philosophy and social criticism

Reddito di autodeterminazione o reddito di sudditanza?

di Andrea Fumagalli

intervento tratto da Effimera.org

E la montagna partorì il topolino. Questo sembra il commento a caldo più consono alla lettura della bozza del decreto legge che il governo dovrebbe approvare in questi giorni per rendere attuativa l’introduzione del cd. “reddito di cittadinanza”.

Si tratta comunque di un provvedimento che è meglio del nulla o del pochissimo (vedi Rei – Reddito di Inclusione) fin qui fatto dai governi precedenti in materia non di sostegno al reddito ma di contrasto alla povertà assoluta.

Perché di questo si tratta: di un provvedimento, che per la sua limitatezza e i vincoli imposti non va a incidere in modo significativo sulla distribuzione del reddito, né a invertire la sua polarizzazione, né a garantire la libera scelta del lavoro in opposizione al ricatto della precarietà. Incide piuttosto a limitare il disagio sociale connesso a situazioni di povertà estrema.

Prima di addentrarci nell’analisi degli articoli che spiegano la sua concreta attuazione, è necessario fornire un quadro generale.

Secondo i dati forniti dallo stesso governo, la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza dovrebbe essere di 1.437.000 famiglie: i nuclei che potranno accedere al beneficio composti di una sola persona saranno 387.000 pari a oltre un quarto del totale (1,64 miliardi la spesa per questa componente). Saranno 198.000 le famiglie coinvolte con cinque componenti o più per 1,4 miliardi di spesa. Per il 2019, la cifra messa a disposizione ammonta a 6,11 miliardi di euro, per poi salire a 7,77 nel 2020 e a 8,02 nel 2021 (art. 12).

Se questi dati vengono confermati, l’obiettivo dichiarato di portare tutti coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di 780 euro mensili appare difficilmente raggiungibile. Facendo infatti dei semplici calcoli matematici, la cifra media che spetta mensilmente a livello familiare sarebbe di 472 euro e, a livello individuale (per un numero complessivo di poco meno di 4,94 milioni, numero inferiore ai poveri stimati[1]), di 126 euro al mese. Occorre tuttavia tenere presente che il provvedimento ha come obiettivo l’integrazione a 780 euro mensili del reddito già disponibile e che quindi non tutti riceveranno l’intera somma – come invece vogliono far credere i detrattori e i media[2]. Più concretamente, gli importi su base annua sono composti di due elementi: una integrazione del reddito familiare di 6000 euro riparametrata al numero di componenti il nucleo e una componente ad integrazione del reddito per coloro che abitano in affitto, pari all’ammontare dell’affitto annuo stesso, fino ad un massimo di 3360 euro (art. 3). Di fatto, la soglia massima di reddito percepibile per chi è proprietario di casa non è più di 780 euro al mese ma di 500 euro.

Il reddito di cittadinanza potrà essere chiesto oltre che dai cittadini italiani in condizione di povertà anche dai comunitari e dagli extracomunitari purché abbiano un permesso di lungo soggiorno e siano residenti in via continuativa in Italia da almeno 10 anni al momento della presentazione della domanda. Si stima che le famiglie composte da soli stranieri che potrebbero accedere al reddito secondo le tabelle allegate al testo sono 259.000 per una spesa di 1,58 miliardi (18% del totale dei beneficiari, quando i poveri stranieri sono il 35% del totale dei poveri, il doppio).

L’erogazione del reddito di cittadinanza è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (DID) da parte dei componenti del nucleo familiare maggiorenni. Oltre alla DID, il disoccupato dovrà aderire ad un percorso personalizzato finalizzato all’inserimento lavorativo e inclusione sociale. Oltre a ciò, vi è l’obbligo di registrarsi sul sistema informativo unitario delle politiche del lavoro:

  1. svolgere ricerca attiva di lavoro;
  2. accettare di frequentare i corsi di formazione e riqualificazione professionale;
  3. sostenere test psico-attitudinali e prove finalizzate all’assunzione;
  4. accettare almeno una di 3 offerte di lavoro congrue.

Per offerta di lavoro congrua si intende quella che, a giudizio del Centro per l’Impiego (e non dell’interessato), viene valutata coerente con le esperienze e le competenze maturate, in relazione alla durata della disoccupazione, con una retribuzione superiore di almeno il 20 per cento rispetto alla indennità percepita nell’ultimo mese precedente, senza quindi alcuno stretto vincolo ai minimi tabellari. Tali criteri, seppur stabiliti per legge (art. 25, d. lgs 150/2015), sono comunque peggiorativi rispetto a una più corretta definizione di congruità dell’offerta di lavoro, come quella stabilità dalla legge di petizione popolare (tramutata nel disegno di legge n. 1670/2014): una remunerazione, come minimo, pari a quella precedentemente percepita dal soggetto interessato, il mantenimento della professionalità acquisita, della formazione ricevuta e del riconoscimento delle competenze formali e informali in suo possesso certificate dal Centro per l’Impiego territorialmente competente attraverso l’erogazione di un bilancio di competenze. Inoltre una sede di lavoro che non sia più distante di 50 km (oppure 80’ max di tempo di trasporto) dal luogo di residenza.

Con rispetto a quest’ultimo punto, si ha un netto peggioramento. Infatti si aggiungono i seguenti due criteri (art. 4, comma 9):

  • indipendentemente dalla composizione del nucleo familiare, entro 100 km di distanza dalla residenza del beneficiario nei primi 6 mesi di fruizione del RdC e entro i 250 km oltre i 6 mesi;
  • solo nel caso in cui nel nucleo familiare non siano presenti minori o disabili l’offerta è congrua ovunque nel territorio nazionale. In questo caso il beneficiario di RdC che accetta l’offerta di lavoro ha diritto a ricevere 3 mensilità di reddito di cittadinanza dopo l’inizio del nuovo impiego per coprire le spese di trasferimento.

