social criticism

Schmidt, l’intraducibile? Intervista a Dario Borso

Marco Dotti

Un «piccolo», grande caso editoriale. Un autore considerato «ostico, di nicchia» eppure l’amato-temuto Arno Schmidt (1914-1979) torna a far parlare di sé. Lo fa, grazie a Dario Borso, traduttore e curatore di Paesaggio lacustre con Pocahontas, edito da Zandonai nel 2011. Un racconto che ha luogo sul lago dell’Oldemburgo dove due reduci di guerra, uno scrittore disoccupato e un imbianchino incontrano due stenodattilografe e danno libero sfogo alle proprie fantasie. Cosa che fa anche Arno Schmidt attraverso una prosa quanto mai ardita, capace di riportare la letteratura all’altezza che le compete. Quell’altezza che, talvolta, collima con un ben strutturato e ben calcolato delirio, per quella che Bernd Rauschenbach ha definito «una delle più belle storie d’amore di tutta la letteratura tedesca».  Ne parliamo con Dario Borso che ha avuto il merito di riportare all’attenzione dei lettori italiani la figura di A. S.

Intraducibile. Quante volte ti sei scontrato con questa parola? Impubblicabile: anche questa è una parola chiave, per capire le reticenze dell’industria culturale italia. Tradurre Arno Schmidt – l’intraducibile A.S. –, pubblicare Arno Schmidt – l’impubblicabile A.S. – la dice lunga sulla necessità di tornare a concepire il lavoro culturale come quello di «vecchie talpe». O no?

L’intraducibilità è una questione teorico-filosofica, l’impubblicabilità è una questione pratico-economica (-giuridica talvolta).  Sono due termini orrendi, e mi spiego. Vertono sulla possibilità, ossia sul futuro, e negandola, negano il futuro. Ora, il futuro può essere negato solo dall’eternità, sotto forma assai laica i.e. loica: A non può essere non-A. Difatti quando si dice intraducibile, non si sottintende “per adesso”, ma “per sempre”. La cosa strana è che la stessa logica che nega la traducibilità è invece perfettamente, universalmente traducibile…

Tutto insomma è traducibile, niente è perfettamente traducibile, se non al punto estremo, che riguarda non più il futuro, ma l’u-topia. Quando Candide giunge in Eldorado, due cose lo colpiscono: l’uso “assurdo” dell’oro trattato come semplice oro, e la comprensione dei motti di spirito tra parlanti lingue diverse.

Quanto all’impubblicabilità, la faccenda, dicevo, è meramente tecnica, anzi era, perché ormai siamo entrati nell’epoca della pubblicabilità elettronica universale (fatta salva la produzione del libro d’artista – vedi qui. Resteranno sacche di resistenza, frutto più di cattive abitudini che di buone intenzioni (entrambe menano all’inferno): ad es., l’idea che editori, redazioni ecc. facciano di per sé da filtro di qualità. Sì, perché sia l’intraducibilità, sia l’impubblicabilità sottintendono un supposto sapere altrui, superiore e tendenzialmente coincidente con dio. Ma non esiste dio, se non in forma di futuro (che come noto non esiste… ancora).

Tutto ciò è racchiuso nel lemma “vecchia talpa”, che Marx TRADUCE dall’Amleto di Shakespeare, trasformando l’irresolutezza del principe danese (essere/non essere) in possibilità recondita: “Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo. […] E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!”.

Nel canone occidentale, AS sta indiscussamente al livello di Joyce, Gadda e Céline: in Italia lo rifiutano, ma quante cose l’Italia rifiuta dall’Europa? Anche in letteratura, noi siamo quelli delle quote-latte.

