Il dolore di venire al mondo
di Francesco Paolella
David Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, Carbonio, Milano, 2018, 256 pagine
Non si tratta solo di decidere se mettere o meno al mondo persone invalide o condannate a una vita di sofferenze, né di scegliere di non procreare per non doversi sobbarcare un lungo e spesso frustrante mantenimento di figli semmai irriconoscenti; e nemmeno di dibattere sul controllo delle nascite nei paesi poveri, sulla maternità surrogata e così via. No, in questo libro del filosofo David Benatar, libro appena tradotto in italiano, c’è molto di più: c’è una specie di (almeno apparente) misantropia sistematica, c’è un percorso per molti versi “innaturale” verso la completa e cosciente negazione del valore della vita umana.
Cosa c’è di più spontaneo e soddisfacente che dare la vita? Quale altro compito essenziale ha mai l’uomo su questa terra se non quello di perpetuare la specie, trasmettendo il proprio patrimonio genetico? Per cos’altro siamo venuti al mondo? Se però, almeno per un momento, immaginiamo che dare la vita, creare nuove persone, le quali a loro volta ne creeranno altre e così per un futuro indefinito, non sia un gesto così naturalmente giusto e che la procreazione non sia, per una sua autoevidenza elementare, un gesto su cui sia inutile discutere il senso e la moralità, ecco che tutto può ribaltarsi. Ed è quello che, appunto, Benatar fa in queste pagine. L’argomento è scabroso e indigeribile e va oltre, come dicevamo, lo stesso antiprocreazionismo. Ne ricaviamo in sostanza questa tesi: di per sé, la vita è un male. Non si dice, si badi: a me la vita è male, ma ogni vita è un male in sé, che non può mai giustificare la nascita.
Io non posso scegliere di non essere nato; posso decidere la mia morte, della quale – come già tante volte in passato – si è arrivati a dire che non può essere considerata un male in sé; ma soprattutto, io posso decidere (e non tanto per ragioni soggettive, per interessi egoistici o per “cautele” economiche o demografiche) di non fare figli, proprio perché riconosco che la vita umana è in sé un errore, una ferita nel nulla che prima scompare e meglio è.
Ecco una prima obiezione intuitiva: se ciò fosse vero, perché tutti fanno figli? E perché, soprattutto, tutti sono, più o meno, felici di essere al mondo? Perché tutti o quasi, al di là del fatto di essere ricchi o poveri, sani o malati – gli uomini pensano che la loro vita sia soddisfacente o comunque degna di essere vissuta? Per Benatar la procreazione provoca sempre del male, ed esiste una asimmetria irrimediabile fra male e bene. Da cui deriva che la massima ambizione è l’assenza del male, per sempre. La natura – davvero matrigna in questo caso – falsa la nostra percezione della realtà: Benatar parla in questo senso del “principio di Pollyanna”, di una naturale tendenza all’ottimismo, per la quale saremmo spinti a rappresentarci la realtà, la nostra realtà attuale e i suoi sviluppi futuri, meglio di come essa è. La nostra memoria è subdolamente selettiva, facendoci ricordare di più il bello (comunque poco e incerto) che il brutto della vita (molto e sicuro).
Benatar non ha fiducia negli uomini e la storia (ma anche l’esperienza minuta quotidiana di ognuno) non sembra dargli torto. Gli uomini sono inattendibili nel giudicare della loro esistenza e, quindi, tanto di più nel giudicare del loro potere procreativo.
Questo ribaltamento – per il quale il dovere (religioso, sociale, culturale) non è più la procreazione, ma la non-procreazione – è oltre le categorie consuete di ottimismo e pessimismo: l’apocalisse, ovvero l’estinzione della specie umana per cataclismi, guerre nucleari o asteroidi incombenti, non è più uno spauracchio così forte da gettare nel panico i più coraggiosi, ma diventa una vera utopia, la cui concretizzazione, pur certa un giorno, non si può però né prevedere né, soprattutto, anticipare. L’ideale di Benatar è quello dello “zero nuovi umani”. E sarebbe meglio se ciò avvenisse – e per ragioni morali, lo ripetiamo – il prima possibile. In questo discorso, nel vagheggiare la beata calma della non-esistenza di cui parlava Schopenhauer, c’è ovviamente molto di spirituale: di una spiritualità allo stesso tempo materiale ed astratta, lucida e delirante, secondo la quale l’essere umano, ma, più in generale, ogni essere senziente, non è che una tragica assurdità, a cui solo l’uomo stesso potrebbe rimediare.
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