philosophy and social criticism

I poveri sono ancora matti

Francesco Paolella

La nostra società, la società del disagio e della spietatezza esplicita e rivendicata, ha un grosso problema, forse il più grosso di tutti: quello della povertà. I poveri ci sono sempre stati e ci saranno sempre, ma è evidente che nel nostro tempo si è instaurato ormai un nuovo modo di pensare la povertà, di giudicarla e di rapportarsi ad essa. Una visione sostanzialmente punitiva.

In particolare, poi, è importante la relazione, anch’essa da sempre essenziale, fra povertà e malattia mentale. Ed è questo il tema de La semimbecille e altre storie, ampia ricerca, a un tempo storica, sociologica ed etnografica, di Stefania Ferraro. E’ una ricerca che risulta essere davvero originale, perché non si limita a ricostruire le antiche follie dei poveri, le biografie infami dell’epoca in cui – fra Ottocento e Novecento – la scienza psichiatrica si è imposta come scienza di Stato e medicina politica, come strumento di difesa sociale contro gli individui e le classi pericolose, ma cerca al contrario di costruire ponti fra quelle follie e la malattia mentale così come essa si presenta oggi, nelle mille forme di emarginazione e stigmatizzazione.

Dunque, Stefania Ferraro ha scritto un libro di storia della psichiatria, ricostruendo una biografia infame, partendo dalla perizia del 1892 per un caso di omicidio e tentato infanticidio, commessi da una povera contadina pesarese; ma ha anche voluto riflettere sul ruolo che la psichiatria assume oggi, nell’individuare e gestire persone, che risultano essere per diversi motivi inadeguate rispetto alle richieste sempre più pressanti del mercato (del lavoro, dei consumi, così come delle sempre più invasiva “vetrinizzazione sociale”, per riprendere un’idea di Vanni Codeluppi) che coinvolgono la vita di ciascuno. In una formula: quali sono gli usi oggi più diffusi della psichiatria nella cura di masse di individui riconosciuti al contempo folli e poveri?

E’ indubbio, come nota giustamente Ferraro, che buona parte del patrimonio ideologico della vecchia psichiatria di matrice lombrosiana sia tuttora vivo e attivo nei discorsi e nelle pratiche di medici, giuristi e politici e che si riverberi ancora nel senso comune. La stessa idea di una malattia mentale ereditata generazione dopo generazione, “per legge biologica”, è ancora importante e viene utilizzata assiduamente.

I cambiamenti ormai consolidati nelle politiche sociali dei paesi occidentali, con il progressivo svuotamento del Welfare State di risorse e competenze, hanno condotto a una individualizzazione esasperata della malattia e delle sue conseguenze, puntando a una responsabilizzazione assoluta del singolo e del suo disagio.

Chi non riesce a stare al passo dettato dal biocapitalismo ha spesso come unico rifugio possibile proprio la malattia mentale. Le storie di oggi, che Ferraro ricostruisce, storie infami di inadeguatezza (fatte di criminalità, precarietà, dipendenze) non fanno che ribadire come la “follia” – oltre ad essere una malattia – possa paradossalmente trasformarsi in un’ancora di salvezza. Ad esempio per trovare un posto in una struttura che accoglie persone senza fissa dimora, o per evitare a un uomo (o meglio al suo cognome, alla sua famiglia e all’istituzione per cui lavora) l’onta del carcere. Oggi può accadere quindi di dover addirittura recitate il ruolo del “folle” (o del “folle guarito”) sia per salvarsi dall’abbandono completo sia, viceversa, per salvarsi dalle terapie violente (come l’elettroshock) che tuttora vengono praticate in decine di cliniche italiane.

I “folli” di oggi sono riconosciuti e accompagnati in una gestione che mira sostanzialmente a neutralizzare, con mezzi più discreti e meno violenti rispetto all’epoca manicomiale, le nuove classi pericolose. D’altra parte, fra pericolosità dei marginali e insicurezza della società esiste un rapporto quanto mai controverso: di sicuro, come dicevamo, oggi non è più all’ordine del giorno una riflessione sulle cause sociali (e non solo prettamente economiche) del disagio mentale.