Quanto ha pesato e quanto pesa ancora il giudizio di Cesare Cases nell’affaire-Schmidt? È giusto parlare di “censura” preventiva, inevitabilmente sfociata in una doppia rimozione – rimozione di Schmidt, rimozione della detestatio memoriae, che continua a essere operativa, anche in assenza di chi l’ha pronunciata – in questo caso? O è un riflesso tutto italiano di quanto avvenuto in Italia? Insomma, «Arno, questo sconosciuto…»

Il primo a parlare di Arno (e bene) in Italia fu Bonaventura Tecchi, l’amico di prigionia di Gadda, nel 1953. Cases, che da poco era entrato in organico all’Einaudi, ne scrisse l’anno dopo, e salvati cielo. Siccome Schmidt era da cima a fondo individualista-anarchico e Cases stalinista-lukácsiano, l’accusa fu: piccolo-borghese servo in pectore degli americani. (L’articolo di Cases venne poi raccolto in volume per Einaudi, ma al momento di tradurlo in tedesco, quell’unico articolo scomparì…) Del resto sempre nel 1954 Cases randellò Adorno (il traduttore, Renato Solmi, nella sua autobiografia di recente pubblicata da Quodlibet lo definisce “maestro dei colpi proibiti”), e quando nel 1957 uscì il Pasticciaccio di Gadda, fu tra i pochi ad andargli contro, con le solite categorie da realismo socialista (la Distruzione della ragione, il liber horribilis di Lukács, uscì nel 1959 per Einaudi con la superbenedizione di Cases). Così, quando nel 1957 dopo i fatti d’Ungheria ci fu da sputtanare Giulio Preti, che con Praxis ed empirismo aveva cercato di animare il dibattito teorico, mandarono avanti Cases, che scrisse sempre per Einaudi un libello pietoso, Marxismo e neopositivismo. A metà del decennio successivo, visto che Feltrinelli grazie a Nanni Balestrini aveva portato alla ribalta l’avanguardia nostrana (Gruppo 63) e grazie a Enrico Filippini quella tedesca (Uwe Johnson in primis), l’Einaudi si sveglia e Cases riconsidera Arno Schmidt, nel frattempo insignito del prestigioso premio Theodor Fontane, procedendo però a un’operazione inconsulta: prende più libri di Schmidt, che sono raccolte di racconti, e ne estrapola i racconti storici, ambientati nel mondo antico, che nell’originale erano bilanciati da una mole analoga di racconti sull’attualità – ne venne fuori un mattone, indigesto. La cosa strana è che ora c’è gente “importante” che fa passare Cases per lo scopritore e patrono di Arno Schmidt! Invece il parto bastardo del 1965 ha lasciato in Italia un marchio di arduo (quando lo è meno di Joyce, e non più di Gadda e Céline), di invendibile. La casa editrice Lavieri si è recentemente prodigata sfornando in cinque anni tre titoli di Schmidt, ma dai dati pubblicati in Arno Schmidt Global, ha venduto sinora 390 copie in tutto. Con una casa editrice un po’ più grande, la Zandonai, Paesaggio lacustre con Pocahontasha già raggiunto già le 900 copie in un anno scarso. E siccome Arno è troppo bello e gustoso, prima o poi entrerà nel canone italiota.

Un piccolo, grande successo editoriale Pocahontas, dunque, con una capacità “virale” (così la chiamano) che ha sfondato ostracismi e il classico sorriso di “chi la sa lunga”. Come se lo spiega? Non era “illeggibile”? Invendibile? Intraducibile?

Ostracismo mi fa venire in mente il titolo di un mio recente intervento in rete, dove presento un inedito di Cases su AS, vedi qui. Le ragioni del successo [sic!] penso siano due, complementari: il passaparola dal basso, che in rete è un’arma micidiale (non solo raggiunge l’imperatore, ma lo abbatte all’istante, W Kafka!); il commentario dall’alto a Pocahontas, che sta in rete sul sito della Sapienza, vedi qui).

Siccome la distanza fisica in rete è finita ma l’interpretazione vivaddio resta infinita, il commentario riga per riga apre al lettore attivo (poco importa se benevolo o malevolo) orizzonti pirotecnici, una specie di zapping continuo che grazie ad AS produce effetti allucinogeni – per giunta gratuiti. Al proposito, e per chiudere, aggiungo in un impeto di fiera modestia che il mio commentario a Pocahontas è il primo al mondo, e l’u fa mì (handmade, con l’appoggio della AS-Stiftung di Bargfeld, e presto disponibile in tedesco). In questo senso ho proceduto al contrario di Pinto, che lasciò Brand’s Haide sguarnito di note, quando bastava sintetizzare il commentario tedesco apparso un lustro prima.

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ISSN:2037-0857