philosophy and social criticism

Incontri difficili: Gary Indiana

Sylvère Lotringer

Marco Dotti

Scrittore, critico, filmaker indipendente, chiamatelo come volete, ma per favore, non “giornalista”. Per molti anni, Gary Hoisington, in arte Gary Indiana, ha scritto spledidi articoli e reportage per testate come  Los Angeles Times Book Review, London Review of Books, Artforum o Rolling Stone, ma la sua avversione per il sistema delle notizie viene da più lontano. La si direbbe una questione di pelle. Alla domanda se ammiri qualcuno, fra i suoi “ex” colleghi, Indiana risponde che no, “non ammiro nessuno. Ma “ammirazione” è una parola sbagliata. Io rispetto, rispetto chi rischia la vita e gioca sempre sul filo della notizia, come Robert Fisk o la redazione dell’Indipendent di Londra, per esempio”. Autore di un importante studio sull’ultimo Pasolini (Salò or The 120 Days of Sodom, 2000), di critica al sistema dell’arte (Let It Bleed, 1996) e di una dissacrante analisi della corruzione del sistema politico americano immortalato in uno dei suoi libri migliori, quel The Schwarzenegger Syndrome: Politics and Celebrity in the Age of Contempt che andrebbe letto e riletto (e qualcuno dovrebbe prendersi la briga di tradurre) per capire certe derive postpolitiche della nostra società, Gary Indiana ha studiato da dentro la dinamica dei cosiddetti “serial killer”, riscrivendo la storia di alcuni fra i più inquietanti fatti di cronaca nera degli ultimi anni, dall’omicidio Versace (Tre mesi di febbre, traduzione di Fabio Accurso, Textus, L’Aquila 2005), alla vicenda dei fratelli Menendez, dal caso dell’artista omicida Kenny Kimes (in Depraved Indifference). fino alla tragedia di Roman Polanski (The Roman Polanski Story). Scrittore sensibile ai temi etici e alla loro deriva – come nell’Uomo in affitto (Zoe, trad. M. Cardone, pp. 133, euro 9,81), dove è il tema del traffico illegale d’organi ad essere trattato – Gary Indiana è stato attore in un numero mai precisato di film, sceggiatore (spesso al fianco di Jack Smith), regista in proprio. Tra le sue ultime pellicole, tutte rigorosamente “underground”, Pariah, dedicato ad Ulrike Meinhof, e Soap, da un poema di Francis Ponge. Vive tra San Francisco e New York, è tra i pochi sopravvissuto del Village che fu.

Dalla fine degli anni Settanta, lei ha preso parte, come attore, sceneggiatore, aiuto regista o altro ancora, a numerosi film. Da che cosa è nata questa esperienza?

Sì, ho anche recitato e diretto in teatro, a New York. Non mi considero un gran che come attore, preferisco dirigere, ma credo di avere una qualità essenziale per recitare, sia in teatro che nel cinema, soprattutto nel «genere» di film nei quali ho lavorato. Una qualità che definirei «trasporto demoniaco». Ecco, avere questa sorta di «trasporto demoniaco» dona alle tue performance, sia su un palco che di fronte ad una cinepresa, qualcosa di irresistibile e di unico.

Ci racconti qualcosa dei film ai quali hai partecipato?

Non li definirei propriamente «capolavori», beninteso, ma alcuni di film hanno qualcosa di interessante. Prendiamo ad esempio New York Stories di Jackie Reynald, che recitava anche la parte della moglie di Sid Geffin, mio padre nel film. Alcune delle scene con Jackie, Sid e me erano girate in una sorta di prospettiva «trompe l’œil» di un interno di ristorante. Le altre scene erano girate su una imbarcazione – lungo la Settantaseiesima e Marina Street, dove c’è ancora chi vive in certi «Houseboat» sull’Hudson – alla fine dell’inverno, di notte, sembra essere il mio destino quello di recitare ruoli dove rischi la polmonite o l’assideramento nel corso delle riprese. Comunque, in quella scena recitavo la parte del figlio omosessuale di Sid, molto nevrotico, e, nonostante non facesse parte del personaggio che avevo creato per la sceneggiatura – Jackie ed io eravamo anche gli autori della sceneggiatura – ubriaco per quasi tutto il tempo. In King Blank di Michael Oblovitz, invece, recitavo la parte di un ragazzo che lavora in una stazione di servizio col quale Ron Vawter fa sesso orale nel bagno e poi lo picchia selvaggiamente. È stata la mia prima esperienza con le capsule di sangue e roba simile. Avevo queste capsule di sangue finto nel naso, dovevo strizzare le narici per farle scoppiare quando Ron, mentre fingeva di picchiarmi, nascondeva il mio viso alla cinepresa, in modo che il sangue sarebbe uscito al primo movimento della testa. Girammo quella scena numerose volte, nonostante la «prima» non fosse affatto male. Penso che Oblovitz sapesse che Ron ed io avevamo una storia in corso e volesse umiliarci entrambi, o qualcosa del genere. Tecnicamente Ron era il marito della moglie di Oblovitz, sebbene non avessero nulla a che vedere con la reciproca «matrimonialità», o una parola simile… in ogni modo non si trattava di omofobia, ad Oblovitz piaceva umiliare chiunque.