Ne consegue che il soggetto beneficiario è indirettamente obbligato, pena la perdita del sussidio, ad accettare di fatto qualunque offerta viene proposta. E, tenendo conto che la maggior parte dei poveri (53%) sono situati nelle sole regioni meridionali e la maggioranza dei posti di lavoro si trovano invece nelle regioni settentrionali, è facile immaginarsi lo sviluppo di nuovi flussi migratori, finanziati dallo Stato e a vantaggio delle imprese del Nord.

Ed è proprio sul capitolo “aiuti alle imprese” che il reddito di cittadinanza mostra la sua vera natura, antitetica agli obiettivi inizialmente dichiarati. Dall’essere una misura a favore del miglioramento della distribuzione de reddito e della riduzione delle diseguaglianze economiche in nome di una maggior libertà di autodeterminazione del lavoro (con effetti positivi anche sulla produttività), diventa una sorta di indiretta politica dell’offerta, finalizzata ad incentivare assunzioni sotto qualificate a costi ridotti per le imprese.

I  datori di lavoro che si registrano al portale del programma del reddito di cittadinanza e assumono un lavoratore e non lo licenziano nei primi 24 mesi (tranne che per giusta causa e giustificato motivo!)  potranno, infatti, ricevere sotto forma di sgravio contributivo la differenza fra 18 mesi di RdC meno le mensilità già fruite (se il lavoratore proviene da un  Centro per l’Impiego), oppure la metà della predetta somma sotto forma di sgravio contributivo se il lavoratore proviene da un agenzia del lavoro privata. L’altra metà dell’incentivo spetterà all’Agenzia (privata) sempre sotto forma di sgravio contributivo (Art. 8). Si finanziano così anche  le agenzie per il lavoro interinale!

In questo caso, la decontribuzione avviene tramite il fondo istituito per il RdC, comunque sempre dall’Inps, e non direttamente dall’Inps, come nel caso degli incentivi alla assunzioni stabilite dal Jobs Act. Ma la sostanza non cambia.

Last, but not least, il reddito viene erogato attraverso un apposita carta RdC. Può essere usato per tutte le spese già previste per la cosiddetta Carta Acquisti (pagamento bollette, spesa alimentare ecc.). In tal modo, con l’esclusione di una cifra pari a 100 euro (che potrà essere prelevata in contanti), si potrà monitorare il tipo di acquisti fatto e in tal modo eventualmente intervenire se la spesa viene ritenuta non consona allo stato sociale, sino a poter  incorrere in penalità e sospensioni del provvedimento nel caso di spese per il gioco d’azzardo.

Il provvedimento si presenta così in linea con le premesse: una misura di controllo sociale, sostanzialmente di inserimento coattivo al lavoro, fortemente selettivo e non per tutti coloro che si trovano in povertà relativa, la vera misura della povertà. Ma neanche tutti coloro che si trovano in povertà assoluta potranno  godere del provvedimento, in particolare i migranti poveri, che non hanno una continuità di residenza i Italia da 10 anni (e che sono la maggioranza).

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La bozza del decreto-legge prevede anche l’introduzione per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore ai 65 anni di una pensione di cittadinanza, di pari ammontare al RdC, la cui erogazione è di fatto incondizionata, a parte i vincoli sul consumo.

Si tratta di un provvedimento da valutare positivamente, in grado di ridurre il numero dei pensionati poveri, al di sotto della soglia della povertà assoluta. Ed è strano che tale misura venga poco reclamizzata anche dagli stessi proponenti, forse proprio l’incondizionatezza di cui gode (un precedente pericoloso?).

Ma, allo stesso tempo, conferma come questo provvedimento nella sua globalità non sia uno strumento adeguato a combattere il dilagare della condizione precaria, che colpisce soprattutto i giovani e che rappresenta il vulnus più rilevante della debolezza strutturale dell’economia italiana e della sua incapacità di crescere.

Al riguardo, non può stupire che il Rdc venga considerato compatibile con la NASpI e di “altro strumento di sostegno al reddito ove ricorrano le condizioni”[3] (art. 3, comma 9), evidenziando come in realtà, nonostante quanto dichiarato, l’unica misura di sussidio di disoccupazione che può essere utilizzato dai precari, non sia inglobata in una riforma complessiva e più ampia degli ammortizzatori sociali.

Né vi è traccia di alcuna misura tesa all’introduzione di un salario minimo contrattuale, laddove il/la lavoratrice non è coperto da contrattazione collettiva.

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Le lacune, gli scarsi finanziamenti,  le condizioni e i vincoli posti mostrano che tale misura rientra a tutti gli effetti all’interno di un sistema di workfare, di matrice social-liberista. Ma la tematica è oramai di dominio pubblico, seppur in modo distorto. Potrebbe essere un’occasione da cogliere per imbastire un’offensiva politica, in grado di denunciare il disegno sottostante e per aprire spazi di liberazione conflittuale. E per una nuova idea di welfare (Commonfare).

Note

[1]Secondo i dati Istat, i poveri assoluti in Italia al 2017 erano 5,058 milioni e i poveri relativi 9,368.

[2]Ad esempio, si legga l’articolodi Enrico Marro sul Corriere della Sera del 7 gennaio 2019

[3]Che non vengono specificate.

[cite]

 

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