Lo “sguardo psichiatrico” si presta spesso a partecipare a un meccanismo di totale patologizzazione del singolo, caricando sulle sue carenze la “colpa” dell’insuccesso – e pensiamo solo ai suicidi per ragioni economiche e lavorative:

«Dietro la costruzione narrativa che riconnette il singolo gesto suicida alla patologia mentale vi è l’obiettivo di sterilizzazione degli impulsi di verità dei soggetti che muovono – attraverso l’atto estremo di togliersi la vita – la rivendicazione del diritto al lavoro, oggi sempre più frequentemente posto in contrapposizione col diritto alla salute» (p. 287).

Ovviamente, sarebbe inutile, oltre che sostanzialmente sbagliato, rifugiarsi nelle retorica (ormai classica) dell’antipsichiatria (e contro gli psicofarmaci in particolare). Non si può banalizzare l’intervento psichiatrico a puro strumento repressivo: si tratta semmai di continuare a riflettere su una storia che non si è interrotta nel 1978, né tanto meno pochi mesi fa, con la chiusura degli OPG. E’ necessario considerare come il disagio mentale sia anche un fatto sociale. E’ necessario illuminare i meccanismi di produzione di vite infami, di “biografie della miseria”.

È giusto spendere però anche qualche parola sulla prima parte di questo volume: la ricerca sulla vicenda di Maria F. rappresenta una vera e propria miniera di spunti per chi frequenta gli archivi storici degli ex-ospedali psichiatrici. Si tratta di un caso in cui si intersecano – come non di frequente accade – piste differenti: la “follia femminile” (qui, la “mania puerperale”, arrivata alla ribalta proprio a fine Ottocento); i rapporti fra psichiatri e diritto; e la stessa perizia psichiatrica, giustamente riconosciuta da tempo come un meccanismo costruito di volta in volta in base alla diagnosi da dimostrare:

«Indubbiamente la perizia del dottor Piazzi [il perito di Maria F.], come le tante prodotte in quegli anni, è caratterizzata dalla frammentarietà delle notizie contenute e da una propria concezione dell’ordine cronologico; rispetto a ciò i dati e i fatti sono esposti, ripresi e ‘utilizzati’ esclusivamente in base alla patologia da ‘costruire’» (p. 96).

Al centro del caso, che si concluse semplicemente, con un ricovero a vita di una giovane contadina analfabeta nel manicomio di Pesaro, ritroviamo il ruolo assunto dalla psichiatria nel voler intervenire a difesa dell’ordine sociale, in concorrenza con altri poteri, neutralizzando ogni comportamento aberrante e amorale: qui, la diagnosi finale di semi imbecillità (una sorta di follia morale) permise di “risolvere”, ma senza chiarirli, tutti i dubbi circa la condotta violenta di una giovane moglie insidiata dal vecchio suocero.

E ancora, giustamente non bisogna trascurare il fatto che il giudizio psichiatrico è qui, come sempre allora in casi simili, un giudizio maschile su una donna che non ha saputo rispettare la “sacralità” della famiglia, né tenere a bada l’irruenza sessuale di un uomo. Anche in questa microstoria emergono tutta l’approssimazione e tutto il moralismo condensati nella scrittura degli psichiatri che osservavano l’internata; ed emerge la brutalità di un meccanismo di ricovero che tendeva a ridurre a corpo da purgare una persona con tutta la sua vita di sofferenza e disagio:

«N. 2513 [ovvero la nostra internata] è ‘rappresentata’ come un corpo che deve cedere, un corpo da ‘sbarazzare’ dall’impurezza, un corpo in cui la mente e l’anima vengano a coincidere brutalmente con il ventre, l’intestino, insomma lo spazio fisico da ‘purgare’» (p. 173).

E non dimentichiamoci delle isteriche, e in generale delle donne tout court, per cui la scienza dell’epoca aveva sancito un predominio dell’utero sul cervello.

Rimane solo una curiosità dalla lettura di questo caso: nella cartella clinica sono presenti altri documenti ufficiali, prodotti dall’autorità giudiziaria, dal sindaco o dal parroco del paese, attorno a questo caso? E qualcuno ha mai scritto a Maria F. nei 29 anni del suo ricovero, o si è rivolto alla direzione del manicomio per interessarsi del suo destino?

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