Gary Indiana fotografato da Iris Klein

Gary Indiana fotografato da Iris Klein

Il tuo nome fitura anche nei «credits» di Stiletto, di Melvi Arslanian. Almeno così risulta è segnalato nell’Internet Movie Database.

In realtà ho scritto la sceneggiatura con Melvi. Purtroppo lei è morta giovane, è terribile. Recitavo la parte di un fattorino del Chelsea Hotel, che non ha naturalmente alcun fattorino; una grande scena, dovevo fare perdere la pazienza a Tina Lhotsky, l’attrice principale del film, raccontandole una lunga storia a proposito di.. qualcuno che strangolava qualcun altro e poi si sedeva al tavolo della cucina e si mangiava un’intera scatola di ciambelle.

E dei «tuoi» film europei?

Sì.. ehm.. Va bene, in ordine sparso, qualcosa potrei pure dire. Ma sono un po’ reticente, su questo punto. Per Raben, un compositore che lavorava con Fassbinder, avevano un po’ di denaro avanzato da non so quale cosa e Rainer avrebbe voluto utilizzarlo per finanziare un film fatto da qualcuno del suo gruppo, sai è una di quelle cose che devi fare per poi poter accedere ai finanziamenti.. in ogni modo, attraverso Peter Kern, fui incluso nel cast di questo film intitolato Do I Make It in the Movies?, come schiavo ermafrodita dell’imperatore Nerone, in un remake di Quo Vadis diretto da Rainer Fassbinder. Estenuante: dovevo essere al trucco alle sette del mattino, rimanerci per tre lunghe ore per poter avere i capelli arricciati ed essere dipinto color oro dalla testa alle dita dei piedi. Kurt Raab e Peter erano comparse. Dovevo reggere un grappolo d’uva ai piedi dell’imperatrice, mentre Kurt andava avanti e indietro davanti a noi reggendo un piccolo bicchiere sotto un occhio per raccogliere le lacrime. Fassbinder e Harry Baer sedevano sulle sedie da regista a pochi metri da noi, c’erano tutte queste colonne, ambientazione di epoca romana, ed io dovevo saltare e danzare con l’intero Senato Romano sulle note della registrazione di un pezzo cantato da Ingrid Caven e improvvisamente un terremoto distruggeva l’intera scena. Abbiamo dovuto ripeterlo numerose volte. Alla fine della scena, Fassbinder e Harry Baer applaudirono senza entusiasmo. Girammo il film negli Studios Bavaria, ed io fui costretto ad essere presente alla maggior parte delle riprese, sebbene avessi recitato solo in questa.

Com’era Fassbinder sul set?

Terrificante. Gli avevo portato un po’ di fumo da Berlino e glielo avevo regalato mentre ci trovavamo in un ufficio della produzione; reagì buttandolo per terra e calpestandolo ripetutamente. Vedi, il punto è che io ero amico di Werner Schroeter ed i due erano in competizione per dirigere Querelle, quindi c’erano due fazioni, la fazione di Fassbinder e quella di Schroeter, quindi io rappresentavo il «nemico» in quel momento. Werner voleva Claudia Cardinale ed era intenzionato a girare in bianco e nero, Dieter (Schidor) aveva acquisito i diritti da Genet e voleva assolutamente che il film fosse fatto, era anche il produttore dopotutto, e la Cardinale non voleva assolutamente fare Madame Lysiane, quindi continuava ad ostacolare Werner – le cose si stavano mettendo male, le due fazioni si ritrovavano pericolosamente vicine ogni sera quando si andava a bere qualcosa alla Deutsche Eiche di Monaco.. In ogni modo, io non piacevo a Rainer. Un giorno Peter Kern mi disse: «Cosa pensi di Rainer?» e io gli spiegai che mi faceva paura. «Non ti preoccupare» mi rispose «siamo tutti spaventati da Rainer». In realtà nel corso della festa riservata alla troupe fu molto più gentile con me.

