philosophy and social criticism

A che cosa serve la lince?

"Denis Roche"

di Denis Roche

traduzione di Alfredo Riponi

ebook in pdf ⇒ qui

23 avril 1980.Rome, l’obélisque de la Trinité-des-Monts.

A che cosa serve la lince? A niente, come Mozart, La foto pretesto.

Una notte d’inedito.

"Denis Roche"La letteratura sarebbe dentro e io fuori (nota del 5 aprile). Parto da frasi e parlo di loro.

Del superfluo disperso in massa: dell’arte. Flusso precario!

Note sparse, riprese (per una mnemotecnica generalizzata dell’arte?) da un io freddo come un cervo volante.

Enormi catinelle d’acqua piovana si rovesciavano, con un rumore infernale, sulla scalinata sotto Piazza di Spagna, scuotendo le azalee giganti, schiacciando questi bei cespugli colorati sulle persone che si sfiancavano a procedere nel temporale. La tormenta sintattica è quella che occupa me e mi raggela.L’immagine e l’abbaiare rauco delle catinelle d’acqua, sono per gli altri.

Pensavo anche questo: l’ambulacro dei due amanti passa sotto il moritorio dei quattro serpenti neri.

Era il 29 aprile. Françoise e Micheline mi avevano lasciato a un angolo di strada che dà sul Corso. Erano stanche e desideravano rientrare nel nostro appartamento di villa Medici mentre io avevo espresso l’intenzione di passare da Rizzoli e di risalire poi per la fontana delle Api per rifare certe foto di dettagli già fatte sei anni prima. Terminavo il mio periplo, pensando vagamente alla ritualità che vi mettevo,abbordando viale Trinità dei Monti. Guardavo distrattamente la base dell’obelisco, sorridendo all’idea che, come questo, quasi tutti a Roma erano letteralmente imballati in strani teloni tesi su ponteggi di ferro blu, da quando un terremoto li aveva scossi qualche settimana prima. Immaginavo gli obelischi egiziani e romani che crollavano tutti come stupidi birilli uccidendo persone come mobili.

Erezioni che dovevano costare e potevano troncare.

Un pomeriggio in cui, in piedi, nudo, in erezione contro l’angolo di un cassettone, facevo oscillare il mio sesso rigido e lo sbattevo, a sinistra e a destra contro il legno.

Dall’altro lato di Roma il sole stava tramontando in una striscia di foschia. Mandava un fiotto di luce sulla tela e io, in basso, cercavo di inquadrare questa incongruità di forma e di biancore nel mirino del mio apparecchio.

Freddo come un cervo volante.

Vidi quattro serpenti neri appesi ai ganci tubolari a mezza-altezza della parte fasciata dell’obelisco. La prospettiva essendo troppo deformata là dove mi trovavo, scalai velocemente i gradini della chiesa e, sul pianerottolo davanti all’atrio, mi sembrò improvvisamente di star bene e d’essere, con un po’ di fortuna,nel luogo in cui «tutto scorre nei secoli». Fortuna per il freddo, come per gli interruttori con cui,quando si fa lo scrittore, lo si governa.

Guardai di nuovo i serpenti. Avevamo, loro e io, lo stesso aplomb, e Roma era il piombo, sotto.Erano incastrati, quasi alla medesima distanza gli uni dagli altri.

Incravattati dal ferro.

Premetti a ripetizione sullo scatto.

L’ambulacro dei due amanti passa tra loro e me, tra l’obelisco che li serba, che li avrà serbati soltanto per me e le mie foto e il mio libro, e io in piedi davanti all’atrio chiuso a quest’ora, mentre la notte romana avanza e ispessisce come una schiuma i tetti di lana e vetro, la pietra e il latte dei muri e delle donne.

Ho aspettato una sera, verso l’una del mattino, davanti all’alto muro di villa Medici. L’aereo di Françoise era in ritardo e non lo sapevo. Per ammazzare il tempo, facevo delle foto. Autoritratti con scatto ritardato. O, in verticale sopra di me, al lampione che è all’angolo della facciata, accanto a un manifesto per l’esposizione Horace Vernet. Passavo la mano molto lentamente un po’ dovunque sui mattoni consumati e sulle labbra dei leoni di pietra. Invano. Se non che ho ammazzato il tempo, che è arrivata infine e che abbiamo raggiunto in fretta e furia la nostra camera attraverso i corridoi scuri e deserti. Gli parlavo della superficie dell’acqua nella grande vasca davanti alla villa, dall’altro lato della via che va al Pincio, e che avrei fotografato due giorni dopo.

Il viale di Trinità dei Monti è l’ambulacro di cui parlo, un riflusso di frasi, di queste frasi da cui parto,quando scrivo, e di cui parlo, ed è ciò che scrivo.