E Schroeter anche lui fu gentile?

Mi voleva per mettere in scena quell’opera di Shakespeare che stava dirigendo al Freie Volksbuhne di Berlino, A Comedy of Errors. Mi avvicinò nel corso del Festival del cinema di Berlino. Gli spiegai che per me era quasi impossibile memorizzare quei lunghi monologhi tradotti in tedesco, ma Werner insisteva nel dire che ci sarei riuscito. Mi pagò anche un insegnante di lingua, ma fu un disastro e lasciammo perdere. Andai alla prima e alla fine Werner aveva abbondantemente tagliato ognuno di quei monologhi. Gli dissi «Senti, perché non mi fai partecipare ad un tuo film?». Non se ne fece nulla.

E quindi…

Beh, «e quindi»… Peter Kern mi rapì e mi rinchiuse in questo gelido castello ad Hannover, di proprietà di Bruno Ganz, e mi costrinse a scrivere per lui un musical erotico. Non avevo i soldi per tornare a Parigi, così posso dire che mi prese per il «collo».

Nelle note biografiche che ti riguardano, solitamente vengono menzionati ventidue film alla cui realizzazione, in un modo o nell’altro, hai partecipato.

Immagino sappiano quello che scrivono, quelli che redigono le note biografiche. Probabilmente ad oggi sono circa 30, però. Non li ricordo tutti, per la maggior parte si tratta di particine. Sto recitando nel mio film Soap, ma non è ancora terminato. In quello di Ulrike Ottinger che abbiamo girato a Berlino, la mia partecipazione si sviluppa lungo l’intero film, Portrait of Dorian Gray on the Yellow Press. Nel corso della lavorazione ho conosciuto Delphine Seyrig e Verushka, che erano le «star» della produzione. Di nuovo inverno, pioggia, tempo terribile, e dovevamo girare in strani posti, una centrale nucleare, un «cimitero di marmo» – sai dove incidono le pietre tombali, in realtà non tumulano le persone in quel genere di posti – una delle mie scene era in una cabina telefonica, questo ENORME travestito vuole il telefono e io sono una agente segreto che spia Dorian Gray, lei/lui mi trascina fuori, intendo proprio fisicamente, mentre ho in mano la cornetta del telefono..

Ci racconti qualcosa di Cold in Colombia (Kalt im Kolumbien)?

Regia di Dieter Schidor, sceneggiatura di Burkhard Driest. Che dire di più? Realizzato subito dopo la morte di Rainer. Andammo a Cartagena per due mesi e mezzo. Fu spaventoso allora, immagino lo sia anche oggi. Io recitavo la parte di un fotoreporter.. il film fa schifo, non penso che Dieter la penserebbe diversamente se fosse ancora qui. Lavorai molto però. Se leggi il mio racconto Gone Tomorrow’s scoprirai che è la storia romanzata di quel film, con l’aggiunta di altre cose. Non mi va di entrare nei dettagli. La Betancour era ancora presidente della Colombia, all’epoca. Fu terribile girare un film in quel paese.

Hai lavorato anche in Terror 2000 di Christoph Schlingensief…

Certo, con Margit Castensen, Peter Kern e molti del gruppo di Fassbinder. In realtà io vengo ucciso proprio all’inizio del film, in uno scompartimento di un treno, dovevo suonare la chitarra e cantare, la mia parte era quella di una specie di assistente sociale che accoglie gli immigrati polacchi nella nuova riunita Germania; poi Udo Kier e la sua banda di terroristi dirottano il treno. Udo mi spara con un fucile mitragliatore. Un’altra spedizione a rischio polmonite. Giravamo a notte fonda, nei boschi, in questo campo di addestramento della STASI abbandonato, al freddo – era così gelido che le cariche elettriche che facevano esplodere il sangue finto continuavano ad innescarsi con un secondo di ritardo, così ogni volta dovevo lavarmi e cambiare il costume di scena, penso che avremo ripetuto la stessa scena almeno una decina di volte. Anche se vengo ucciso all’inizio della storia, tutto il film è incentrato su Margit e Peter che tentano di trovare il mio cadavere, quindi ho dovuto rimanere per settimane per poi, alla fine, essere finalmente scoperto sotto una lamiera.. i terroristi avevano truccato il mio viso per cambiarmi i connotati e mi avevano messo reggiseno e mutandine… tutti si sono presi la polmonite ad eccezione del regista. C’è anche un’altra cosa che poi abbiamo scoperto Udo ed io – noi due eravamo gli unici della troupe a bere ogni sera nell’unico locale nel campo di addestramento della STASI -: una sera abbiamo visto due uomini di mezza età, gli unici altri due clienti del locale, ci siamo avvicinati e ci siamo messi a chiacchierare. Udo gli chiese cosa stavano facendo lì, visto che il posto era stato abbandonato e noi eravamo alloggiati nelle ex baracche della STASI – e loro ci risposero «Siamo sminatori. Tutta la zona è stata minata dai tedeschi in ritirata e minata nuovamente dai russi, sapete quella zona attorno ai vagoni nei quali state girando il film? È tutta circondata da campi minati..». Così scoprimmo di essere letteralmente in un enorme campo minato ed ho il sospetto che Christoph lo sapesse. Noi, comunque, non lo sapevamo. Credo sperasse che saremmo stati fatti a pezzi da una esplosione proprio di fronte alla cinepresa. Udo revisionò le mie battute ogni giorno, poi ogni notte, quando giravamo in notturna e Christhoph mi ripeteva continuamente di parlare e cantare più speditamente. Il risultato fu che andai totalmente in confusione e scordai la canzone, le battute e tutto il resto. Così alla fine mi disse «Recita semplicemente in inglese».

cap011Recentemente, sei apparso nei panni di.. te steso nel film di Mike Hodges, Murder by Numbers…

Sì. Il mio film preferito, vuoi sapere la verità? Mi sono sentito talmente male sul volo per Londra che subito dopo aver posato le mie valige in hotel hanno dovuto mandare una autoambulanza per portarmi in ospedale. Mi diedero sette diversi medicinali per questa infezione alla gola, avrei dovuto prenderli tutti il giorno seguente e recitare, con piccole pause, per otto ore filate, come un mezzobusto televisivo. Ogni volta che c’era una pausa dovevo prendere una pillola diversa; in realtà alla fine della giornata non stavo neppure così male. Si trattava, comunque, delle ultime scene e così ci fu la festa conclusiva riservata alla troupe, in un ristorante. Dissi a Mike «Sinceramente, non avrei mai pensato di farcela, mi sentivo così male..» e lui mi rispose «Ora posso dirtelo, quando sei arrivato ho pensato che saresti crollato e morto sul posto. Poi, una volta accesa la cinepresa, ti sei acceso come un albero di Natale». Così decidemmo che se le nostre carriere non fossero andate bene, avremmo sempre potuto andare in quei reparti per malati terminali con una finta troupe e dire ai moribondi che li avremmo ripresi per un documentario.. si sarebbero di certo ripresi. Un’altra cosa a proposito di quel film: Barbet Schroeder stava scrivendo una serie intitolata Murder By Numbers quando il nostro film con lo stesso titolo stava per essere trasmesso dal canale IFC; siccome sono abbastanza amico di Barbet, continuavo a ripeterle «Barbet, il film che abbiamo girato Mike ed io ha lo stesso titolo» e Barbet mi rispondeva «Oh, ma la Paramount sta per cambiare il titolo, sono quasi sicura che cambieranno quel titolo» – e naturalmente la Paramount, o qualsiasi altro produttore fosse, non lo fece, così entrambi i film uscirono con lo stesso titolo. Naturalmente il nostro era un film per la televisione. Ma la gente li confuse comunque.

Si dice in giro che tu abbia rifiutato una parte nel film di Todd Haynes, è vero?

Ho rifiutato molte parti. Todd mi voleva nel suo primo film girato con non professionisti, Poison. Ma vedi, la mia parte non aveva battute, e io l’ho chiamato dopo aver letto il copione e gli ho detto «Todd, non posso partecipare ad un film senza dire una battuta..». Ho rifiutato anche un paio di cose hollywoodiane, scelta stupida perché avrei probabilmente fatto un sacco di soldi.. ma, mi piace rifiutare. Lo faccio praticamente tutti i giorni, per una cosa o per l’altra. Non necessariamente per cose correlate con il cinema, ma per qualsiasi cosa. Amo il rifiuto. E la contestazione.

Marzo 2008

[Traduzione di Manuel Galbiati]

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