Avevo constatato con stupore che la fontana delle Api ne aveva in effetti tre. Le foto fatte serviranno a duplicare quelle di sei anni fa, perché bisogna ammazzare il tempo così facendo, e posso farlo con le materie inerti come lo faccio con le persone, cioè Françoise e io che siamo invecchiati da sei anni in qua, mentre l’ape centrale del Bernini non è cambiata, se non che non ci sarà questa volta il braccio teso con la bottiglia che si riempie sotto lo zampillo d’acqua fresca.

È bene mettere per iscritto gli avvertimenti che fanno sentire a intervalli regolari le morti del tempo.Le riprese rigide d’aria e di suolo che realizza l’occhio che inquadra.

L’«Ehi» inviato imperativamente al reale.

«Ano, segatura fredda».

L’ambulacro dei due amanti passa ai piedi del moritorio dei quattro serpenti.

Tra «niente rimarrà impunito» (ogni fotografia) e il «voi siete qui» (ogni fotografia).

«Ano, segatura fredda».

L’unica frase ritenuta del Giacomo Joyce, sfogliato nell’appartamento dei Prigent, sul canapè che si trova sotto la grande vetrata, la loro, poiché anche da noi ho potuto approfittare di una grande vetrata che s’apriva sull’enorme statua antica soprannominata dai pensionanti: Mamma Roma.

Sotto la nostra vetrata abbiamo fatto l’amore, sul canapè a tre posti, tesi entrambi come musiche orizzontali, un pomeriggio di cielo cupo e di ocra scuro in cui enormi catinelle d’acqua piovana si rovesciavano, con un rumore infernale, sulla scalinata sotto Piazza di Spagna, scuotendo le azalee giganti,schiacciando questi bei cespugli colorati sulle persone che si sfiancavano a procedere nel temporale. La tormenta sintattica è quella che occupa me e mi raggela. L’immagine e l’abbaiare rauco delle catinelle d’acqua, sono per gli altri.

Pensai ancora questo:

Dall’altro lato di Roma il sole stava tramontando in una striscia di foschia. Mandava un fiotto di luce sulla tela e io, in basso, cercavo di inquadrare questa incongruità di forma e di biancore nel mirino del mio apparecchio.

Freddo come un cervo volante.

Vidi allora quattro serpenti neri appesi ai ganci tubolari a mezza-altezza della parte fasciata dell’obelisco.La prospettiva essendo troppo deformata là dove mi trovavo, scalai velocemente i gradini della chiesa e,sul pianerottolo davanti all’atrio, mi sembrò improvvisamente di star bene e d’essere, con un po’ di fortuna, nel luogo in cui «tutto scorre nei secoli». Fortuna per il freddo, come per gli interruttori con cui, quando si fa lo scrittore, lo si governa.

Guardai di nuovo i serpenti. Avevamo, loro e io, lo stesso aplomb, e Roma era il piombo, sotto. Erano incastrati, quasi alla medesima distanza gli uni dagli altri.

Incravattati dal ferro.

Premetti a ripetizione sullo scatto.

L’ambulacro dei due amanti passa tra loro e me, tra l’obelisco che li serba, che li avrà serbati soltanto per me e le mie foto e il mio libro, e io in piedi davanti all’atrio chiuso a quest’ora, mentre la notte romana avanza e ispessisce come una schiuma i tetti di lana e vetro, la pietra e il latte dei muri e delle donne.

Ano, segatura fredda (ogni fotografia).Una notte d’inedito (ogni fotografia).

Letteratura: tutto ciò che dice, è: Ucciditene! Ucciditene!

Eppure: fuochi, flussi, facce fredde dei cervi volanti che, avendo fatto voltafaccia, vi guardano, voi e io,noi e tu, che non riusciamo a star fermi, agitati da salti surrettizi e da spostamenti feroci che infallibilmente ci smarriranno fuori dalla cornice dei mirini, fuori dal tempo che è contenuto nello scatto ritardato.

Una notte di tregua.

Ritrovo Françoise e Micheline nell’appartamento, distese sul grande letto, leggermente illuminato dal bagliore della sera che si va opacizzando nella vetrata. L’una dorme rannicchiata, l’altra legge supina. Françoise si sveglia e vedo i suoi occhi che mi osservano. Micheline alza lo sguardo verso di me. Non si muovono e mi guardano. Io avanzo e le vedo ingrandire nel mirino del mio apparecchio, muovendosi senza muoversi e amandomi senza toccarmi.

Quattro bozzoli di larve scoppiano in fondo allo stomaco di un orbettino che morrà più tardi, brandito dritto ritto nella notte d’inedito, picco morto stecchito scintillante, sequoia, grattacielo. Faro freddo.

Un cervo volante abituato, pallido Caracalla, con un colpo secco della sua pinza, lo spezza in due.Nessuno sarà là.

Segatura fredda.

[Muro Torto, sur les presses de la villa Médicis,Rome,1980

(poi in La disparition des lucioles, Editions de l’Etoile,1982;

Dans la maison du Sphinx. Essais sur la matière littéraire, Seuil,1992]

tysm literary review, vol. 11, no. 16, july 2014

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